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Incidenza delle fonti comunitarie e delle norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo nell’azione amministrativa. Effetti sul provvedimento amministrativo contrastante

La prevalenza delle fonti comunitarie su quelle interne è sancita dall’art. 249 del Trattato istitutivo della Comunità Europea. In forza di tale norma, per il caso di violazione del diritto dell’Unione, il giudice dello Stato Membro è tenuto a disapplicare la disciplina nazionale contrastante, operandosi così un sindacato diffuso.

Il contrasto con il diritto dell’Unione, può tuttavia derivare non solo da norma di legge, ma anche dall’atto amministrativo. In questo senso, analogamente a quanto accade per il vizio di incostituzionalità, può parlarsi di anticomunitarietà diretta o indiretta. La prima, qualora il provvedimento sia di per sé contrario alle fonti comunitarie, la seconda, nel caso in cui esso sia conforme alla norma nazionale anticomunitaria.

Gli effetti dell’influenza del diritto U.E. sull’azione amministrativa negli Stati Membri, hanno condotto, nella riflessione giurisprudenziale sia interna che della Corte di Giustizia, a risultati difformi, condizionati dall’adesione alla concezione della separatezza o, viceversa, dell’integrazione fra ordinamenti.

Nell’impostazione più risalente, nel caso di anticomunitarietà indiretta dell’atto, il rimedio era dato dalla nullità o inesistenza dello stesso. In particolare, tale esito veniva determinato in seguito all’espunzione dall’ordinamento della norma interna contrastante con la fonte comunitaria. Con il venir meno di tale norma presupposta all’atto, questo sarebbe stato emanato in carenza di potere e, pertanto, nullo, o, secondo la terminologia utilizzata da tale corrente interpretativa, inesistente. Il vizio in questione sarebbe stato originario quoad effectum, stante la retroattività della pronuncia, ma sopravvenuto quoad causam, considerando la norma eliminata efficace solo medio tempore. In quest’ottica, non sarebbe infine possibile ancorare l’atto amministrativo alla fonte comunitaria, proprio in forza della separatezza tra gli ordinamenti.

Analogamente, neppure nell’ipotesi di anticomunitarietà diretta dell’atto, sarebbe utilizzabile quale parametro per la legittimità di esso la norma dell’U.E., proprio in virtù dell’”incomunicabilità” tra i due sistemi, dovendosi piuttosto fare riferimento ad altre norme nazionali, in grado di fungere da canone valutativo per il vaglio di coerenza del provvedimento con l’assetto statale.

Alla luce di tale ricostruzione, il parallelismo tra anticomunitarietà ed anticostituzionalità verrebbe in realtà frustrato: in effetti, la sanzione che l’ordinamento appronta per la contrarietà dell’atto alla Costituzione è l’annullabilità, per cui si applica al caso in questione il consueto termine decadenziale di impugnazione, ciò che non si verificherebbe nell’ipotesi dell’anticomunitarietà.

La ricostruzione in termini di separatezza tra gli ordinamenti, oltre ad essere sconfessata dalla Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, che si è espressa in sede di rinvio pregiudiziale, presta il fianco a critiche ulteriori: in primo luogo la discutibile identità tra nullità ed inesistenza, posto che dalla nullità derivano comunque effetti, in radice preclusi per l’atto inesistente, che non presenta neppure i requisiti minimi per riconoscerlo come appartenente alla categoria; in secondo luogo la ricorrenza della carenza assoluta di potere, posto che la norma attributiva è, a ben vedere, efficace prima del vaglio di comunitarietà.

L’impostazione che accede invece all’integrazione tra il sistema comunitario e quello nazionale, identifica quale rimedio per il contrasto con la fonte dell’Unione, l’annullabilità dell’atto amministrativo, alla quale si applica la disciplina ordinaria. Tale ricostruzione parte dal presupposto per cui anche le norme U.E. siano idonee a fungere da parametro per il controllo di legittimità, alla luce della compenetrazione tra i due ordinamenti.

Questa tesi ha il pregio di superare le aporie derivanti dalla concezione della separatezza, nonché di rendere omogeneo lo strumento risolutivo dell’anticomunitarietà del provvedimento con quello utilizzato per l’anticostituzionalità.

Pertanto, anche nel caso di contrasto con la norma U.E., l’atto sarà impugnabile nel consueto termine di decadenza.

La Corte del Lussemburgo, interrogata in sede di rinvio pregiudiziale sull’identificazione del rimedio utilizzabile dal giudice interno per il caso di atti amministrativi contrastanti con le fonti comunitarie, pur prediligendo l’impostazione dell’integrazione, ha valorizzato l’autonomia del Legislatore nazionale nella scelta dei metodi funzionali alla rimozione del vizio. La Giurisprudenza comunitaria ha negato, pertanto, l’obbligatorietà della disapplicazione del provvedimento anticomunitario, modulata sulla falsariga dello strumento utilizzabile per le norme interne contrastanti con le fonti comunitarie.

Questa regola generale, non conduce al paradosso per cui il diritto U.E. risulterebbe “depotenziato” nei confronti del provvedimento contrastante, essendone necessaria l’impugnazione sottoposta a decadenza, mentre ciò non si verifica in presenza di norma nazionale anticomunitaria. Lo strumento dell’annullabilità è infatti frutto di una tradizione costituzionale diffusa negli Stati Membri, al cui rispetto sono tenute anche le fonti dell’Unione. Inoltre, si sollecita in questo modo una riflessione maggiore in capo al ricorrente, che è portato a valutare la lesione dei propri interessi in un’ottica più ampia, per così dire, “sovranazionale”.

Tuttavia, pur nel suddetto riconoscimento dell’autonomia, la Corte ha affermato la necessità di applicare i principi di effettività della tutela e di equivalenza delle posizioni soggettive comunitarie rispetto a quelle derivanti dal diritto interno. In questo senso, il limite del termine decadenziale a cui l’azione di annullamento è sottoposta, verrebbe meno qualora sussistesse l’esigenza di dare concreta attuazione a tali principi. Pertanto, il giudice interno dovrebbe consentire l’ingresso nel processo del vizio di anticomunitarietà -ciò che è in particolare affermato per il caso di un bando di gara- anche se tardivamente sollevato. La Corte di Giustizia Europea delinea così un sistema basato sul binomio regola/eccezione, dove la prima si identifica nella libertà del Legislatore interno e la seconda nella sua limitazione funzionale al rispetto dell’effettività e dell’equivalenza.

Nondimeno, nel caso specifico, non si dà ingresso ad una disapplicazione amministrativa, bensì si fa luogo alla consueta disapplicazione normativa, in particolare relativa alla disciplina sui termini di decadenza. Non può peraltro accomunarsi la disapplicazione della norma a quella del provvedimento, poiché la prima consiste in un rimedio prodromico al rispetto della gerarchia delle fonti, mentre il secondo verrebbe in considerazione quale strumento di tutela della legalità.

Quanto al potere di autotutela, anche su questo tema la Corte del Lussemburgo ripropone lo schema “regola/eccezione”. Infatti, dopo il riconoscimento della natura discrezionale dell’autotutela amministrativa, in seno agli Stati Membri, che non può trasformarsi in intervento dovuto per il caso di contrasto con la norma comunitaria, viene tuttavia individuata una deroga a tale regola generale. Nel caso in cui, a seguito di una sentenza definitiva che accerti l’assenza del vizio di anticomunitarietà sulla base di un’interpretazione del diritto dell’Unione, successivamente modificata dalla Corte di Giustizia Europea, nonché in presenza di istanza di parte alla revisione, l’autotutela diviene obbligatoria.

Peraltro, conformemente a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale in una pronuncia del 2007, relativamente alla legittimità del sistema di liquidazione dell’indennizzo a seguito di espropriazione, nel caso di assoluta incompatibilità tra diritto U.E. e diritto interno, è necessario riconoscere la prevalenza di quest’ultimo.

Tale assunto viene ripreso anche dalla Giurisprudenza amministrativa di merito del Tar Sicilia, in relazione ad un bando contrastante con la normativa comunitaria, ma dal contenuto conforme a quella nazionale. Stante la “doverosità” del provvedimento, ne deriverebbe, secondo la ricostruzione fornita da tale Giudicante, il mantenimento del contenuto, in quanto individuabile come l’unico possibile in concreto. Il provvedimento non potrebbe essere pertanto caducato, riconoscendosi tuttavia, in questi casi, tutela per equivalente.

Quanto all’ incidenza dei principi CEDU sull’agire amministrativo, questa è divenuta oggetto di dibattito in seguito alla modifica apportata dal Trattato di Lisbona del 2007 al Trattato Istitutivo CEE. In particolare, all’art. 6, si statuiscono l’adesione dell’Unione alla CEDU ed il riconoscimento dei diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione, come facenti parte del diritto U.E., in quanto principi generali.

Questa norma ha generato un dibattito in ordine alla sua reale portata, con il conseguente affermarsi di contrapposte posizioni: l’una, riconducibile alla Giurisprudenza amministrativa, favorevole all’inserzione dei principi CEDU entro le fonti comunitarie, l’altra, propria della Corte Costituzionale, che si assesta invece su posizioni più restrittive.

Il primo significativo arresto sul tema, si rinviene nelle “sentenze gemelle” n. 348 e 349 del 2007, ad opera del Giudice delle Leggi. In esse, sostanzialmente, la Corte, pur riconoscendo il superamento del precedente ruolo dei suddetti principi quali meri criteri orientativi, specie in ordine all’evoluzione dei “nuovi diritti”, non giunge ad affermare il riconoscimento delle norme CEDU quali fonti del diritto U.E.. In particolare, tale non sarebbe stata la volontà del Legislatore comunitario, non risultando l’utilizzo di espressioni analoghe a quelle adoperate dal Trattato Istitutivo CEE nei riguardi della Carta di Nizza, della quale si afferma “il medesimo valore giuridico dei Trattati”. Inoltre, poiché l’Unione presenta una propria soggettività giuridica distinta da quella degli Stati Membri, l’adesione alla CEDU sarebbe riconducibile solo all’U.E., secondo il tenore letterale della disposizione, che non menziona esplicitamente tali ulteriori soggetti. Da ultimo, la Corte sottolinea l’assenza dell’avvio di un iter finalizzato all’adesione ai suddetti principi.

In quest’ottica, la funzione delle norme della Convenzione, sarebbe quella di “parametro interposto”, richiamato ai sensi dell’art. 117 Cost., all’interno del giudizio di legittimità costituzionale, senza la possibilità di una diretta applicabilità dello stesso, in forza dell’art. 11 Cost..

Una simile ricostruzione, è stata peraltro ribadita nel 2011 ad opera del medesimo Giudice, chiamato a pronunciarsi in tema di compatibilità con il diritto comunitario della norma nazionale che esclude la pubblica udienza nei giudizi ad opera della Corte di Cassazione. In tale sede, la Consulta conferma che dal rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali, approntato dal Trattato di Lisbona tramite il riferimento alla CEDU, al riconoscimento della Carta dei Diritti Fondamentali come avente efficacia analoga a quella dei Trattati, nonché ai principi desunti dalla tradizione costituzionale degli Stati Membri e dalla Giurisprudenza comunitaria, non derivi tuttavia la diretta applicabilità della Convenzione negli ordinamenti nazionali.

Nell’impostazione della Giurisprudenza amministrativa, in particolare del Consiglio di Stato e del Tar Lazio, la novella apportata dal Trattato di Lisbona, determinerebbe invece la diretta applicabilità delle norme CEDU, sia in quanto immediatamente idonee ad attribuire diritti ai singoli, azionabili dinanzi alla Corte EDU, sia in quanto self executing, poiché non condizionate nell’esecuzione.

Alla luce di tale “comunitarizzazione” dei vincoli pattizi della Convenzione, il controllo accentrato operato dalla Corte di Costituzionalità risulterebbe dunque destinato a venire meno. Sarebbe infatti il giudice comune a procedere alla disapplicazione della norma contrastante in forza delle limitazioni alla sovranità nazionale riconosciute dall’art. 11 Cost., laddove non fosse possibile offrire un’interpretazione conforme a tali principi generali.

La prevalenza delle fonti comunitarie su quelle interne è sancita dall’art. 249 del Trattato istitutivo della Comunità Europea. In forza di tale norma, per il caso di violazione del diritto dell’Unione, il giudice dello Stato Membro è tenuto a disapplicare la disciplina nazionale contrastante, operandosi così un sindacato diffuso.

Il contrasto con il diritto dell’Unione, può tuttavia derivare non solo da norma di legge, ma anche dall’atto amministrativo. In questo senso, analogamente a quanto accade per il vizio di incostituzionalità, può parlarsi di anticomunitarietà diretta o indiretta. La prima, qualora il provvedimento sia di per sé contrario alle fonti comunitarie, la seconda, nel caso in cui esso sia conforme alla norma nazionale anticomunitaria.

Gli effetti dell’influenza del diritto U.E. sull’azione amministrativa negli Stati Membri, hanno condotto, nella riflessione giurisprudenziale sia interna che della Corte di Giustizia, a risultati difformi, condizionati dall’adesione alla concezione della separatezza o, viceversa, dell’integrazione fra ordinamenti.

Nell’impostazione più risalente, nel caso di anticomunitarietà indiretta dell’atto, il rimedio era dato dalla nullità o inesistenza dello stesso. In particolare, tale esito veniva determinato in seguito all’espunzione dall’ordinamento della norma interna contrastante con la fonte comunitaria. Con il venir meno di tale norma presupposta all’atto, questo sarebbe stato emanato in carenza di potere e, pertanto, nullo, o, secondo la terminologia utilizzata da tale corrente interpretativa, inesistente. Il vizio in questione sarebbe stato originario quoad effectum, stante la retroattività della pronuncia, ma sopravvenuto quoad causam, considerando la norma eliminata efficace solo medio tempore. In quest’ottica, non sarebbe infine possibile ancorare l’atto amministrativo alla fonte comunitaria, proprio in forza della separatezza tra gli ordinamenti.

Analogamente, neppure nell’ipotesi di anticomunitarietà diretta dell’atto, sarebbe utilizzabile quale parametro per la legittimità di esso la norma dell’U.E., proprio in virtù dell’”incomunicabilità” tra i due sistemi, dovendosi piuttosto fare riferimento ad altre norme nazionali, in grado di fungere da canone valutativo per il vaglio di coerenza del provvedimento con l’assetto statale.

Alla luce di tale ricostruzione, il parallelismo tra anticomunitarietà ed anticostituzionalità verrebbe in realtà frustrato: in effetti, la sanzione che l’ordinamento appronta per la contrarietà dell’atto alla Costituzione è l’annullabilità, per cui si applica al caso in questione il consueto termine decadenziale di impugnazione, ciò che non si verificherebbe nell’ipotesi dell’anticomunitarietà.

La ricostruzione in termini di separatezza tra gli ordinamenti, oltre ad essere sconfessata dalla Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, che si è espressa in sede di rinvio pregiudiziale, presta il fianco a critiche ulteriori: in primo luogo la discutibile identità tra nullità ed inesistenza, posto che dalla nullità derivano comunque effetti, in radice preclusi per l’atto inesistente, che non presenta neppure i requisiti minimi per riconoscerlo come appartenente alla categoria; in secondo luogo la ricorrenza della carenza assoluta di potere, posto che la norma attributiva è, a ben vedere, efficace prima del vaglio di comunitarietà.

L’impostazione che accede invece all’integrazione tra il sistema comunitario e quello nazionale, identifica quale rimedio per il contrasto con la fonte dell’Unione, l’annullabilità dell’atto amministrativo, alla quale si applica la disciplina ordinaria. Tale ricostruzione parte dal presupposto per cui anche le norme U.E. siano idonee a fungere da parametro per il controllo di legittimità, alla luce della compenetrazione tra i due ordinamenti.

Questa tesi ha il pregio di superare le aporie derivanti dalla concezione della separatezza, nonché di rendere omogeneo lo strumento risolutivo dell’anticomunitarietà del provvedimento con quello utilizzato per l’anticostituzionalità.

Pertanto, anche nel caso di contrasto con la norma U.E., l’atto sarà impugnabile nel consueto termine di decadenza.

La Corte del Lussemburgo, interrogata in sede di rinvio pregiudiziale sull’identificazione del rimedio utilizzabile dal giudice interno per il caso di atti amministrativi contrastanti con le fonti comunitarie, pur prediligendo l’impostazione dell’integrazione, ha valorizzato l’autonomia del Legislatore nazionale nella scelta dei metodi funzionali alla rimozione del vizio. La Giurisprudenza comunitaria ha negato, pertanto, l’obbligatorietà della disapplicazione del provvedimento anticomunitario, modulata sulla falsariga dello strumento utilizzabile per le norme interne contrastanti con le fonti comunitarie.

Questa regola generale, non conduce al paradosso per cui il diritto U.E. risulterebbe “depotenziato” nei confronti del provvedimento contrastante, essendone necessaria l’impugnazione sottoposta a decadenza, mentre ciò non si verifica in presenza di norma nazionale anticomunitaria. Lo strumento dell’annullabilità è infatti frutto di una tradizione costituzionale diffusa negli Stati Membri, al cui rispetto sono tenute anche le fonti dell’Unione. Inoltre, si sollecita in questo modo una riflessione maggiore in capo al ricorrente, che è portato a valutare la lesione dei propri interessi in un’ottica più ampia, per così dire, “sovranazionale”.

Tuttavia, pur nel suddetto riconoscimento dell’autonomia, la Corte ha affermato la necessità di applicare i principi di effettività della tutela e di equivalenza delle posizioni soggettive comunitarie rispetto a quelle derivanti dal diritto interno. In questo senso, il limite del termine decadenziale a cui l’azione di annullamento è sottoposta, verrebbe meno qualora sussistesse l’esigenza di dare concreta attuazione a tali principi. Pertanto, il giudice interno dovrebbe consentire l’ingresso nel processo del vizio di anticomunitarietà -ciò che è in particolare affermato per il caso di un bando di gara- anche se tardivamente sollevato. La Corte di Giustizia Europea delinea così un sistema basato sul binomio regola/eccezione, dove la prima si identifica nella libertà del Legislatore interno e la seconda nella sua limitazione funzionale al rispetto dell’effettività e dell’equivalenza.

Nondimeno, nel caso specifico, non si dà ingresso ad una disapplicazione amministrativa, bensì si fa luogo alla consueta disapplicazione normativa, in particolare relativa alla disciplina sui termini di decadenza. Non può peraltro accomunarsi la disapplicazione della norma a quella del provvedimento, poiché la prima consiste in un rimedio prodromico al rispetto della gerarchia delle fonti, mentre il secondo verrebbe in considerazione quale strumento di tutela della legalità.

Quanto al potere di autotutela, anche su questo tema la Corte del Lussemburgo ripropone lo schema “regola/eccezione”. Infatti, dopo il riconoscimento della natura discrezionale dell’autotutela amministrativa, in seno agli Stati Membri, che non può trasformarsi in intervento dovuto per il caso di contrasto con la norma comunitaria, viene tuttavia individuata una deroga a tale regola generale. Nel caso in cui, a seguito di una sentenza definitiva che accerti l’assenza del vizio di anticomunitarietà sulla base di un’interpretazione del diritto dell’Unione, successivamente modificata dalla Corte di Giustizia Europea, nonché in presenza di istanza di parte alla revisione, l’autotutela diviene obbligatoria.

Peraltro, conformemente a quanto stabilito dalla Corte Costituzionale in una pronuncia del 2007, relativamente alla legittimità del sistema di liquidazione dell’indennizzo a seguito di espropriazione, nel caso di assoluta incompatibilità tra diritto U.E. e diritto interno, è necessario riconoscere la prevalenza di quest’ultimo.

Tale assunto viene ripreso anche dalla Giurisprudenza amministrativa di merito del Tar Sicilia, in relazione ad un bando contrastante con la normativa comunitaria, ma dal contenuto conforme a quella nazionale. Stante la “doverosità” del provvedimento, ne deriverebbe, secondo la ricostruzione fornita da tale Giudicante, il mantenimento del contenuto, in quanto individuabile come l’unico possibile in concreto. Il provvedimento non potrebbe essere pertanto caducato, riconoscendosi tuttavia, in questi casi, tutela per equivalente.

Quanto all’ incidenza dei principi CEDU sull’agire amministrativo, questa è divenuta oggetto di dibattito in seguito alla modifica apportata dal Trattato di Lisbona del 2007 al Trattato Istitutivo CEE. In particolare, all’art. 6, si statuiscono l’adesione dell’Unione alla CEDU ed il riconoscimento dei diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione, come facenti parte del diritto U.E., in quanto principi generali.

Questa norma ha generato un dibattito in ordine alla sua reale portata, con il conseguente affermarsi di contrapposte posizioni: l’una, riconducibile alla Giurisprudenza amministrativa, favorevole all’inserzione dei principi CEDU entro le fonti comunitarie, l’altra, propria della Corte Costituzionale, che si assesta invece su posizioni più restrittive.

Il primo significativo arresto sul tema, si rinviene nelle “sentenze gemelle” n. 348 e 349 del 2007, ad opera del Giudice delle Leggi. In esse, sostanzialmente, la Corte, pur riconoscendo il superamento del precedente ruolo dei suddetti principi quali meri criteri orientativi, specie in ordine all’evoluzione dei “nuovi diritti”, non giunge ad affermare il riconoscimento delle norme CEDU quali fonti del diritto U.E.. In particolare, tale non sarebbe stata la volontà del Legislatore comunitario, non risultando l’utilizzo di espressioni analoghe a quelle adoperate dal Trattato Istitutivo CEE nei riguardi della Carta di Nizza, della quale si afferma “il medesimo valore giuridico dei Trattati”. Inoltre, poiché l’Unione presenta una propria soggettività giuridica distinta da quella degli Stati Membri, l’adesione alla CEDU sarebbe riconducibile solo all’U.E., secondo il tenore letterale della disposizione, che non menziona esplicitamente tali ulteriori soggetti. Da ultimo, la Corte sottolinea l’assenza dell’avvio di un iter finalizzato all’adesione ai suddetti principi.

In quest’ottica, la funzione delle norme della Convenzione, sarebbe quella di “parametro interposto”, richiamato ai sensi dell’art. 117 Cost., all’interno del giudizio di legittimità costituzionale, senza la possibilità di una diretta applicabilità dello stesso, in forza dell’art. 11 Cost..

Una simile ricostruzione, è stata peraltro ribadita nel 2011 ad opera del medesimo Giudice, chiamato a pronunciarsi in tema di compatibilità con il diritto comunitario della norma nazionale che esclude la pubblica udienza nei giudizi ad opera della Corte di Cassazione. In tale sede, la Consulta conferma che dal rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali, approntato dal Trattato di Lisbona tramite il riferimento alla CEDU, al riconoscimento della Carta dei Diritti Fondamentali come avente efficacia analoga a quella dei Trattati, nonché ai principi desunti dalla tradizione costituzionale degli Stati Membri e dalla Giurisprudenza comunitaria, non derivi tuttavia la diretta applicabilità della Convenzione negli ordinamenti nazionali.

Nell’impostazione della Giurisprudenza amministrativa, in particolare del Consiglio di Stato e del Tar Lazio, la novella apportata dal Trattato di Lisbona, determinerebbe invece la diretta applicabilità delle norme CEDU, sia in quanto immediatamente idonee ad attribuire diritti ai singoli, azionabili dinanzi alla Corte EDU, sia in quanto self executing, poiché non condizionate nell’esecuzione.

Alla luce di tale “comunitarizzazione” dei vincoli pattizi della Convenzione, il controllo accentrato operato dalla Corte di Costituzionalità risulterebbe dunque destinato a venire meno. Sarebbe infatti il giudice comune a procedere alla disapplicazione della norma contrastante in forza delle limitazioni alla sovranità nazionale riconosciute dall’art. 11 Cost., laddove non fosse possibile offrire un’interpretazione conforme a tali principi generali.