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La compensazione nello Statuto dei diritti del contribuente

E’ recente la introduzione dell’istituto della compensazione nell’ordinamento tributario ed è mio intento analizzarne la genesi normativa ricostruendo il fenomeno compensativo per mezzo di una ricerca scientifica che non si fermi al momento della genesi normativa di tale meccanismo estintivo, ma lo segua nelle sue fasi evolutive fino a giungere all’odierna esigenza di giustizia che ne rende, a mio parere, imprescindibile l’applicazione in ambito tributario secondo consolidati schemi civilistici, operando una trasposizione che ha il proprio asse normativo nell’articolo 8 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Quando sussistono reciproche pretese creditorie, le obbligazioni che ne sono espressione si estinguono fino alla concorrenza dello stesso valore[1] per il dispiegarsi della compensazione, che è legale ove tali crediti-debiti siano omogenei, liquidi ed esigibili[2].

La Suprema Corte ha recentemente affermato[3] che l’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente rinvia alla disciplina civilistica, recependo i canoni del codice civile in tema di estinzione delle obbligazioni con la modalità compensativa[4].

La compensazione, dunque, in campo tributario è una possibile modalità estintiva delle obbligazioni tributarie, solo nei casi espressamente contemplati dal legislatore e la Corte di Cassazione ha affermato la necessaria previa emanazione della disciplina di attuazione, per l’applicazione della compensazione come modalità estintiva delle obbligazioni stabilita quale principio generale dell’ordinamento tributario, così come previsto dall’art. 8 dello Statuto, ribadendo che tale modalità estintiva opera solamente nei casi in cui essa sia espressamente prevista dal legislatore tributario[5].

Il principio generale del codice civile sulla compensazione come modo di estinzione dell’obbligazione è stato recepito dal legislatore tributario con la Legge 27 Luglio 2000, n. 212[6] e costituisce una novità significativa perché anteriormente l’obbligazione tributaria non ammetteva tra i modi estintivi quello della compensazione: l’ostacolo era ravvisato con chiarezza dalla dottrina[7] nella indisponibilità del credito tributario, nell’art 225 del R.D. 22 maggio 1924, n. 827[8] e nell’art. 1246 n. 3) del codice civile, in cui si fa divieto di compensare i crediti impignorabili, come sono i crediti che derivano da rapporti di diritto pubblico e quindi quelli di natura tributaria.

Nessun ostacolo invece, pare a me sia possibile ravvisare nella previsione del legislatore costituzionale che all’art. 23 stabilisce che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non ha fondamento nella legge: tale limite, il cd. principio di legalità, confina l’operatività delle prestazioni patrimoniali (e anche personali) alle previsioni legislative (nullum tributum sine lege; no taxation without representation)[9].

L’obbligazione da compensare esiste già e anche nel caso della pretesa del contribuente di opporre un credito in compensazione, non è l’esistenza delle obbligazioni che viene in rilievo ma la sua modalità di estinzione.

Pare a me sia utile chiedersi se sia possibile parlare di attribuzione nell’ordinamento tributario di diritto alla compensazione a favore del contribuente, nonostante, come si dirà nel proseguo,anche indicando le sedi del fenomeno compensativo, la compensazione come principio generale operante nel fisco è sancita solamente come modalità generale di estinzione dell’obbligazione tributaria diversa dall’adempimento, ma non è stata attuata con il regolamento che ha il compito di disciplinarla dettagliatamente, così come sancito nello stesso art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, che la fa assurgere a principio generale dell’ordinamento tributario lasciandone però l’attuazione a un regolamento ministeriale da emanare ex L. 400/1988.

Io credo che sia possibile compiere una riflessione analoga a quanto è accaduto per le direttive della Unione Europea, nelle quali sono stabiliti obiettivi che gli Stati membri perseguono scegliendo il mezzo che ritengono più opportuno, autonomamente, e nelle quali, se è sancito un diritto al quale non è data esecuzione dal legislatore ordinario, tale diritto sarà comunque ritenuto valido e operante in capo al cittadino[10].

Quindi, se come pare a me, la compensazione, pur garantita come principio, nonostante le carenze organizzative del legislatore regolamentare[11], sia un diritto effettivo e valido del contribuente, restano da precisare le modalità compensative, le sedi processuali e sostanziali e gli eventuali limiti dell’istituto, che a mio avviso vanno ravvisati nei principi generali dell’ordinamento, per quanto attiene la negoziazione del “patto compensativo” tra contribuente e Amministrazione finanziaria, sanciti nell’art. 1322 del codice civile, nel quale si prevede il riconoscimento giuridico agli interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, e quindi al di là dei limiti stessi della disciplina civilistica degli artt. 1241 e segg. .

Pare a me che sia possibile tracciare l’evoluzione normativa della disciplina tributaria in tema di compensazione e dei meccanismi ad essa riconducibili[12], in cinque fasi:

Una prima forma di compensazione è stata prevista con riferimento a debiti e crediti riguardanti la medesima imposta e con limiti temporali (si tratta della cosiddetta “compensazione verticale” disciplinata dall’art. 11, comma 3, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917).

La seconda forma di compensazione è prevista nell’art. 17 del D. Lgs 9 Luglio 1997, n. 241, che estende la possibilità di estinguere le obbligazioni attraverso la compensazione, ai tributi non omogenei e prevede la possibilità di applicare l’istituto della compensazione al momento del versamento unitario di diverse imposte e contributi (cosiddetta “compensazione speciale”).

Il legislatore, modificando successivamente il suddetto art. 17 (ad es., tramite l’art. 28 legge 23 dicembre 2000, n. 388, artt. 4 ed 8 DPR 14 ottobre 1999,n. 542), ha reso sempre più amplia l’area di operatività della compensazione facendovi rientrare il ravvedimento operoso del contribuente e l’accertamento con adesione. Questa disciplina ha uno spazio operativo nettamente maggiore rispetto a quello della compensazione descritta negli artt. 1241 e seguenti del codice civile, perché qui è possibile che vi sia diversità delle posizioni soggettive nelle reciproche obbligazioni e che tale istituto trovi addirittura applicazione con riferimento a debiti o crediti vantati dal soggetto verso l’Erario e debiti o crediti di cui il soggetto è titolare nei confronti di altri enti[13], mentre nella disciplina civilistica è requisito necessario delle obbligazioni da estinguere con compensazione, la coincidenza dei soggetti nelle posizioni debitorie e creditorie.

Una profonda innovazione è stata introdotta con lo “Statuto dei diritti del contribuente” in cui si afferma che “ l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”. Il contribuente si vede riconosciuto il diritto di utilizzare i propri crediti per compensare i debiti nei confronti dello Stato. C’è un rinvio del legislatore tributario alla disciplina codicistica, ma ciò non autorizza l’interprete a fare riferimento interamente alla regolamentazione del diritto civile in campo tributario; sono ovviamente esclusi dall’ambito di applicazione dell’istituto della compensazione disciplinato dal diritto comune, i casi di compensazione contabile, la quale riguarda un rapporto unitario ed è specificamente disciplinata.

La quinta e ultima fase per la piena operatività dell’istituto di cui trattasi, pare a me si debba ravvisare nell’apposito regolamento, ancora non emanato, a cui è demandata la concreta disciplina della compensazione tributaria. Parte della dottrina[14] sostiene che, in attesa della emanazione del regolamento, ai sensi dell’art. 17, comma 2 della L. 23 Agosto 1988, n. 400, la normativa statuaria non sia applicabile; dovrà quindi continuarsi ad applicare, secondo tale orientamento, la disciplina anteriore[15], in cui la compensazione è consentita solo ove espressamente prevista[16].

Nell’ambito della “Tutela dell’integrità patrimoniale”[17] di cui si occupa l’art. 8 dello Statuto, è intervenuto il giudice di legittimità con sentenza del 20 novembre 2001, n. 14579, in cui si afferma che la legge speciale deroga lo Statuto medesimo in tema di Iva a causa della sua analiticità e specificità, quindi l’istituto della compensazione può essere applicato solo nei casi specificamente previsti dalla normativa tributaria.

L’art. 8 dello Statuto, all’ultimo comma merita attenta riflessione perché in esso si esclude la delegificazione della disciplina codicistica di cui agli artt. 1241 ss., e la formula “in via transitoria” è una conferma dell’effetto abrogativo della disciplina oggi in vigore quando saranno emanati i regolamenti che la sostituiranno, ma fino a quel momento la disciplina mantiene il rango che le è proprio nella gerarchia delle fonti e quindi deroga i principi generali sanciti nel codice civile in tema di compensazione[18].

Secondo autorevole dottrina[19], sussiste una violazione dell’art. 17, comma 2, legge n. 400/1988 perché manca l’indicazione dei principi a cui dovranno ispirarsi i regolamenti che sostituiranno le disposizioni vigenti; alcuni autori[20], si soffermano sulla possibilità che la compensazione operi tra soggetti differenti, come avviene ex art. 17 del D.P.R. 241 cit., mentre atra parte della dottrina afferma che[21] occorre identificare i principi della futura regolamentazione della disciplina in tema di compensazione, negli aspetti della disciplina in vigore che differenziano la materia tributaria da quella civile: la possibile non coincidenza fra soggetti creditori e debitori e la efficacia costitutiva dell’opposizione del credito, anche se questo successivamente risulterà insussistente.

Saranno proprio le disposizioni vigenti e transitorie a dettare i criteri guida della futura disciplina della compensazione: la delegificazione non consentirà modifiche sostanziali della disciplina che lo stesso legislatore definisce transitoria e che va ricondotta all’art. 17 D. Lgs. N. 241/1997, quindi la disciplina regolamentare ventura avrà sostanzialmente l’effetto “estensivo” ad altri tributi della disciplina attualmente in vigore.

Le disposizioni contenute nell’art. 8, sembrano avere una funzione dichiarativa piuttosto che di disciplina[22], ciò a causa della communis opinio secondo la quale sussistono ostacoli alla applicazione, nel diritto tributario degli istituti del codice civile[23] , di qui l’esigenza dell’intervento del legislatore tributario che esplicitamente prevede l’applicazione di singoli istituti desunti dal diritto civile.

Mentre le regole, che in campo tributario disciplinano la struttura dei tributi e il sistema nel suo complesso, sono proprie ed esclusive di tale ambito dell’ordinamento giuridico, le singole vicende di attuazione dei tributi possono essere ricondotte all’esclusiva area fiscale solo se in esse si ravvisa il cosiddetto “interesse fiscale”[24] nella accezione in cui dà vita a “particolarismi” fiscali come regole generali del sistema, in caso contrario,e compatibilmente al principio costituzionale di uguaglianza, le norme attuative dei tributi possono essere ricondotte al diritto privato, amministrativo o processuale, a seconda della loro natura.

La Tutela della integrità patrimoniale del privato sancita nella rubrica dell’art. 8 dello Statuto è configurata come una eccezione che però è ispirata a principi generali del diritto privato che sanciscono la pari dignità giuridica dei soggetti nell’ordinamento giuridico.

Quando la Suprema Corte ha nel 2001, con sentenza della sezione tributaria n. 14579, (ha) stabilito che il principio della estinzione nell’ordinamento tributario delle obbligazioni, anche per compensazione, come sancito nell’art. 8 della L. 212/2000, è applicabile solamente nei casi espressamente disciplinati, fino alla emanazione dell’apposito regolamento, previsto dalla stessa legge, ai sensi della L. 400/1988, essa (la Cassazione) ha altresì riconosciuto la portata innovativa di tale principio, il quale recepisce per l’obbligazione di imposta i canoni generali del codice civile di cui agli artt. 1241 e segg. .

La normativa regolamentare dovrà disciplinare il fenomeno compensativo estendendolo a decorrere dall’anno di imposta del 2002 anche << a tributi per i quali attualmente non è previsto>>[25].

La differenza dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, rispetto a precedenti interventi legislativi volti ad ammettere e disciplinare la compensazione nell’ordinamento tributario, come la L. 241/1997, è che ora il fenomeno compensativo viene sancito come principio generale di tutto il sistema fiscale e nell’attesa della emanazione della disciplina regolamentare, le norme vigenti in tema di compensazione assumono il carattere di specialità rispetto a quelle civilistiche e derogano queste ultime[26].

La compensazione a favore del contribuente operava nella antecedente disciplina come modalità di estinzione della obbligazione tributaria solo nei casi espressamente previsti dalla legge, tra cui la ritenuta diretta, disciplinata nell’art. 17 del D. Lgs. 241/1997[27].

L’attuale legislazione quindi prevede già, nella ipotesi disciplinata da tale decreto legislativo, la compensazione: è sancita la facoltà del contribuente di compensare, in sede di versamento unitario, i crediti che risultano dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche, con i debiti che si riferiscono a tributi, contributi e altre somme indicate nell’art. 17 comma 2, del D. Lgs. 241/1997, integrato dall’art. 1 del decreto dirigenziale 31 marzo 2000 e dall’art. 1, del D. M. 2 ottobre 2000[28]. Si prescinde dalla identità del soggetto attivo della posizione creditoria, perché si possono compensare crediti risultanti dalle denunce e dalle dichiarazioni periodiche, anche nei confronti di altri enti[29]. Per quanto riguarda la facoltà del contribuente di opporre compensazione e della sede in cui ciò può avvenire, la operatività dell’istituto è confinata alla fase della “riscossione” perché i crediti devono essere risultanti dalle denunce e dalle dichiarazioni periodiche, inoltre i debiti e i crediti devono essere anche dello stesso periodo e la compensazione deve essere effettuata entro la data della presentazione della dichiarazione successiva, quindi vi sono vincoli di tempo delineati tassativamente dal legislatore, oltre alla sede e alle modalità[30].

Nonostante parte della dottrina[31] affermi che per comprendere i meccanismi compensativi tra contribuente e Amministrazione finanziaria occorra fare riferimento all’art. 17 del D. Lgs. 241/1997, pare a me che sia maggiormente coerente col quadro normativo tracciato dal legislatore tributario, analizzare le considerazioni compiute da autorevolissima dottrina[32], secondo la quale occorre distinguere con nettezza la compensazione vera e propria da un altro istituto che ha la medesima denominazione e che ha visto ampliarsi la sua area di applicazione ad opera di successi interventi legislativi e che presenta caratteristiche autonome rispetto alla disciplina civilistica di cui agli artt. 1241 e seguenti del codice civile; si tratta dell’istituto disciplinato dall’art. 17 del D. Lgs. 241/1997, in cui l’effetto compensativo opera anche in mancanza di identità tra i soggetti che assumono le contrapposte posizioni creditorie e debitorie.

Tale disciplina, ad una attenta analisi, non è quella dell’istituto compensativo, né di un solo istituto, bensì si tratta di un insieme di istituti che possono essere ricondotti alla delegazione di debito, cioè la delegatio promittendi, che avviene tra il contribuente nella veste di delegante, e l’ente-delegato, il cui oggetto è rappresentato dall’assunzione di un’obbligazione nei confronti di altro ente delegatario; è presente anche l’istituto della compensazione “in senso stretto” e che avviene in due distinti momenti nel rapporto di delegazione: in una prima fase tra contribuente-delegante ed ente-delegato, mentre in un secondo momento si ha compensazione tra i diversi enti in relazione alle reciproche posizioni creditorie e debitorie.

L’applicazione generale della compensazione vera e propria su iniziativa del contribuente (nei confronti della Amministrazione finanziaria) è da ricercare nell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, ma vi sono chiari limiti che ha l’interprete nel tracciare con chiarezza i confini dell’istituto compensativo a causa della perdurante inadempienza del legislatore regolamentare nel tracciarne specificatamente la disciplina[33].

Pare a me essere chiaro che il legislatore tributario nell’art. 8 dello Statuto abbia voluto indicare l’applicabilità della disciplina civilistica in ambito tributario, ma non avendone delineato i limiti, spetterà all’interprete, in considerazione della peculiarità dell’ordinamento tributario e della funzione economica delle imposizioni fiscali, tracciare quali siano le modalità di applicazione del fenomeno compensativo in campo tributario. E’ altrettanto chiaro che invece la disciplina tracciata dall’art. 17 del D. Lgs. 241/1997 non è coerente con la disciplina civilistica[34].

Io credo che, essendosi il legislatore richiamato in modo semplice e stringato nell’art. 8 cit., all’istituto della compensazione civilistica ma non essendo possibile considerare applicabile l’intera disciplina della compensazione del codice civile nel diritto tributario e ciò non solo perché credo che sia opportuno aderire alla tesi autonomistica, ma semplicemente perché mi pare che le esigenze economiche (e le peculiarità giuridiche) che soggiacciono alle obbligazioni tributarie siano tali da rendere necessario ad opera dell’interprete la configurazione della possibile limitazione dell’istituto civilistico della compensazione in campo tributario.

Il contribuente quando oppone in compensazione alla Amministrazione finanziaria un credito, può a mio avviso opporre qualunque credito perché nell’art. 8 dello Statuto non sono indicate specifiche categorie di crediti, quindi può farsi riferimento a qualsivoglia credito, anche non tributario[35].

La compensazione ad opera del contribuente deve avere ad oggetto due crediti contrapposti intercorrenti tra i medesimi soggetti, come stabilito nell’art. 1241 del c.c. .

Le diverse Agenzie delle entrate hanno solamente funzioni distinte, ma la titolarità dei rapporti obbligatori gestiti è da ritenersi sussistente in capo all’Amministrazione finanziaria, quindi anche crediti vantati dal contribuente nei confronti di differenti agenzie, possono essere compensati perché l’unico soggetto pubblico titolare di tali rapporti continua ad essere l’Amministrazione finanziaria[36]; lo stesso percorso logico può essere applicato con riguardo alle singole amministrazioni statali in rapporto allo Stato- persona.

L’opponibilità della compensazione da parte della Amministrazione finanziaria invece, è generalmente riconosciuta anche al di fuori delle ipotesi previste dal legislatore.

La compensazione a favore del fisco è prevista dall’art. 23 del D. Lgs. n. 472/1997[37] sulla <<sospensione dei rimborsi e compensazione>>, in cui è stabilito che <<nei casi in cui l’autore della violazione o i soggetti obbligati in solido, vantino un credito nei confronti della Amministrazione finanziaria, il pagamento può essere sospeso se è stato notificato atto di contestazione o di irrogazione della sanzione, ancorché non definitivo. La sospensione opera nei limiti della somma risultante dall’atto o dalla decisione di altro organo>>; tali provvedimenti possono essere impugnati dal contribuente avanti alla commissione tributaria, che può disporne la sospensione[38].

Lo Statuto dei diritti del contribuente ha introdotto una grande novità nell’ordinamento tributario prevedendo come principio generale la compensazione quale modalità estintiva dell’obbligazione, ma ha, sempre all’articolo 8 della medesima legge, previsto l’emanazione di un regolamento, ai sensi della L. 23 Agosto 1988 n. 400, non ancora emanato, per la concreta disciplina della compensazione tributaria.

Secondo parte della dottrina[39] la mancata emanazione da parte del Ministero delle Finanze del regolamento de quo, impedisce l’applicazione della compensazione , civilisticamente intesa, e quindi si afferma che l’istituto della compensazione opera solamente ove specificamente previsto dall’ordinamento tributario ed entro i limiti medesimi della disciplina che lo consente, senza possibilità di applicazione analogica dei profili normativi della disciplina di cui agli artt. 1241 e seguenti del codice civile.

Altra parte della dottrina[40] sostiene che vi è immediata applicazione del principio generale della compensazione sancito nello Statuto e fa riferimento, in armonia e sostegno con la propria tesi, a una costante giurisprudenza della Suprema Corte[41] secondo la quale i tempi della burocrazia non possono incidere sui diritti che lo stesso ordinamento tributario ha sancito a favore del contribuente, in nome del principio di efficienza ed economia, e fa riferimento altresì al principio di parità di diritti tra cittadino, che secondo la Cassazione è in ruolo di uguaglianza nella dignità giuridica con la Amministrazione Finanziaria, non essendone suddito, e la stessa Amministrazione finanziaria; inoltre non possono neanche certamente incidere sui rapporti contribuente-Amministrazione finanziaria, le carenze organizzative di questa ultima.

Gli autori che sostengono l’aspetto programmatico dell’articolo 8 dello Statuto[42], (mentre autorevolissima dottrina[43] non pone tanto un problema di immediata applicazione del principio generale della compensazione come modalità estintiva dell’obbligazione tributaria, ma ne inquadra la portata innovativa differenziandola con la precedente compensazione prevista dall’art. 17 del D. Lgs. 9 Luglio 1997, n. 241, nel quale è più correttamente ravvisabile, secondo tale dottrina, la delegazione di debito) fanno riferimento proprio al ruolo di mera affermazione del principio generale operata dalla L. 212/2000, e quindi fanno riferimento alla letteratura giuridica di stampo costituzionale che ha in Crisafulli[44] uno dei suoi principali esponenti, nella quale dottrina si afferma che le disposizioni costituzionali (di recente emanazione) non tutte sono suscettibili di immediata applicazione, perché c’è la necessità che il legislatore ordinario recepisca le norme costituzionali di principio rendendole, con una disciplina dettagliata, precettive (si veda ad esempio veda la letteratura giuridica in riferimento alla programmaticità/precettività delle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 3 e 37 della Carta Costituzionale sulla condizione giuridica della donna e gli interventi della Corte Costituzionale con la necessità di un intervento successivo, reputato necessario dalla dottrina, del legislatore ordinario per la precettività del diritto di accesso delle donne nella magistratura[45]); altra dottrina, come sopra accennavo, ha spostato l’attenzione e la riflessione non sulla precettività o meno del principio compensativo, ma sulla natura innovativa rispetto all’antecedente compensazione dell’art. 17 del D. Lgs. 9 Luglio 1997, n. 241, in cui il legislatore tributario utilizzava il nomen iuris di compensazione per indicare un insieme di istituti comprensivi non solo della compensazione medesima, ma soprattutto della delegatio promittendi , e quindi spostando l’asse di analisi sulle modalità stesse di applicazione del richiamo della disciplina codicistica della compensazione, sul cui richiamo esplicito, anche se stringato, non può certamente dubitarsi[46]. La delegazione di debito avviene tra il contribuente (delegante) e l’ente (delegato, in posizione debitoria verso il contribuente), avente ad oggetto l’assunzione di un’obbligazione nei confronti di un altro ente (delegatario).

La questione delle norme costituzionali programmatiche e delle norme costituzionali precettive è stata affrontata sin dalla emanazione del testo Costituzionale e autorevole dottrina ha affermato la natura programmatica di numerosi precetti dell’ordinamento giuridico costituzionale.

Questa distinzione può essere utilizzata come strumento per la comprensione della natura precettiva o programmatica del principio della operatività dell’istituto della compensazione nell’ordinamento tributario, sancito dall’art. 8 della Legge 212 del 2000.

Le norme si definiscono precettive quando sono di immediata applicazione, mentre si dicono norme programmatiche quelle che rinviano o subordinano la loro applicazione all’esistenza di altre norme (future).

Quindi la applicazione della norma programmatica è solamente differita nel tempo.

Il problema sostanziale, che ci siamo posti nel redigere una Tesi sull’istituto compensativo nell’ordinamento tributario, la cui applicazione è sancita solamente come principio generale, senza mai essere stata attuata, è cosa succede se il Legislatore non adempie alla norma programmatica (costituzionale o interposta che sia, visto che pare a me che lo Statuto dei diritti del contribuente abbia natura di legge interposta) non emanando la disciplina di attuazione del principio generale.

Nel caso in cui il legislatore non emani la disciplina di attuazione di norme programmatiche (costituzionali), che cosa si verifica? A che soluzione è giunta la letteratura giuridica di più di mezzo secolo dopo la nascita della carta costituzionale?

Di certo il mancato rispetto della Costituzione non può essere considerato privo di qualsivoglia effetto. Interessanti sono le considerazioni di parte minoritaria della dottrina[47], richiamate nella mia Tesi, con riferimento alle sentenze della Corte di Cassazione in cui i ritardi amministrativi della attuazione dei diritti non pregiudicano gli stessi, ed interessante è anche il paragone con le direttive europee che conferiscono diritti in caso di mancata attuazione delle stesse e ribadiscono comunque la valenza dei diritti e l’ operatività acquisita degli stessi: pare a me di non poter considerare valida nessuna di queste due ”teorie”, la prima perché non ha valenza di principio generale dell’ordinamento e quindi non è comprensibile perché questa parte della dottrina la debba applicarle al diritto tributario e alla compensazione, la seconda perché fondata su considerazioni di diritto comunitario (quindi sui trattati comunitari) e non può certamente operare analogicamente nel diritto interno![48]

Io considero la norma dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, precettiva, perché a mio parere la questione della distinzione delle norme in precettive e programmatiche è ontologica e logica prima ancora che giuridica: tutte le norme in quanto tali sono precettive, anche la programmaticità, intesa come futura emanazione di norme conformi al dispositivo direttivo e intesa come volta a sanzionare la carente disciplina, altro non è se non precettività differita nel tempo: allora bisogna comprendere se è possibile sanzionare il legislatore che non adempie al precetto apparentemente programmatico (per es. come sostengono alcuni, e io non condivido, con il potere di scioglimento delle camere de Presidente della Repubblica, nel caso di mancata attuazione di norme costituzionali programmatiche, con legge ordinarie)[49].

Nel caso di mancata attuazione del principio generale dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente nella parte in cui prevede la operatività (generale e di principio) dell’istituto della compensazione, a mio parere la sanzione per la (anzi, la conseguenza alla) mancata attuazione dei regolamenti attuativi, è l’immediata operatività della disciplina civilistica, che opererà come istituto autonomo del diritto tributario, nel senso che, c’è un rinvio fisso alla disciplina codicistica, ma l’interpretazione sistematica andrà affrontata, ovviamente, nell’ordinamento tributario, in questo senso è possibile considerare autonomi istituti dell’ordinamento tributario, gli istituti civilisti a cui è effettuato ( e solamente effettuato) un rinvio fisso.

Per quanto riguarda invece la pluridecennale questio sulle norme costituzionali e precettive e programmatiche che siano state definite, va abbandonata ogni concezione filocrisafulliana[50] della programmaticità delle norme e va, a mio parere, considerata la generale precettività delle norme di qualunque rango, anche quando stabiliscono principi, e nel caso delle norme costituzionali tale precettività va temperata con il principio di ragionevolezza e di bilanciamento degli interessi, principi ai quali la nostra Corte Costituzionale (e anche quella francese) fa(nno) continuo riferimento.

L’assetto normativo conseguente alla emanazione della L. 27 Luglio 2000, n. 212, concernente disposizioni in materia di Statuto di diritti del contribuente, e all’articolo 8 del medesimo, rubricato “Tutela dell’integrità patrimoniale”, con la espressa previsione della estinzione dell’obbligazione tributaria tramite compensazione, ha elevato la regola comune della estinzione della obbligazione tributaria per compensazione al rango di principio generale del sistema fiscale, poiché fino alla sua emanazione la compensazione aveva conosciuto, nel diritto tributario, ambiti di applicazione ben più ristretti rispetti a quelli che deriverebbero dalla applicazione, tramite rinvio, delle norme del codice civile[51].

Il Problema che si pone è se la norme dell’articolo 8 faccia rinvio alla disciplina della compensazione come prevista dall’art 17 del D. Lgs. 9 Luglio 1997, n. 241 oppure, come pare a me e alla dottrina dominante che su tale tema si è pronunciata, il rinvio sia operato alla disciplina del codice civile di cui agli artt. 1241 e seguenti, così innovando profondamente la antecedente disciplina tributaria che la consentiva.

Il legislatore tributario, parlando di “obbligazione tributaria”, ha escluso da tale ambito di applicazione la corrispondenza soggettiva tra titolari delle diverse posizioni creditorie e debitorie, identità irrilevante nel citato articolo 17. Se quindi si accoglie la tesi che vede nel rinvio alla disciplina della compensazione, il richiamo all’istituto civilistico de quo, ci sarà un aumento delle applicazioni pratiche di tale principio, al di fuori dei casi espressamente previsti, da parte sia dei giudici sia dell’Amministrazione finanziaria.

Una volta però individuata la portata di tale disciplina, si pone il problema della sua individuazione temporanea, cioè del momento della efficacia delle disposizioni in essa contenute. Il comma 6 del medesimo articolo 8 prevede infatti una specifica disciplina di attuazione da emanare con decreto del Ministero delle Finanze ai sensi del terzo comma dell’articolo 17 della legge 400 del 1988. Ritenere che la compensazione civilistica operi in campo tributario immediatamente o meno, ha rilevanti riflessi pratici.

Se si ritiene che il principio generale dell’applicazione della compensazione abbia una applicazione condizionata alla disciplina regolamentare di attuazione, si deve necessariamente concludere che allo stato attuale non possa essere applicato.

Se invece si ritiene tale norma immediatamente applicabile senza bisogno dei decreti ministeriali di attuazione, si dovrà allora concludere che nello stato attuale dell’ordinamento tributario i contribuenti possono opporre la compensazione fuori dalle ipotesi tassativamente stabilite dalle leggi che esplicitamente la consentono dettagliatamente, ipotesi definite da alcuni autori come “speciali”[52].

Secondo attenta dottrina[53] la formula “in via transitoria” conferma solamente l’effetto abrogativo della disciplina speciale oggi in vigore per effetto della futura abrogazione da parte dei regolamenti ministeriali delegificanti; fino a quel momento la disciplina in questione mantiene non solo il rango di legge ordinaria, ma in quanto legge speciale deroga le disposizioni in tema di compensazione del codice civile. Questa stessa natura derogatoria sussisterà anche ad opera dei futuri regolamenti, in virtù dei meccanismi derogatori previsti dalla disciplina sulla delegificazione operata dai regolamenti prevista nella legge 400/1988. Data la mancanza di principi cui dovrà attenersi la disciplina regolamentare, si palesa a parere di autorevole dottrina una violazione della legge 400/1988, ma poiché il diritto vivente pare orientato ad accettarla senza conseguenze per i successivi regolamenti, è necessario identificare i criteri a cui comunque dovrà identificarsi la futura disciplina regolamentare. La disciplina oggi vigente in tema di compensazione, indicata dall’ultimo comma dell’art. 8 dello Statuto, ha per oggetto un meccanismo estintivo dell’obbligazione tributaria non riconducibile ai principi civilistici perché non coincidono i soggetti creditori e debitori e per la singolare efficacia “costitutiva” del credito quando viene opposto, nonostante poi si riveli insussistente . I criteri direttivi ed i principi ispiratori della futura disciplina della compensazione dovranno trarsi dalle disposizioni vigenti definite transitorie. La delegificazione non dovrà stravolgere l’odierna e transitoria disciplina, quindi l’intervento regolamentare dovrà tradursi nella estensione ad altri tributi, della vigente disciplina[54].

La sezione tributaria della Suprema Corte, con sentenza del 20 novembre 2001, n. 14588[55], afferma che data la specificità della disciplina IVA, le generali disposizioni codicistiche in tema si compensazione possono essere derogate solo da leggi speciali, pertanto la compensazione del credito impositivo con la contrapposta posizione creditoria del solvens, non è ammessa; la compensazione è dunque ammessa alla stregua della normativa tributaria in vigore, solo nei casi espressamente contemplati. In tema di Iva una ulteriore pronuncia della Suprema Corte[56] afferma che la legge speciale deroga le disposizioni codicistiche inerenti all’estinzione del credito tramite compensazione, con la conseguenza che il contribuente non può opporre alla Amministrazione in compensazione il proprio credito. E’ importate osservare che non può assolutamente trarsi argomento a contrario dalla disposizione dell’articolo 23 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che autorizza l’Amministrazione che abbia un debito restitutorio a sospendere il rimborso, con la notifica di un atto di contestazione o irrogazione della sanzione, poiché è una norma speciale, e come tale è in suscettibile di interpretazione estensiva.

Secondo autorevole dottrina, la Costituzione è il complesso di leggi che rappresentano “le fondazioni dello Stato”[57] e quindi sono ontologicamente destinate ad assumere la forma di principi generali, senza, salvo rari (e contemporanei) casi[58], indicarne la disciplina di dettaglio, che è quindi demandata alla legge ordinaria ( e quindi a norme di grado subordinato). La impossibilità di cambiare la Costituzione con leggi ordinarie deriva dalla necessità di salvaguardare i diritti e le conquiste civili in essa sanciti e ne delinea il carattere di cd. rigidità.

La Costituzione, essendo il nucleo centrale dei principi di uno Stato, non può essere subordinata alla leggi ordinarie ed anzi deve assumere caratteri di imperatività direttamente proporzionali al rango formale che riveste nell’ordinamento.

Se nel testo della Costituzione sono presenti richiami morali e filosofici che non hanno in sé un minimo di concretezza e univocità, non devono considerarsi programmatici, perché essi stessi non sono neanche precetti[59].

Lo Statuto dei diritti del contribuente (L. 212 del 2000) è stato concepito come atto normativo di equilibrio tra le posizioni del contribuente e quelle della Amministrazione finanziaria e quindi non è assoggettabile a modifiche che presentano una periodicità continua separata da brevi lassi di tempo[60]: esso va considerato come norma giuridica in toto di diretta ed immediata applicazione.

Già negli anni ’60 parte della letteratura giuridica rigettava la distinzione di autorevole giurisprudenza e dottrina delle norme costituzionali programmatiche e precettive e tale rigetto , a mio parere, può essere considerato una argomentazione generale che vivifica la efficacia delle norma generali e dei principi, restituendo loro la originaria e naturale precettività: nel caso dello Statuto, una legge ordinaria, dichiarata dal Legislatore principio generale dell’ordinamento tributario, non può essere considerata programmatica (con riferimento all’art. 8 in cui ammette istituti di derivazione civilistica) nelle more dell’emanazione del regolamento attuativo a cui la stessa rinvia, ma è da considerare precettivo.

La Cassazione, nel 1948, a sezioni unite (le sezioni penali) ha affermato che nella Costituzione sono presenti non solo norme precettive ma anche norme meramente programmatiche in quanto non di immediata applicazione ed aventi come destinatari non tutti i cittadini ma solamente il Legislatore che ad esse dovrà dare attuazione, e i soggetti di diritto[61].

Tale orientamento è stato sostanzialmente seguito anche dal Consiglio di Stato[62].

Da tali orientamenti sembrava emergere una sorta di blocco alla operatività di numerosi articoli della Costituzione: per esempio si ritenne programmatico l’art. 25 della Costituzione perché non conteneva il principio della successione delle leggi penali nel tempo e dovette essere riformulato (letteralmente) nell’art. 2 del codice penale per la precettività: pensare che norme che sanciscono principi siano inapplicabili in dipendenza della fonte da cui vengono espressi ( Costituzionale nel caso di principi quali l’irretroattività della legge penale e ordinaria nel caso della compensazione dello Statuto, a scapito rispettivamente di codice penale e regolamento attuativo) è un paradosso logico e giuridico che non può accogliersi.

I principi, siano essi dichiarati nella costituzione, siano essi dichiarati nello Statuto dei diritti del contribuente, che attua (ed interpreta la Costituzione) sono pienamente efficaci nell’ordinamento e sono quindi da considerare precettivi.

La differenziazione in concreto tra norma programmatica e norma precettiva, secondo gli orientamenti sopra esposti della Cassazione e del Consiglio di Stato, è rintracciabile nel difetto di concretezza e compiutezza: tale carenza sarebbe la prova della implicita volontà del Legislatore (in sede Costituente oppure in sede ordinaria per la emanazione di Statuti o principi generali che rinviano a regolamentazioni governative, e queste, per esempio, come nel caso della compensazione, tardino ad essere emanate nonostante la scadenza indicata dalla stessa legge ordinaria) di non dare immediata attuazione alle disposizioni medesime. Ma in realtà tali criteri discretivi risultano fittizi perché tutte le norme giuridiche, in quanto appunto dotate di giuridicità devono essere compiute e concrete, altrimenti sono altra res: dichiarazioni religiose, morali, etc. . Inoltre, come osservano alcuni autori[63], se manca la compiutezza affinché le norme vincolino i cittadini, come dovrebbero vincolare il Legislatore?

Per altri autori la norma è giuridica quando compiutamente e concretamente indica il comportamento da tenere per evitare la sanzione[64].

I principi generali (e quindi anche le norme contenute nella L. 212 del 2000) non difettano certamente di concretezza e non sono certamente degli sterili programmi su cui un futuro legislatore, ordinario o regolamentare che sia, decida la disciplina da applicare: non esiste una tipologia di disciplina ideale che una sorta di Demiurgo deve plasmare per dare vita alla materia reale, ma esiste, sin da quando viene emanato un principio giuridico, una norma giuridica compiuta e concreta che ha nell’ordinamento giuridico piena efficacia.

Se esaminiamo il versante pratico possiamo con facilità comprendere che le conseguenze di una bipartizione delle norme di principio in programmatiche e precettive è inaccettabile: per quanto riguarda la disciplina della compensazione, un regolamento che nei confronti della legge ordinaria statuaria desse spazi così ristretti alla compensazione ( o addirittura eliminasse quasi in toto le ipotesi di compensazione già consentite nell’ordinamento fiscale) sarebbe certamente da dichiarare illegittimo perché contrario alla legge stessa, che invece prevede, generalmente, la compensazione, come diritto del contribuente: ma allora che senso avrebbe fare una tale constatazione per affermare la illegittimità del regolamento ma non poter abrogare le norme sul processo tributario che invece impediscono la compensazione tributaria?[65]

Il Consiglio di Stato, pur conformandosi sostanzialmente alla giurisprudenza della Suprema Corte, se ne distingue affermando che le norme programmatiche hanno capacità abrogativa perché orientano l’interprete ad una esegesi della norma conforme al principio (programmatico) che però, per il collegio, resta comunque privo di efficacia abrogativa di per sé: una posizione criticata da parte considerevole della dottrina e ritenuta contraddittoria. Alcuni autori, pur considerando la norma programmatica sempre capace di essere parametro per la illegittimità di una norma, passata o futura, affermano che essa ha un oggetto differente rispetto alle norme precettive, perché si riferisce ai “comportamenti pubblici”[66].

Le leggi nuove hanno una duplice efficacia:

1) efficacia abrogativa

2) efficacia costitutiva

che in realtà corrispondono alla unica capacità della legge di innovare l’ordinamento giuridico, perché eliminando norme vecchie si innova l’ordinamento e costituendo nome nuove se ne abrogano necessariamente di vecchie.

Quindi i principi generali incidono sulla regolamentazione passata e futura perché sono pienamente efficaci e ove si privasse di efficacia parte dello Statuto dei diritti del contribuente si inciderebbe illegittimamente sui delicati equilibri che il legislatore tributario ha sancito con la L. 212 del 2000 tra posizioni vantate dall’Amministrazione finanziaria e diritti del contribuente, così causando prevalenza dell’una o dell’altro in modo illegittimo, perché contro la legge ordinaria, e irrazionale perché impedirebbe il buon andamento della pubblica amministrazione che da quell’equilibrio traeva parametri di comportamento, che nel caso della mancata compensazione del contribuente, portano ad inefficienze per i ripetuti pagamenti, con conseguenti ritardi.

Le norme dello Statuto dei diritti del contribuente non sono programmi, ma sono norme giuridiche concrete ed effettive, pienamente efficaci, caratterizzate dal fatto di impegnare anche il legislatore, sia in sede regolamentare ( e quindi governo e ministro) sia in sede ordinaria nel caso di leggi che incidono su principi fiscali sanciti nella stesso Statuto.

L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, al comma 6, prevede la emanazione, con decreto del Ministro delle Finanze, adottato ai sensi dell’art. 17, comma 3, della Legge 23 agosto del 1988, n. 400, relativo ai poteri regolamentari dei Ministri nelle materie di loro competenza, di regolamenti che attuino le disposizioni di attuazione per la operatività dell’istituto compensativo. Nel successivo comma 8 dello stesso articolo 8 dello Statuto, il legislatore ha disposto che, ferme restando le disposizioni già vigenti in tema di compensazione, con regolamenti emanati ai sensi dell’art. 17, comma 2, della Legge n. 400 del 1988, è disciplinata la estinzione della obbligazione tributaria mediante compensazione, estendendo a decorrere dall’anno di imposta 2002, l’applicazione di tale istituto anche a tributi per i quali non è previsto.

I regolamenti attuativi non sono mai stati emanati.

Pare a me che nonostante il richiamo esplicito a norme disciplinari, occorra considerare l’art. 8 dello Statuto e la proclamazione del principio (generale) della compensazione, pienamente operanti ed immediatamente precettivi (dall’anno di imposta 2002) nell’ordinamento tributario.

La cosiddetta delegificazione è il fenomeno che avviene ex art. 17, comma 2, della Legge n. 400 del 1988, ad opera dei regolamenti emanati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Stato, non in materie di riserva assoluta di legge, i quali (regolamenti) autorizzano l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinando le norme generali regolatrici della materia e disponendo l’abrogazione delle norme vigenti, con l’effetto dell’entrata in vigore delle stesse norme regolamentari[67].

La carenza della emanazione dei regolam

E’ recente la introduzione dell’istituto della compensazione nell’ordinamento tributario ed è mio intento analizzarne la genesi normativa ricostruendo il fenomeno compensativo per mezzo di una ricerca scientifica che non si fermi al momento della genesi normativa di tale meccanismo estintivo, ma lo segua nelle sue fasi evolutive fino a giungere all’odierna esigenza di giustizia che ne rende, a mio parere, imprescindibile l’applicazione in ambito tributario secondo consolidati schemi civilistici, operando una trasposizione che ha il proprio asse normativo nell’articolo 8 dello Statuto dei diritti del contribuente.

Quando sussistono reciproche pretese creditorie, le obbligazioni che ne sono espressione si estinguono fino alla concorrenza dello stesso valore[1] per il dispiegarsi della compensazione, che è legale ove tali crediti-debiti siano omogenei, liquidi ed esigibili[2].

La Suprema Corte ha recentemente affermato[3] che l’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente rinvia alla disciplina civilistica, recependo i canoni del codice civile in tema di estinzione delle obbligazioni con la modalità compensativa[4].

La compensazione, dunque, in campo tributario è una possibile modalità estintiva delle obbligazioni tributarie, solo nei casi espressamente contemplati dal legislatore e la Corte di Cassazione ha affermato la necessaria previa emanazione della disciplina di attuazione, per l’applicazione della compensazione come modalità estintiva delle obbligazioni stabilita quale principio generale dell’ordinamento tributario, così come previsto dall’art. 8 dello Statuto, ribadendo che tale modalità estintiva opera solamente nei casi in cui essa sia espressamente prevista dal legislatore tributario[5].

Il principio generale del codice civile sulla compensazione come modo di estinzione dell’obbligazione è stato recepito dal legislatore tributario con la Legge 27 Luglio 2000, n. 212[6] e costituisce una novità significativa perché anteriormente l’obbligazione tributaria non ammetteva tra i modi estintivi quello della compensazione: l’ostacolo era ravvisato con chiarezza dalla dottrina[7] nella indisponibilità del credito tributario, nell’art 225 del R.D. 22 maggio 1924, n. 827[8] e nell’art. 1246 n. 3) del codice civile, in cui si fa divieto di compensare i crediti impignorabili, come sono i crediti che derivano da rapporti di diritto pubblico e quindi quelli di natura tributaria.

Nessun ostacolo invece, pare a me sia possibile ravvisare nella previsione del legislatore costituzionale che all’art. 23 stabilisce che nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non ha fondamento nella legge: tale limite, il cd. principio di legalità, confina l’operatività delle prestazioni patrimoniali (e anche personali) alle previsioni legislative (nullum tributum sine lege; no taxation without representation)[9].

L’obbligazione da compensare esiste già e anche nel caso della pretesa del contribuente di opporre un credito in compensazione, non è l’esistenza delle obbligazioni che viene in rilievo ma la sua modalità di estinzione.

Pare a me sia utile chiedersi se sia possibile parlare di attribuzione nell’ordinamento tributario di diritto alla compensazione a favore del contribuente, nonostante, come si dirà nel proseguo,anche indicando le sedi del fenomeno compensativo, la compensazione come principio generale operante nel fisco è sancita solamente come modalità generale di estinzione dell’obbligazione tributaria diversa dall’adempimento, ma non è stata attuata con il regolamento che ha il compito di disciplinarla dettagliatamente, così come sancito nello stesso art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, che la fa assurgere a principio generale dell’ordinamento tributario lasciandone però l’attuazione a un regolamento ministeriale da emanare ex L. 400/1988.

Io credo che sia possibile compiere una riflessione analoga a quanto è accaduto per le direttive della Unione Europea, nelle quali sono stabiliti obiettivi che gli Stati membri perseguono scegliendo il mezzo che ritengono più opportuno, autonomamente, e nelle quali, se è sancito un diritto al quale non è data esecuzione dal legislatore ordinario, tale diritto sarà comunque ritenuto valido e operante in capo al cittadino[10].

Quindi, se come pare a me, la compensazione, pur garantita come principio, nonostante le carenze organizzative del legislatore regolamentare[11], sia un diritto effettivo e valido del contribuente, restano da precisare le modalità compensative, le sedi processuali e sostanziali e gli eventuali limiti dell’istituto, che a mio avviso vanno ravvisati nei principi generali dell’ordinamento, per quanto attiene la negoziazione del “patto compensativo” tra contribuente e Amministrazione finanziaria, sanciti nell’art. 1322 del codice civile, nel quale si prevede il riconoscimento giuridico agli interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, e quindi al di là dei limiti stessi della disciplina civilistica degli artt. 1241 e segg. .

Pare a me che sia possibile tracciare l’evoluzione normativa della disciplina tributaria in tema di compensazione e dei meccanismi ad essa riconducibili[12], in cinque fasi:

Una prima forma di compensazione è stata prevista con riferimento a debiti e crediti riguardanti la medesima imposta e con limiti temporali (si tratta della cosiddetta “compensazione verticale” disciplinata dall’art. 11, comma 3, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917).

La seconda forma di compensazione è prevista nell’art. 17 del D. Lgs 9 Luglio 1997, n. 241, che estende la possibilità di estinguere le obbligazioni attraverso la compensazione, ai tributi non omogenei e prevede la possibilità di applicare l’istituto della compensazione al momento del versamento unitario di diverse imposte e contributi (cosiddetta “compensazione speciale”).

Il legislatore, modificando successivamente il suddetto art. 17 (ad es., tramite l’art. 28 legge 23 dicembre 2000, n. 388, artt. 4 ed 8 DPR 14 ottobre 1999,n. 542), ha reso sempre più amplia l’area di operatività della compensazione facendovi rientrare il ravvedimento operoso del contribuente e l’accertamento con adesione. Questa disciplina ha uno spazio operativo nettamente maggiore rispetto a quello della compensazione descritta negli artt. 1241 e seguenti del codice civile, perché qui è possibile che vi sia diversità delle posizioni soggettive nelle reciproche obbligazioni e che tale istituto trovi addirittura applicazione con riferimento a debiti o crediti vantati dal soggetto verso l’Erario e debiti o crediti di cui il soggetto è titolare nei confronti di altri enti[13], mentre nella disciplina civilistica è requisito necessario delle obbligazioni da estinguere con compensazione, la coincidenza dei soggetti nelle posizioni debitorie e creditorie.

Una profonda innovazione è stata introdotta con lo “Statuto dei diritti del contribuente” in cui si afferma che “ l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”. Il contribuente si vede riconosciuto il diritto di utilizzare i propri crediti per compensare i debiti nei confronti dello Stato. C’è un rinvio del legislatore tributario alla disciplina codicistica, ma ciò non autorizza l’interprete a fare riferimento interamente alla regolamentazione del diritto civile in campo tributario; sono ovviamente esclusi dall’ambito di applicazione dell’istituto della compensazione disciplinato dal diritto comune, i casi di compensazione contabile, la quale riguarda un rapporto unitario ed è specificamente disciplinata.

La quinta e ultima fase per la piena operatività dell’istituto di cui trattasi, pare a me si debba ravvisare nell’apposito regolamento, ancora non emanato, a cui è demandata la concreta disciplina della compensazione tributaria. Parte della dottrina[14] sostiene che, in attesa della emanazione del regolamento, ai sensi dell’art. 17, comma 2 della L. 23 Agosto 1988, n. 400, la normativa statuaria non sia applicabile; dovrà quindi continuarsi ad applicare, secondo tale orientamento, la disciplina anteriore[15], in cui la compensazione è consentita solo ove espressamente prevista[16].

Nell’ambito della “Tutela dell’integrità patrimoniale”[17] di cui si occupa l’art. 8 dello Statuto, è intervenuto il giudice di legittimità con sentenza del 20 novembre 2001, n. 14579, in cui si afferma che la legge speciale deroga lo Statuto medesimo in tema di Iva a causa della sua analiticità e specificità, quindi l’istituto della compensazione può essere applicato solo nei casi specificamente previsti dalla normativa tributaria.

L’art. 8 dello Statuto, all’ultimo comma merita attenta riflessione perché in esso si esclude la delegificazione della disciplina codicistica di cui agli artt. 1241 ss., e la formula “in via transitoria” è una conferma dell’effetto abrogativo della disciplina oggi in vigore quando saranno emanati i regolamenti che la sostituiranno, ma fino a quel momento la disciplina mantiene il rango che le è proprio nella gerarchia delle fonti e quindi deroga i principi generali sanciti nel codice civile in tema di compensazione[18].

Secondo autorevole dottrina[19], sussiste una violazione dell’art. 17, comma 2, legge n. 400/1988 perché manca l’indicazione dei principi a cui dovranno ispirarsi i regolamenti che sostituiranno le disposizioni vigenti; alcuni autori[20], si soffermano sulla possibilità che la compensazione operi tra soggetti differenti, come avviene ex art. 17 del D.P.R. 241 cit., mentre atra parte della dottrina afferma che[21] occorre identificare i principi della futura regolamentazione della disciplina in tema di compensazione, negli aspetti della disciplina in vigore che differenziano la materia tributaria da quella civile: la possibile non coincidenza fra soggetti creditori e debitori e la efficacia costitutiva dell’opposizione del credito, anche se questo successivamente risulterà insussistente.

Saranno proprio le disposizioni vigenti e transitorie a dettare i criteri guida della futura disciplina della compensazione: la delegificazione non consentirà modifiche sostanziali della disciplina che lo stesso legislatore definisce transitoria e che va ricondotta all’art. 17 D. Lgs. N. 241/1997, quindi la disciplina regolamentare ventura avrà sostanzialmente l’effetto “estensivo” ad altri tributi della disciplina attualmente in vigore.

Le disposizioni contenute nell’art. 8, sembrano avere una funzione dichiarativa piuttosto che di disciplina[22], ciò a causa della communis opinio secondo la quale sussistono ostacoli alla applicazione, nel diritto tributario degli istituti del codice civile[23] , di qui l’esigenza dell’intervento del legislatore tributario che esplicitamente prevede l’applicazione di singoli istituti desunti dal diritto civile.

Mentre le regole, che in campo tributario disciplinano la struttura dei tributi e il sistema nel suo complesso, sono proprie ed esclusive di tale ambito dell’ordinamento giuridico, le singole vicende di attuazione dei tributi possono essere ricondotte all’esclusiva area fiscale solo se in esse si ravvisa il cosiddetto “interesse fiscale”[24] nella accezione in cui dà vita a “particolarismi” fiscali come regole generali del sistema, in caso contrario,e compatibilmente al principio costituzionale di uguaglianza, le norme attuative dei tributi possono essere ricondotte al diritto privato, amministrativo o processuale, a seconda della loro natura.

La Tutela della integrità patrimoniale del privato sancita nella rubrica dell’art. 8 dello Statuto è configurata come una eccezione che però è ispirata a principi generali del diritto privato che sanciscono la pari dignità giuridica dei soggetti nell’ordinamento giuridico.

Quando la Suprema Corte ha nel 2001, con sentenza della sezione tributaria n. 14579, (ha) stabilito che il principio della estinzione nell’ordinamento tributario delle obbligazioni, anche per compensazione, come sancito nell’art. 8 della L. 212/2000, è applicabile solamente nei casi espressamente disciplinati, fino alla emanazione dell’apposito regolamento, previsto dalla stessa legge, ai sensi della L. 400/1988, essa (la Cassazione) ha altresì riconosciuto la portata innovativa di tale principio, il quale recepisce per l’obbligazione di imposta i canoni generali del codice civile di cui agli artt. 1241 e segg. .

La normativa regolamentare dovrà disciplinare il fenomeno compensativo estendendolo a decorrere dall’anno di imposta del 2002 anche << a tributi per i quali attualmente non è previsto>>[25].

La differenza dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, rispetto a precedenti interventi legislativi volti ad ammettere e disciplinare la compensazione nell’ordinamento tributario, come la L. 241/1997, è che ora il fenomeno compensativo viene sancito come principio generale di tutto il sistema fiscale e nell’attesa della emanazione della disciplina regolamentare, le norme vigenti in tema di compensazione assumono il carattere di specialità rispetto a quelle civilistiche e derogano queste ultime[26].

La compensazione a favore del contribuente operava nella antecedente disciplina come modalità di estinzione della obbligazione tributaria solo nei casi espressamente previsti dalla legge, tra cui la ritenuta diretta, disciplinata nell’art. 17 del D. Lgs. 241/1997[27].

L’attuale legislazione quindi prevede già, nella ipotesi disciplinata da tale decreto legislativo, la compensazione: è sancita la facoltà del contribuente di compensare, in sede di versamento unitario, i crediti che risultano dalle dichiarazioni e dalle denunce periodiche, con i debiti che si riferiscono a tributi, contributi e altre somme indicate nell’art. 17 comma 2, del D. Lgs. 241/1997, integrato dall’art. 1 del decreto dirigenziale 31 marzo 2000 e dall’art. 1, del D. M. 2 ottobre 2000[28]. Si prescinde dalla identità del soggetto attivo della posizione creditoria, perché si possono compensare crediti risultanti dalle denunce e dalle dichiarazioni periodiche, anche nei confronti di altri enti[29]. Per quanto riguarda la facoltà del contribuente di opporre compensazione e della sede in cui ciò può avvenire, la operatività dell’istituto è confinata alla fase della “riscossione” perché i crediti devono essere risultanti dalle denunce e dalle dichiarazioni periodiche, inoltre i debiti e i crediti devono essere anche dello stesso periodo e la compensazione deve essere effettuata entro la data della presentazione della dichiarazione successiva, quindi vi sono vincoli di tempo delineati tassativamente dal legislatore, oltre alla sede e alle modalità[30].

Nonostante parte della dottrina[31] affermi che per comprendere i meccanismi compensativi tra contribuente e Amministrazione finanziaria occorra fare riferimento all’art. 17 del D. Lgs. 241/1997, pare a me che sia maggiormente coerente col quadro normativo tracciato dal legislatore tributario, analizzare le considerazioni compiute da autorevolissima dottrina[32], secondo la quale occorre distinguere con nettezza la compensazione vera e propria da un altro istituto che ha la medesima denominazione e che ha visto ampliarsi la sua area di applicazione ad opera di successi interventi legislativi e che presenta caratteristiche autonome rispetto alla disciplina civilistica di cui agli artt. 1241 e seguenti del codice civile; si tratta dell’istituto disciplinato dall’art. 17 del D. Lgs. 241/1997, in cui l’effetto compensativo opera anche in mancanza di identità tra i soggetti che assumono le contrapposte posizioni creditorie e debitorie.

Tale disciplina, ad una attenta analisi, non è quella dell’istituto compensativo, né di un solo istituto, bensì si tratta di un insieme di istituti che possono essere ricondotti alla delegazione di debito, cioè la delegatio promittendi, che avviene tra il contribuente nella veste di delegante, e l’ente-delegato, il cui oggetto è rappresentato dall’assunzione di un’obbligazione nei confronti di altro ente delegatario; è presente anche l’istituto della compensazione “in senso stretto” e che avviene in due distinti momenti nel rapporto di delegazione: in una prima fase tra contribuente-delegante ed ente-delegato, mentre in un secondo momento si ha compensazione tra i diversi enti in relazione alle reciproche posizioni creditorie e debitorie.

L’applicazione generale della compensazione vera e propria su iniziativa del contribuente (nei confronti della Amministrazione finanziaria) è da ricercare nell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, ma vi sono chiari limiti che ha l’interprete nel tracciare con chiarezza i confini dell’istituto compensativo a causa della perdurante inadempienza del legislatore regolamentare nel tracciarne specificatamente la disciplina[33].

Pare a me essere chiaro che il legislatore tributario nell’art. 8 dello Statuto abbia voluto indicare l’applicabilità della disciplina civilistica in ambito tributario, ma non avendone delineato i limiti, spetterà all’interprete, in considerazione della peculiarità dell’ordinamento tributario e della funzione economica delle imposizioni fiscali, tracciare quali siano le modalità di applicazione del fenomeno compensativo in campo tributario. E’ altrettanto chiaro che invece la disciplina tracciata dall’art. 17 del D. Lgs. 241/1997 non è coerente con la disciplina civilistica[34].

Io credo che, essendosi il legislatore richiamato in modo semplice e stringato nell’art. 8 cit., all’istituto della compensazione civilistica ma non essendo possibile considerare applicabile l’intera disciplina della compensazione del codice civile nel diritto tributario e ciò non solo perché credo che sia opportuno aderire alla tesi autonomistica, ma semplicemente perché mi pare che le esigenze economiche (e le peculiarità giuridiche) che soggiacciono alle obbligazioni tributarie siano tali da rendere necessario ad opera dell’interprete la configurazione della possibile limitazione dell’istituto civilistico della compensazione in campo tributario.

Il contribuente quando oppone in compensazione alla Amministrazione finanziaria un credito, può a mio avviso opporre qualunque credito perché nell’art. 8 dello Statuto non sono indicate specifiche categorie di crediti, quindi può farsi riferimento a qualsivoglia credito, anche non tributario[35].

La compensazione ad opera del contribuente deve avere ad oggetto due crediti contrapposti intercorrenti tra i medesimi soggetti, come stabilito nell’art. 1241 del c.c. .

Le diverse Agenzie delle entrate hanno solamente funzioni distinte, ma la titolarità dei rapporti obbligatori gestiti è da ritenersi sussistente in capo all’Amministrazione finanziaria, quindi anche crediti vantati dal contribuente nei confronti di differenti agenzie, possono essere compensati perché l’unico soggetto pubblico titolare di tali rapporti continua ad essere l’Amministrazione finanziaria[36]; lo stesso percorso logico può essere applicato con riguardo alle singole amministrazioni statali in rapporto allo Stato- persona.

L’opponibilità della compensazione da parte della Amministrazione finanziaria invece, è generalmente riconosciuta anche al di fuori delle ipotesi previste dal legislatore.

La compensazione a favore del fisco è prevista dall’art. 23 del D. Lgs. n. 472/1997[37] sulla <<sospensione dei rimborsi e compensazione>>, in cui è stabilito che <<nei casi in cui l’autore della violazione o i soggetti obbligati in solido, vantino un credito nei confronti della Amministrazione finanziaria, il pagamento può essere sospeso se è stato notificato atto di contestazione o di irrogazione della sanzione, ancorché non definitivo. La sospensione opera nei limiti della somma risultante dall’atto o dalla decisione di altro organo>>; tali provvedimenti possono essere impugnati dal contribuente avanti alla commissione tributaria, che può disporne la sospensione[38].

Lo Statuto dei diritti del contribuente ha introdotto una grande novità nell’ordinamento tributario prevedendo come principio generale la compensazione quale modalità estintiva dell’obbligazione, ma ha, sempre all’articolo 8 della medesima legge, previsto l’emanazione di un regolamento, ai sensi della L. 23 Agosto 1988 n. 400, non ancora emanato, per la concreta disciplina della compensazione tributaria.

Secondo parte della dottrina[39] la mancata emanazione da parte del Ministero delle Finanze del regolamento de quo, impedisce l’applicazione della compensazione , civilisticamente intesa, e quindi si afferma che l’istituto della compensazione opera solamente ove specificamente previsto dall’ordinamento tributario ed entro i limiti medesimi della disciplina che lo consente, senza possibilità di applicazione analogica dei profili normativi della disciplina di cui agli artt. 1241 e seguenti del codice civile.

Altra parte della dottrina[40] sostiene che vi è immediata applicazione del principio generale della compensazione sancito nello Statuto e fa riferimento, in armonia e sostegno con la propria tesi, a una costante giurisprudenza della Suprema Corte[41] secondo la quale i tempi della burocrazia non possono incidere sui diritti che lo stesso ordinamento tributario ha sancito a favore del contribuente, in nome del principio di efficienza ed economia, e fa riferimento altresì al principio di parità di diritti tra cittadino, che secondo la Cassazione è in ruolo di uguaglianza nella dignità giuridica con la Amministrazione Finanziaria, non essendone suddito, e la stessa Amministrazione finanziaria; inoltre non possono neanche certamente incidere sui rapporti contribuente-Amministrazione finanziaria, le carenze organizzative di questa ultima.

Gli autori che sostengono l’aspetto programmatico dell’articolo 8 dello Statuto[42], (mentre autorevolissima dottrina[43] non pone tanto un problema di immediata applicazione del principio generale della compensazione come modalità estintiva dell’obbligazione tributaria, ma ne inquadra la portata innovativa differenziandola con la precedente compensazione prevista dall’art. 17 del D. Lgs. 9 Luglio 1997, n. 241, nel quale è più correttamente ravvisabile, secondo tale dottrina, la delegazione di debito) fanno riferimento proprio al ruolo di mera affermazione del principio generale operata dalla L. 212/2000, e quindi fanno riferimento alla letteratura giuridica di stampo costituzionale che ha in Crisafulli[44] uno dei suoi principali esponenti, nella quale dottrina si afferma che le disposizioni costituzionali (di recente emanazione) non tutte sono suscettibili di immediata applicazione, perché c’è la necessità che il legislatore ordinario recepisca le norme costituzionali di principio rendendole, con una disciplina dettagliata, precettive (si veda ad esempio veda la letteratura giuridica in riferimento alla programmaticità/precettività delle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 3 e 37 della Carta Costituzionale sulla condizione giuridica della donna e gli interventi della Corte Costituzionale con la necessità di un intervento successivo, reputato necessario dalla dottrina, del legislatore ordinario per la precettività del diritto di accesso delle donne nella magistratura[45]); altra dottrina, come sopra accennavo, ha spostato l’attenzione e la riflessione non sulla precettività o meno del principio compensativo, ma sulla natura innovativa rispetto all’antecedente compensazione dell’art. 17 del D. Lgs. 9 Luglio 1997, n. 241, in cui il legislatore tributario utilizzava il nomen iuris di compensazione per indicare un insieme di istituti comprensivi non solo della compensazione medesima, ma soprattutto della delegatio promittendi , e quindi spostando l’asse di analisi sulle modalità stesse di applicazione del richiamo della disciplina codicistica della compensazione, sul cui richiamo esplicito, anche se stringato, non può certamente dubitarsi[46]. La delegazione di debito avviene tra il contribuente (delegante) e l’ente (delegato, in posizione debitoria verso il contribuente), avente ad oggetto l’assunzione di un’obbligazione nei confronti di un altro ente (delegatario).

La questione delle norme costituzionali programmatiche e delle norme costituzionali precettive è stata affrontata sin dalla emanazione del testo Costituzionale e autorevole dottrina ha affermato la natura programmatica di numerosi precetti dell’ordinamento giuridico costituzionale.

Questa distinzione può essere utilizzata come strumento per la comprensione della natura precettiva o programmatica del principio della operatività dell’istituto della compensazione nell’ordinamento tributario, sancito dall’art. 8 della Legge 212 del 2000.

Le norme si definiscono precettive quando sono di immediata applicazione, mentre si dicono norme programmatiche quelle che rinviano o subordinano la loro applicazione all’esistenza di altre norme (future).

Quindi la applicazione della norma programmatica è solamente differita nel tempo.

Il problema sostanziale, che ci siamo posti nel redigere una Tesi sull’istituto compensativo nell’ordinamento tributario, la cui applicazione è sancita solamente come principio generale, senza mai essere stata attuata, è cosa succede se il Legislatore non adempie alla norma programmatica (costituzionale o interposta che sia, visto che pare a me che lo Statuto dei diritti del contribuente abbia natura di legge interposta) non emanando la disciplina di attuazione del principio generale.

Nel caso in cui il legislatore non emani la disciplina di attuazione di norme programmatiche (costituzionali), che cosa si verifica? A che soluzione è giunta la letteratura giuridica di più di mezzo secolo dopo la nascita della carta costituzionale?

Di certo il mancato rispetto della Costituzione non può essere considerato privo di qualsivoglia effetto. Interessanti sono le considerazioni di parte minoritaria della dottrina[47], richiamate nella mia Tesi, con riferimento alle sentenze della Corte di Cassazione in cui i ritardi amministrativi della attuazione dei diritti non pregiudicano gli stessi, ed interessante è anche il paragone con le direttive europee che conferiscono diritti in caso di mancata attuazione delle stesse e ribadiscono comunque la valenza dei diritti e l’ operatività acquisita degli stessi: pare a me di non poter considerare valida nessuna di queste due ”teorie”, la prima perché non ha valenza di principio generale dell’ordinamento e quindi non è comprensibile perché questa parte della dottrina la debba applicarle al diritto tributario e alla compensazione, la seconda perché fondata su considerazioni di diritto comunitario (quindi sui trattati comunitari) e non può certamente operare analogicamente nel diritto interno![48]

Io considero la norma dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, precettiva, perché a mio parere la questione della distinzione delle norme in precettive e programmatiche è ontologica e logica prima ancora che giuridica: tutte le norme in quanto tali sono precettive, anche la programmaticità, intesa come futura emanazione di norme conformi al dispositivo direttivo e intesa come volta a sanzionare la carente disciplina, altro non è se non precettività differita nel tempo: allora bisogna comprendere se è possibile sanzionare il legislatore che non adempie al precetto apparentemente programmatico (per es. come sostengono alcuni, e io non condivido, con il potere di scioglimento delle camere de Presidente della Repubblica, nel caso di mancata attuazione di norme costituzionali programmatiche, con legge ordinarie)[49].

Nel caso di mancata attuazione del principio generale dell’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente nella parte in cui prevede la operatività (generale e di principio) dell’istituto della compensazione, a mio parere la sanzione per la (anzi, la conseguenza alla) mancata attuazione dei regolamenti attuativi, è l’immediata operatività della disciplina civilistica, che opererà come istituto autonomo del diritto tributario, nel senso che, c’è un rinvio fisso alla disciplina codicistica, ma l’interpretazione sistematica andrà affrontata, ovviamente, nell’ordinamento tributario, in questo senso è possibile considerare autonomi istituti dell’ordinamento tributario, gli istituti civilisti a cui è effettuato ( e solamente effettuato) un rinvio fisso.

Per quanto riguarda invece la pluridecennale questio sulle norme costituzionali e precettive e programmatiche che siano state definite, va abbandonata ogni concezione filocrisafulliana[50] della programmaticità delle norme e va, a mio parere, considerata la generale precettività delle norme di qualunque rango, anche quando stabiliscono principi, e nel caso delle norme costituzionali tale precettività va temperata con il principio di ragionevolezza e di bilanciamento degli interessi, principi ai quali la nostra Corte Costituzionale (e anche quella francese) fa(nno) continuo riferimento.

L’assetto normativo conseguente alla emanazione della L. 27 Luglio 2000, n. 212, concernente disposizioni in materia di Statuto di diritti del contribuente, e all’articolo 8 del medesimo, rubricato “Tutela dell’integrità patrimoniale”, con la espressa previsione della estinzione dell’obbligazione tributaria tramite compensazione, ha elevato la regola comune della estinzione della obbligazione tributaria per compensazione al rango di principio generale del sistema fiscale, poiché fino alla sua emanazione la compensazione aveva conosciuto, nel diritto tributario, ambiti di applicazione ben più ristretti rispetti a quelli che deriverebbero dalla applicazione, tramite rinvio, delle norme del codice civile[51].

Il Problema che si pone è se la norme dell’articolo 8 faccia rinvio alla disciplina della compensazione come prevista dall’art 17 del D. Lgs. 9 Luglio 1997, n. 241 oppure, come pare a me e alla dottrina dominante che su tale tema si è pronunciata, il rinvio sia operato alla disciplina del codice civile di cui agli artt. 1241 e seguenti, così innovando profondamente la antecedente disciplina tributaria che la consentiva.

Il legislatore tributario, parlando di “obbligazione tributaria”, ha escluso da tale ambito di applicazione la corrispondenza soggettiva tra titolari delle diverse posizioni creditorie e debitorie, identità irrilevante nel citato articolo 17. Se quindi si accoglie la tesi che vede nel rinvio alla disciplina della compensazione, il richiamo all’istituto civilistico de quo, ci sarà un aumento delle applicazioni pratiche di tale principio, al di fuori dei casi espressamente previsti, da parte sia dei giudici sia dell’Amministrazione finanziaria.

Una volta però individuata la portata di tale disciplina, si pone il problema della sua individuazione temporanea, cioè del momento della efficacia delle disposizioni in essa contenute. Il comma 6 del medesimo articolo 8 prevede infatti una specifica disciplina di attuazione da emanare con decreto del Ministero delle Finanze ai sensi del terzo comma dell’articolo 17 della legge 400 del 1988. Ritenere che la compensazione civilistica operi in campo tributario immediatamente o meno, ha rilevanti riflessi pratici.

Se si ritiene che il principio generale dell’applicazione della compensazione abbia una applicazione condizionata alla disciplina regolamentare di attuazione, si deve necessariamente concludere che allo stato attuale non possa essere applicato.

Se invece si ritiene tale norma immediatamente applicabile senza bisogno dei decreti ministeriali di attuazione, si dovrà allora concludere che nello stato attuale dell’ordinamento tributario i contribuenti possono opporre la compensazione fuori dalle ipotesi tassativamente stabilite dalle leggi che esplicitamente la consentono dettagliatamente, ipotesi definite da alcuni autori come “speciali”[52].

Secondo attenta dottrina[53] la formula “in via transitoria” conferma solamente l’effetto abrogativo della disciplina speciale oggi in vigore per effetto della futura abrogazione da parte dei regolamenti ministeriali delegificanti; fino a quel momento la disciplina in questione mantiene non solo il rango di legge ordinaria, ma in quanto legge speciale deroga le disposizioni in tema di compensazione del codice civile. Questa stessa natura derogatoria sussisterà anche ad opera dei futuri regolamenti, in virtù dei meccanismi derogatori previsti dalla disciplina sulla delegificazione operata dai regolamenti prevista nella legge 400/1988. Data la mancanza di principi cui dovrà attenersi la disciplina regolamentare, si palesa a parere di autorevole dottrina una violazione della legge 400/1988, ma poiché il diritto vivente pare orientato ad accettarla senza conseguenze per i successivi regolamenti, è necessario identificare i criteri a cui comunque dovrà identificarsi la futura disciplina regolamentare. La disciplina oggi vigente in tema di compensazione, indicata dall’ultimo comma dell’art. 8 dello Statuto, ha per oggetto un meccanismo estintivo dell’obbligazione tributaria non riconducibile ai principi civilistici perché non coincidono i soggetti creditori e debitori e per la singolare efficacia “costitutiva” del credito quando viene opposto, nonostante poi si riveli insussistente . I criteri direttivi ed i principi ispiratori della futura disciplina della compensazione dovranno trarsi dalle disposizioni vigenti definite transitorie. La delegificazione non dovrà stravolgere l’odierna e transitoria disciplina, quindi l’intervento regolamentare dovrà tradursi nella estensione ad altri tributi, della vigente disciplina[54].

La sezione tributaria della Suprema Corte, con sentenza del 20 novembre 2001, n. 14588[55], afferma che data la specificità della disciplina IVA, le generali disposizioni codicistiche in tema si compensazione possono essere derogate solo da leggi speciali, pertanto la compensazione del credito impositivo con la contrapposta posizione creditoria del solvens, non è ammessa; la compensazione è dunque ammessa alla stregua della normativa tributaria in vigore, solo nei casi espressamente contemplati. In tema di Iva una ulteriore pronuncia della Suprema Corte[56] afferma che la legge speciale deroga le disposizioni codicistiche inerenti all’estinzione del credito tramite compensazione, con la conseguenza che il contribuente non può opporre alla Amministrazione in compensazione il proprio credito. E’ importate osservare che non può assolutamente trarsi argomento a contrario dalla disposizione dell’articolo 23 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che autorizza l’Amministrazione che abbia un debito restitutorio a sospendere il rimborso, con la notifica di un atto di contestazione o irrogazione della sanzione, poiché è una norma speciale, e come tale è in suscettibile di interpretazione estensiva.

Secondo autorevole dottrina, la Costituzione è il complesso di leggi che rappresentano “le fondazioni dello Stato”[57] e quindi sono ontologicamente destinate ad assumere la forma di principi generali, senza, salvo rari (e contemporanei) casi[58], indicarne la disciplina di dettaglio, che è quindi demandata alla legge ordinaria ( e quindi a norme di grado subordinato). La impossibilità di cambiare la Costituzione con leggi ordinarie deriva dalla necessità di salvaguardare i diritti e le conquiste civili in essa sanciti e ne delinea il carattere di cd. rigidità.

La Costituzione, essendo il nucleo centrale dei principi di uno Stato, non può essere subordinata alla leggi ordinarie ed anzi deve assumere caratteri di imperatività direttamente proporzionali al rango formale che riveste nell’ordinamento.

Se nel testo della Costituzione sono presenti richiami morali e filosofici che non hanno in sé un minimo di concretezza e univocità, non devono considerarsi programmatici, perché essi stessi non sono neanche precetti[59].

Lo Statuto dei diritti del contribuente (L. 212 del 2000) è stato concepito come atto normativo di equilibrio tra le posizioni del contribuente e quelle della Amministrazione finanziaria e quindi non è assoggettabile a modifiche che presentano una periodicità continua separata da brevi lassi di tempo[60]: esso va considerato come norma giuridica in toto di diretta ed immediata applicazione.

Già negli anni ’60 parte della letteratura giuridica rigettava la distinzione di autorevole giurisprudenza e dottrina delle norme costituzionali programmatiche e precettive e tale rigetto , a mio parere, può essere considerato una argomentazione generale che vivifica la efficacia delle norma generali e dei principi, restituendo loro la originaria e naturale precettività: nel caso dello Statuto, una legge ordinaria, dichiarata dal Legislatore principio generale dell’ordinamento tributario, non può essere considerata programmatica (con riferimento all’art. 8 in cui ammette istituti di derivazione civilistica) nelle more dell’emanazione del regolamento attuativo a cui la stessa rinvia, ma è da considerare precettivo.

La Cassazione, nel 1948, a sezioni unite (le sezioni penali) ha affermato che nella Costituzione sono presenti non solo norme precettive ma anche norme meramente programmatiche in quanto non di immediata applicazione ed aventi come destinatari non tutti i cittadini ma solamente il Legislatore che ad esse dovrà dare attuazione, e i soggetti di diritto[61].

Tale orientamento è stato sostanzialmente seguito anche dal Consiglio di Stato[62].

Da tali orientamenti sembrava emergere una sorta di blocco alla operatività di numerosi articoli della Costituzione: per esempio si ritenne programmatico l’art. 25 della Costituzione perché non conteneva il principio della successione delle leggi penali nel tempo e dovette essere riformulato (letteralmente) nell’art. 2 del codice penale per la precettività: pensare che norme che sanciscono principi siano inapplicabili in dipendenza della fonte da cui vengono espressi ( Costituzionale nel caso di principi quali l’irretroattività della legge penale e ordinaria nel caso della compensazione dello Statuto, a scapito rispettivamente di codice penale e regolamento attuativo) è un paradosso logico e giuridico che non può accogliersi.

I principi, siano essi dichiarati nella costituzione, siano essi dichiarati nello Statuto dei diritti del contribuente, che attua (ed interpreta la Costituzione) sono pienamente efficaci nell’ordinamento e sono quindi da considerare precettivi.

La differenziazione in concreto tra norma programmatica e norma precettiva, secondo gli orientamenti sopra esposti della Cassazione e del Consiglio di Stato, è rintracciabile nel difetto di concretezza e compiutezza: tale carenza sarebbe la prova della implicita volontà del Legislatore (in sede Costituente oppure in sede ordinaria per la emanazione di Statuti o principi generali che rinviano a regolamentazioni governative, e queste, per esempio, come nel caso della compensazione, tardino ad essere emanate nonostante la scadenza indicata dalla stessa legge ordinaria) di non dare immediata attuazione alle disposizioni medesime. Ma in realtà tali criteri discretivi risultano fittizi perché tutte le norme giuridiche, in quanto appunto dotate di giuridicità devono essere compiute e concrete, altrimenti sono altra res: dichiarazioni religiose, morali, etc. . Inoltre, come osservano alcuni autori[63], se manca la compiutezza affinché le norme vincolino i cittadini, come dovrebbero vincolare il Legislatore?

Per altri autori la norma è giuridica quando compiutamente e concretamente indica il comportamento da tenere per evitare la sanzione[64].

I principi generali (e quindi anche le norme contenute nella L. 212 del 2000) non difettano certamente di concretezza e non sono certamente degli sterili programmi su cui un futuro legislatore, ordinario o regolamentare che sia, decida la disciplina da applicare: non esiste una tipologia di disciplina ideale che una sorta di Demiurgo deve plasmare per dare vita alla materia reale, ma esiste, sin da quando viene emanato un principio giuridico, una norma giuridica compiuta e concreta che ha nell’ordinamento giuridico piena efficacia.

Se esaminiamo il versante pratico possiamo con facilità comprendere che le conseguenze di una bipartizione delle norme di principio in programmatiche e precettive è inaccettabile: per quanto riguarda la disciplina della compensazione, un regolamento che nei confronti della legge ordinaria statuaria desse spazi così ristretti alla compensazione ( o addirittura eliminasse quasi in toto le ipotesi di compensazione già consentite nell’ordinamento fiscale) sarebbe certamente da dichiarare illegittimo perché contrario alla legge stessa, che invece prevede, generalmente, la compensazione, come diritto del contribuente: ma allora che senso avrebbe fare una tale constatazione per affermare la illegittimità del regolamento ma non poter abrogare le norme sul processo tributario che invece impediscono la compensazione tributaria?[65]

Il Consiglio di Stato, pur conformandosi sostanzialmente alla giurisprudenza della Suprema Corte, se ne distingue affermando che le norme programmatiche hanno capacità abrogativa perché orientano l’interprete ad una esegesi della norma conforme al principio (programmatico) che però, per il collegio, resta comunque privo di efficacia abrogativa di per sé: una posizione criticata da parte considerevole della dottrina e ritenuta contraddittoria. Alcuni autori, pur considerando la norma programmatica sempre capace di essere parametro per la illegittimità di una norma, passata o futura, affermano che essa ha un oggetto differente rispetto alle norme precettive, perché si riferisce ai “comportamenti pubblici”[66].

Le leggi nuove hanno una duplice efficacia:

1) efficacia abrogativa

2) efficacia costitutiva

che in realtà corrispondono alla unica capacità della legge di innovare l’ordinamento giuridico, perché eliminando norme vecchie si innova l’ordinamento e costituendo nome nuove se ne abrogano necessariamente di vecchie.

Quindi i principi generali incidono sulla regolamentazione passata e futura perché sono pienamente efficaci e ove si privasse di efficacia parte dello Statuto dei diritti del contribuente si inciderebbe illegittimamente sui delicati equilibri che il legislatore tributario ha sancito con la L. 212 del 2000 tra posizioni vantate dall’Amministrazione finanziaria e diritti del contribuente, così causando prevalenza dell’una o dell’altro in modo illegittimo, perché contro la legge ordinaria, e irrazionale perché impedirebbe il buon andamento della pubblica amministrazione che da quell’equilibrio traeva parametri di comportamento, che nel caso della mancata compensazione del contribuente, portano ad inefficienze per i ripetuti pagamenti, con conseguenti ritardi.

Le norme dello Statuto dei diritti del contribuente non sono programmi, ma sono norme giuridiche concrete ed effettive, pienamente efficaci, caratterizzate dal fatto di impegnare anche il legislatore, sia in sede regolamentare ( e quindi governo e ministro) sia in sede ordinaria nel caso di leggi che incidono su principi fiscali sanciti nella stesso Statuto.

L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, al comma 6, prevede la emanazione, con decreto del Ministro delle Finanze, adottato ai sensi dell’art. 17, comma 3, della Legge 23 agosto del 1988, n. 400, relativo ai poteri regolamentari dei Ministri nelle materie di loro competenza, di regolamenti che attuino le disposizioni di attuazione per la operatività dell’istituto compensativo. Nel successivo comma 8 dello stesso articolo 8 dello Statuto, il legislatore ha disposto che, ferme restando le disposizioni già vigenti in tema di compensazione, con regolamenti emanati ai sensi dell’art. 17, comma 2, della Legge n. 400 del 1988, è disciplinata la estinzione della obbligazione tributaria mediante compensazione, estendendo a decorrere dall’anno di imposta 2002, l’applicazione di tale istituto anche a tributi per i quali non è previsto.

I regolamenti attuativi non sono mai stati emanati.

Pare a me che nonostante il richiamo esplicito a norme disciplinari, occorra considerare l’art. 8 dello Statuto e la proclamazione del principio (generale) della compensazione, pienamente operanti ed immediatamente precettivi (dall’anno di imposta 2002) nell’ordinamento tributario.

La cosiddetta delegificazione è il fenomeno che avviene ex art. 17, comma 2, della Legge n. 400 del 1988, ad opera dei regolamenti emanati con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il Consiglio di Stato, non in materie di riserva assoluta di legge, i quali (regolamenti) autorizzano l’esercizio della potestà regolamentare del Governo, determinando le norme generali regolatrici della materia e disponendo l’abrogazione delle norme vigenti, con l’effetto dell’entrata in vigore delle stesse norme regolamentari[67].

La carenza della emanazione dei regolam