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Sulla “tutela aquiliana del credito”

Tutela aquiliana del credito
Tutela aquiliana del credito

La tradizionale dicotomìa che vede contrapposti i “diritti assoluti” ai “diritti relativi”, viene comunemente associata alla dottrina pandettistica del XIX° secolo la quale, attraverso l’influenza di F.K. Von Savigny (Scuola Storica del diritto) e di B. Windscheid, marcò i tratti della celebre costruzione dogmatica in parola.

 

Ebbene, tale summa divisio – volendo adoperare una locuzione di gaiana memoria – nacque dalla constatazione, di ispirazione illuminista, dell’esistenza, nella realtà giuridica, di diritti dell’uomo fondanti la propria ragion d’essere nella mera esistenza dell’umano medesimo.

 

Tale preminenza logica ed ontologica, condusse la Scuola delle Pandette ad enucleare la categoria dei “diritti assoluti” – includenti i diritti della persona ed i diritti reali – caratterizzati dalla signorìa assoluta sulla cosa, dai diritti intesi invece quali “relativi” (o personali), nel cui genus rientra la species dei diritti di credito.

 

Dunque, si suole allegoricamente raffigurare il diritto assoluto come il perno di una ruota, da cui partono infiniti raggi atti a rappresentare i rapporti giuridici che legano il titolare della signorìa assoluta sulla res con tutti gli altri soggetti dell’ordinamento giuridico, in capo ai quali grava un obbligo di contenuto esclusivamente negativo, da ravvisarsi nel divieto di turbativa di tale diritto.

 

Di polarità contraria, invece, può essere la situazione giuridica soggettiva rivestita dal soggetto con cui si instaura un diritto relativo: il perfezionamento del rapporto obbligatorio, invero, è imprescindibile dalla cooperazione (positiva ovvero, anche, negativa) dell’ altera pars, tanto che si è soliti rappresentare tale istituto come un cavo teso tra due punti, tra due fuochi.

 

Si passa, così, dai caratteri di univocità e di infinità che connotano i rapporti giuridici involgenti il primo modello, all’unità e alla reciprocità che contraddistinguono, decisamente, il rapporto obbligatorio contemplato nel diritto relativo.

 

Tuttavia, non mancano soluzioni mezzane. Tra i due cennati estremi semantici, infatti, emerge intermedia la posizione del giurista Hohfeld, che concepisce il diritto assoluto come un corpus di diritti relativi, rendendo così il secondo modello costitutivo del primo.

 

A questo punto risulta lapalissiano intuire come il discrimen tra le due categorie dogmatiche de quibus sia rappresentato dal diverso spettro di tutela posto a presidio di ognuna: una tutela valevole erga omnes per i diritti assoluti, una tutela in personam, invece, per i diritti relativi.

 

Nondimeno, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, la prima pronuncia che costituì un vero e proprio vulnus per la costruzione teorica appena delineata e che inaugurò un nuovo corso giurisprudenziale, è rappresentata dalla sentenza n. 174/1971 emessa dalle SS.UU. della Corte di Cassazione.

 

Attraverso tale statuizione, gli Ermellini ammisero la possibilità di risarcire, ai sensi della norma di cui all’art. 2.043 c.c., anche il danno (purché definitivo ed irreparabile) occorso ai diritti relativi, nella specie ai diritti di credito, aprendo così il varco a una tutela del credito di tipo aquiliano.

 

La chiave d’accesso alla norma di particolare portata garantista, di cui l’art. 2.043 c.c. si fa vettore, venne ravvisata dai Giudici di Piazza Cavour nella necessità di proteggere tout court il “diritto soggettivo”, nella sua pienezza, quale situazione giuridica soggettiva che può assumere convenzionalmente sia una valenza “assoluta” che “relativa”, senza che tale bidimensionalità assuma pregnanza in un momento antecedente acché venga accordata la tutela giuridica.

 

Orbene, se la locuzione di “tutela aquiliana del credito” rappresenterebbe un ossimoro alla luce della indissolubile bipartizione pandettistica testé evidenziata, la stessa locuzione è divenuta da timida realtà pragmatica un efficiente modello applicativo di tutela per le Corti italiane dagli anni ’70 a seguire, sulla scorta di una nozione di danno ingiusto idonea a ricomprendere sia il danno prodotto non iure (ossia prodotto da un fatto “scriminato” o comunque giustificato dall’ordinamento) che il danno prodotto contra ius (ossia violando una posizione giuridica tutelata in qualità di diritto soggettivo).

 

In definitiva, la Suprema Corte giunse ad ammettere la risarcibilità della lesione argomentando come “chi con il suo fatto doloso o colposo cagiona la morte del debitore altrui è obbligato a risarcire il danno subito dal creditore, qualora quella morte abbia determinato l’estinzione del credito ed una perdita definitiva ed irreparabile per il creditore medesimo. È definitiva ed irreparabile la perdita quando si tratti di obbligazioni di dare a titolo di mantenimento o di alimenti, sempre che non esistano obbligati in grado eguale o posteriore, che possano sopportare il relativo onere, ovvero di obbligazioni di fare rispetto alle quali vi è insostituibilità del debitore, nel senso che non sia possibile al creditore procurarsi, se non a condizioni più onerose, prestazioni eguali o equipollenti” (cfr. SS.UU. Cass. 174/1971).

 

La ratio della predetta pronuncia trovò nuova linfa negli obiter dicta successivi, allorché – a mero titolo esemplificativo – il diritto di rivalsa del datore di lavoro verso il soggetto estraneo al rapporto obbligatorio che avesse procurato un danno a un proprio dipendente venne consacrato nella sentenza n. 2105/1980 emessa dalla Corte di Cassazione, con la quale si precisò altresì come non sussista, in realtà, incompatibilità tra il carattere relativo della tutela del diritto di credito e il carattere assoluto della tutela aquiliana, atteso che tali strumenti di protezione attengono a due momenti diversi del rapporto obbligatorio: la prima al “momento dinamico o interno”, il quale si estrinseca nel potere del creditore di esigere la prestazione dal debitore, e la seconda, invece, al “momento statico o esterno”, il quale si rinviene nel collegamento dell’interesse del creditore alla sfera giuridica patrimoniale del medesimo, quale strumento di difesa di tale sfera dall’ingerenza attuata per mano di terzi.

 

L’impronta aquiliana che può assumere anche la tutela accordata al credito venne certamente ricalcata e specificata ad opera di giudicati successivi (SS. UU. Cass. 6132/1988, Cass. 7337/1998, TAR Catania n. 679/07), che ne hanno meglio delineato i contorni, pur mantenendo intatto il presupposto logico- giuridico rappresentato dall’ingiustizia del danno.

 

Ciò posto, questa apertura di matrice giurisprudenziale ha di fatto infranto il consolidato edificio teorico che poggiava sulle fondamenta della distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi, svilendo se non annullando tale differenziazione, ancorché – a parere di chi scrive – tale “dissolvimento dogmatico” risuoni degli echi delle dottrine ascrivibili al giurista Santi Romano.

 

Ed invero, il celebre teorizzatore dell’istituzionalismo fu il primo a porre in dubbio l’utilità e l’effettività del cennato distinguo, notando che il codice civile contemplava casi in cui il titolare del diritto relativo aveva a disposizione mezzi di tutela erga omnes delle proprie prerogative (si pensi, ad esempio, agli effetti della trascrizione del contratto di locazione ultranovennale, ex art. 1599 c.c.).

 

Ma vi è di più.

 

Considerando che l’eminente studioso ricollegava il principio del neminem laedere e del rispetto della sfera giuridica altrui “ad ogni diritto, e non soltanto i diritti, ma tutte le manifestazioni giuridiche di essa: capacità, poteri, status, posizioni, situazioni, qualità, interessi legittimi” (cfr. S.R., Frammenti di un Dizionario giuridico, Milano, Giuffrè, 1947, p. 58), tale rilievo, oltre che confliggere con la visione pandettistica di cui si è dato conto, precorrendo i tempi trovò il suo acme – sempre a parere di chi scrive – nella massima sancita dalla storica sentenza delle SS. UU. di Cassazione n. 500/1999, che aprì la strada alla risarcibilità (si badi bene, non indiscriminata) anche dell’interesse legittimo, tant’è che la stessa Suprema Corte registrò, nel motivare la propria decisione “il progressivo formarsi di una giurisprudenza di legittimità volta ad ampliare l’area della risarcibilità ex art. 2043 c.c., sia nei rapporti tra privati, incrementando il novero delle posizioni tutelabili, che nei rapporti tra privati e P.A.” (SS.UU. Cass. 500/1999).

 

Riprova della validità di quanto detto, sta nella circostanza per cui gli Ermellini, nel corpo della celeberrima pronuncia, abbiano ripercorso l’iter di “espansione” della risarcibilità delle varie posizioni giuridiche, non più limitate al diritto assoluto, proprio partendo dalla menzionata sentenza del 1971, la quale funse da apripista ad una rilettura innovativa della norma di cui all’art. 2.043 c.c. e che risulta senza dubbio impregnata – volutamente o meno, non è dato sapere – del pensiero di Santi Romano.

La tradizionale dicotomìa che vede contrapposti i “diritti assoluti” ai “diritti relativi”, viene comunemente associata alla dottrina pandettistica del XIX° secolo la quale, attraverso l’influenza di F.K. Von Savigny (Scuola Storica del diritto) e di B. Windscheid, marcò i tratti della celebre costruzione dogmatica in parola.

 

Ebbene, tale summa divisio – volendo adoperare una locuzione di gaiana memoria – nacque dalla constatazione, di ispirazione illuminista, dell’esistenza, nella realtà giuridica, di diritti dell’uomo fondanti la propria ragion d’essere nella mera esistenza dell’umano medesimo.

 

Tale preminenza logica ed ontologica, condusse la Scuola delle Pandette ad enucleare la categoria dei “diritti assoluti” – includenti i diritti della persona ed i diritti reali – caratterizzati dalla signorìa assoluta sulla cosa, dai diritti intesi invece quali “relativi” (o personali), nel cui genus rientra la species dei diritti di credito.

 

Dunque, si suole allegoricamente raffigurare il diritto assoluto come il perno di una ruota, da cui partono infiniti raggi atti a rappresentare i rapporti giuridici che legano il titolare della signorìa assoluta sulla res con tutti gli altri soggetti dell’ordinamento giuridico, in capo ai quali grava un obbligo di contenuto esclusivamente negativo, da ravvisarsi nel divieto di turbativa di tale diritto.

 

Di polarità contraria, invece, può essere la situazione giuridica soggettiva rivestita dal soggetto con cui si instaura un diritto relativo: il perfezionamento del rapporto obbligatorio, invero, è imprescindibile dalla cooperazione (positiva ovvero, anche, negativa) dell’ altera pars, tanto che si è soliti rappresentare tale istituto come un cavo teso tra due punti, tra due fuochi.

 

Si passa, così, dai caratteri di univocità e di infinità che connotano i rapporti giuridici involgenti il primo modello, all’unità e alla reciprocità che contraddistinguono, decisamente, il rapporto obbligatorio contemplato nel diritto relativo.

 

Tuttavia, non mancano soluzioni mezzane. Tra i due cennati estremi semantici, infatti, emerge intermedia la posizione del giurista Hohfeld, che concepisce il diritto assoluto come un corpus di diritti relativi, rendendo così il secondo modello costitutivo del primo.

 

A questo punto risulta lapalissiano intuire come il discrimen tra le due categorie dogmatiche de quibus sia rappresentato dal diverso spettro di tutela posto a presidio di ognuna: una tutela valevole erga omnes per i diritti assoluti, una tutela in personam, invece, per i diritti relativi.

 

Nondimeno, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, la prima pronuncia che costituì un vero e proprio vulnus per la costruzione teorica appena delineata e che inaugurò un nuovo corso giurisprudenziale, è rappresentata dalla sentenza n. 174/1971 emessa dalle SS.UU. della Corte di Cassazione.

 

Attraverso tale statuizione, gli Ermellini ammisero la possibilità di risarcire, ai sensi della norma di cui all’art. 2.043 c.c., anche il danno (purché definitivo ed irreparabile) occorso ai diritti relativi, nella specie ai diritti di credito, aprendo così il varco a una tutela del credito di tipo aquiliano.

 

La chiave d’accesso alla norma di particolare portata garantista, di cui l’art. 2.043 c.c. si fa vettore, venne ravvisata dai Giudici di Piazza Cavour nella necessità di proteggere tout court il “diritto soggettivo”, nella sua pienezza, quale situazione giuridica soggettiva che può assumere convenzionalmente sia una valenza “assoluta” che “relativa”, senza che tale bidimensionalità assuma pregnanza in un momento antecedente acché venga accordata la tutela giuridica.

 

Orbene, se la locuzione di “tutela aquiliana del credito” rappresenterebbe un ossimoro alla luce della indissolubile bipartizione pandettistica testé evidenziata, la stessa locuzione è divenuta da timida realtà pragmatica un efficiente modello applicativo di tutela per le Corti italiane dagli anni ’70 a seguire, sulla scorta di una nozione di danno ingiusto idonea a ricomprendere sia il danno prodotto non iure (ossia prodotto da un fatto “scriminato” o comunque giustificato dall’ordinamento) che il danno prodotto contra ius (ossia violando una posizione giuridica tutelata in qualità di diritto soggettivo).

 

In definitiva, la Suprema Corte giunse ad ammettere la risarcibilità della lesione argomentando come “chi con il suo fatto doloso o colposo cagiona la morte del debitore altrui è obbligato a risarcire il danno subito dal creditore, qualora quella morte abbia determinato l’estinzione del credito ed una perdita definitiva ed irreparabile per il creditore medesimo. È definitiva ed irreparabile la perdita quando si tratti di obbligazioni di dare a titolo di mantenimento o di alimenti, sempre che non esistano obbligati in grado eguale o posteriore, che possano sopportare il relativo onere, ovvero di obbligazioni di fare rispetto alle quali vi è insostituibilità del debitore, nel senso che non sia possibile al creditore procurarsi, se non a condizioni più onerose, prestazioni eguali o equipollenti” (cfr. SS.UU. Cass. 174/1971).

 

La ratio della predetta pronuncia trovò nuova linfa negli obiter dicta successivi, allorché – a mero titolo esemplificativo – il diritto di rivalsa del datore di lavoro verso il soggetto estraneo al rapporto obbligatorio che avesse procurato un danno a un proprio dipendente venne consacrato nella sentenza n. 2105/1980 emessa dalla Corte di Cassazione, con la quale si precisò altresì come non sussista, in realtà, incompatibilità tra il carattere relativo della tutela del diritto di credito e il carattere assoluto della tutela aquiliana, atteso che tali strumenti di protezione attengono a due momenti diversi del rapporto obbligatorio: la prima al “momento dinamico o interno”, il quale si estrinseca nel potere del creditore di esigere la prestazione dal debitore, e la seconda, invece, al “momento statico o esterno”, il quale si rinviene nel collegamento dell’interesse del creditore alla sfera giuridica patrimoniale del medesimo, quale strumento di difesa di tale sfera dall’ingerenza attuata per mano di terzi.

 

L’impronta aquiliana che può assumere anche la tutela accordata al credito venne certamente ricalcata e specificata ad opera di giudicati successivi (SS. UU. Cass. 6132/1988, Cass. 7337/1998, TAR Catania n. 679/07), che ne hanno meglio delineato i contorni, pur mantenendo intatto il presupposto logico- giuridico rappresentato dall’ingiustizia del danno.

 

Ciò posto, questa apertura di matrice giurisprudenziale ha di fatto infranto il consolidato edificio teorico che poggiava sulle fondamenta della distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi, svilendo se non annullando tale differenziazione, ancorché – a parere di chi scrive – tale “dissolvimento dogmatico” risuoni degli echi delle dottrine ascrivibili al giurista Santi Romano.

 

Ed invero, il celebre teorizzatore dell’istituzionalismo fu il primo a porre in dubbio l’utilità e l’effettività del cennato distinguo, notando che il codice civile contemplava casi in cui il titolare del diritto relativo aveva a disposizione mezzi di tutela erga omnes delle proprie prerogative (si pensi, ad esempio, agli effetti della trascrizione del contratto di locazione ultranovennale, ex art. 1599 c.c.).

 

Ma vi è di più.

 

Considerando che l’eminente studioso ricollegava il principio del neminem laedere e del rispetto della sfera giuridica altrui “ad ogni diritto, e non soltanto i diritti, ma tutte le manifestazioni giuridiche di essa: capacità, poteri, status, posizioni, situazioni, qualità, interessi legittimi” (cfr. S.R., Frammenti di un Dizionario giuridico, Milano, Giuffrè, 1947, p. 58), tale rilievo, oltre che confliggere con la visione pandettistica di cui si è dato conto, precorrendo i tempi trovò il suo acme – sempre a parere di chi scrive – nella massima sancita dalla storica sentenza delle SS. UU. di Cassazione n. 500/1999, che aprì la strada alla risarcibilità (si badi bene, non indiscriminata) anche dell’interesse legittimo, tant’è che la stessa Suprema Corte registrò, nel motivare la propria decisione “il progressivo formarsi di una giurisprudenza di legittimità volta ad ampliare l’area della risarcibilità ex art. 2043 c.c., sia nei rapporti tra privati, incrementando il novero delle posizioni tutelabili, che nei rapporti tra privati e P.A.” (SS.UU. Cass. 500/1999).

 

Riprova della validità di quanto detto, sta nella circostanza per cui gli Ermellini, nel corpo della celeberrima pronuncia, abbiano ripercorso l’iter di “espansione” della risarcibilità delle varie posizioni giuridiche, non più limitate al diritto assoluto, proprio partendo dalla menzionata sentenza del 1971, la quale funse da apripista ad una rilettura innovativa della norma di cui all’art. 2.043 c.c. e che risulta senza dubbio impregnata – volutamente o meno, non è dato sapere – del pensiero di Santi Romano.