Processo amministrativo: sull’ammissibilità di un’azione risarcitoria e sulla responsabilità della Pubblica Amministrazione in punto di procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici
L’avvento del cosiddetto Codice del processo amministrativo (Decreto Legislativo n. 104/2010), oltre a introdurre il primo esemplare di codificazione di rito in ambito pubblicistico, ha formalizzato la caduta di taluni dogmi, tipici della fase primordiale (e non solo) del diritto amministrativo e comunque già messi in discussione dalla giurisprudenza contemporanea: in primo luogo, quello della irrisarcibilità dell’interesse legittimo.
Se nulla quaestio poteva sollevarsi con riguardo ai rapporti paritetici tra Pubblica Amministrazione e privato (non foss’altro che per la diversa caratura del diritto venuto in gioco), la configurazione della posizione soggettiva del civis, che interfacci asimmetricamente la P.A., come interesse legittimo rendeva dapprima controversa l’ammissibilità di una sua tutela tout court e, successivamente, di una tutela che contemplasse anche l’esercizio di azioni risarcitorie.
Infatti, la Manciniana “rassegnazione che avrebbe dovuto seguire alla semplice lesione dell’interesse” insieme con l’assenza di norme ad hoc atte a prescrivere cure diverse da quella meramente demolitoria, rimetteva all’interprete l’onere di colmare le lacune di un ordinamento privo di un vero e proprio rito risarcitorio e di somministrare, di riflesso, una tutela, per quanto possibile, completa e rispondente a canoni di effettività. Una tutela, cioè, che non si limitasse a elidere dalla realtà giuridica il provvedimento lesivo, ma che si facesse, altresì, carico dei danni, ulteriori e consequenziali (articolo 7, Legge n. 205/2000), che il privato potesse aver subito a seguito di quell’emanazione contra legem.
Pertanto, la risarcibilità dell’interesse legittimo, da ipotesi avversata ed esorbitante i limiti normativi (articoli 4 e 5, L.A.C.) imposti dal Legislatore, è divenuta caposaldo delle dialettiche giudiziarie. Grazie, infatti, all’operato di attenta giurisprudenza (Cassazione Civile, 22 luglio 1999, n. 500), si è fatto di detta tecnica di tutela una regola processuale, di chiara ispirazione civilistica, finalizzata alla deduzione di ulteriori (meglio: differenziati) profili di responsabilità addebitabili alla P.A. agente.
La caduta del dogma dell’irrisarcibilità – che ha avvicinato l’Italia alle esperienze degli altri Stati europei – ha, tuttavia, comportato la costruzione di un altro dogma. Quello secondo cui al civis è inibito l’esercizio di un’azione risarcitoria ove svincolato dalla previa impugnazione (e successivo annullamento) del provvedimento lesivo dell’interesse.
In realtà, la Cassazione del 1999 aveva già – velatamente - individuato un’autonomia operativa tra le due tecniche di difesa. Tuttavia, il mito della cosiddetta pregiudiziale amministrativa continuò a persistere nel nostro ordinamento, ancorando le istanze di tutela dei ricorrenti al rigoroso rispetto di termini di decadenza e di logiche processuali, così indebolendo le chances di ottenimento di una pronuncia pienamente satisfattiva delle loro pretese.
A questa criticità ha posto rimedio proprio il Codice del processo amministrativo, con il suo articolo 30, comma primo. La disposizione, da leggersi in parallelo all’articolo 7, comma 4 (“[…] pure se introdotte in via autonoma”), sancisce la proponibilità di un’azione risarcitoria indipendente, ossia slegata dall’impugnazione e dall’annullamento del provvedimento ritenuto lesivo. Essa, invero, tratteggia una sorta di statuto della tutela risarcitoria all’interno del processo amministrativo, preoccupandosi di individuare: i limiti operativi all’esperibilità dell’azione risarcitoria (comma 2, prima parte), le species di istanze risarcitorie avanzabili (comma 2, seconda parte), i limiti temporali entro cui l’azione deve essere promossa a pena di decadenza (comma 3, prima parte, con la deroga di cui al comma 4), la proponibilità dell’azione “in differita” (comma 5), coerentemente alla logica sottesa all’istituto dei motivi aggiunti e, infine, la competenza del giudice amministrativo a conoscere delle questioni risarcitorie sia nelle vesti di giudice naturale sia in sede di giurisdizione esclusiva sui diritti soggettivi (comma 6).
Il tutto, ovviamente subordinato alla dimostrazione, da parte del civis-danneggiato, della lesione patita secondo gli schemi della responsabilità ex articolo 2043 del Codice Civile e degli eventuali correttivi di cui all’articolo 1227 del Codice Civile, implicitamente richiamati dall’articolo 30, comma 3, seconda parte.
Soprattutto con riguardo a quest’implicito rinvio, appare evidente come il Legislatore abbia assunto una posizione di compromesso – a cavallo tra la pregiudizialità pura e la radicale autonomia tra le due tecniche di tutela –, ferma restando, tuttavia, l’ormai certa caduta dell’ancillarità dell’una (tutela risarcitoria) rispetto all’altra (tutela demolitoria). Certezza che, inoltre, può ricavarsi dalla esegesi di un terzo dato normativo (l’articolo 34, comma 3, Codice del processo amministrativo), il quale, riconoscendo la potenziale non utilità che il ricorrente potrebbe trarre dalla caducazione del provvedimento (si pensi, per un pratico riscontro, alla sentenza del Consiglio di Stato, 10 maggio 2011, n. 2755, ma anche ad Adunanza Plenaria, 23 marzo 2011, n. 3), conferisce al giudice il potere di accertare l’illegittimità dell’atto impugnato ai soli fini risarcitori.
In definitiva, l’evoluzione sancita dalle norme del Codice del processo va ad allinearsi all’ormai consolidata visione dottrinale e giurisprudenziale secondo cui il giudizio amministrativo verte non più su un atto, del quale si contesta la legittimità, bensì su un rapporto. Un rapporto che vede interfacciarsi P.A. e privato e che ha ad oggetto l’indagine, compiuta dal giudice, circa la fondatezza della pretesa vantata, in via oppositiva ovvero pretensiva, dal secondo nei confronti della prima. E che ove si risolva positivamente per il civis, merita di concludersi con quel quid pluris che la tutela risarcitoria è in grado di conferirgli.
Un ambito all’interno del quale la responsabilità della P.A. è particolarmente avvertita è quello della contrattazione pubblica, con specifico riferimento alla materia dell’aggiudicazione di contratti pubblici.
Caratteristica della cosiddetta evidenza pubblica è il suo bipolarismo. Al modulo procedimentale si affianca, infatti, un modulo negoziale che si contraddistingue per la pariteticità di chi dialoga al suo interno.
Si parte, dunque, con un vero e proprio procedimento amministrativo (prima fase). Esso, in quanto tale, è funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico, nonché assoggettato ai tipici controlli contabili che devono precedere la definizione di qualsivoglia negozio della P.A. ed informarne lo svolgimento. Il suo momento terminale è rappresentato dalla fase dell’aggiudicazione del contratto al miglior offerente. Qui la P.A./aggiudicatrice individua la propria controparte negoziale, in conformità alle prescrizioni del bando/lex specialis, e procede, da ultimo, alla stipula del contratto: cesura con cui si mette fine alla fase pubblicistica ed a interazioni impari.
Icasticamente, pertanto, può dirsi che il provvedimento di aggiudicazione definitiva e la stipula del contratto segnano il momento conclusivo della procedura ad evidenza pubblica e quello d’avvio del rapporto negoziale tra P.A. aggiudicatrice e “miglior” contraente privato (seconda fase).
Lo stacco temporale che intercorre tra i due momenti, infatti, oltre ad essere decisivo ai fini del riparto di giurisdizione, individua un sostanziale discrimen tra le situazioni giuridico-soggettive configurabili in capo al civis: alla stregua di interesse legittimo nel corso del modulo procedimentale; di diritto soggettivo in quello di perfezionamento dell’operazione strictu sensu negoziale.
In altri termini, la determinazione autoritativa con cui la P.A. formalizza l’individuazione del soggetto aggiudicatario sancisce il definitivo completamento della fase pubblicistica, caratterizzata dalla spendita del public power ai fini del precipuo perseguimento dell’interesse pubblico, ed immette le parti (P.A. – privato) all’interno di un rapporto (negoziale) ormai paritetico, volto alla concretizzazione di quanto formalmente statuito in seno al provvedimento: la stipula, in favore del civis, del contratto che si è aggiudicato.
L’alternanza tra situazioni giuridico-soggettive profilabili in capo al privato comporta due ordini di conseguenze.
In primis, la fruibilità, da parte sua, di strumenti difensivi diversi a seconda del tipo di interesse cui vada somministrata tutela.
In secondo luogo, essa grava l’interprete e chi adisce le vie giudiziarie del compito di valutare attentamente il tipo di responsabilità addebitabile alla P.A. agente, costituendo detta individuazione un banco di prova ai fini della effettiva adoperabilità di quegli strumenti difensivi.
Infatti, se il provvedimento di aggiudicazione contrassegna la nascita, in capo al privato/aggiudicatario, di un diritto (soggettivo) a contrarre (rectius: alla futura stipula del contratto), l’inerzia ingiustificata ovvero il rifiuto illegittimo che la P.A. manifesti nel procedere a detta stipula arrecherebbero, in tutta evidenza, una sensibile lesione alla sfera giuridica del civis. Lesione – secondo un primo approccio - giustiziabile ai soli sensi dell’articolo 2932 del Codice Civile, ricorrendone gli elementi costitutivi: sussistenza di un obbligo a stipulare gravante sulla P.A., sua violazione e consequenziale inadempimento imputabile alla P.A. agente.
A ben guardare, tuttavia, l’ambito di operatività del rimedio citato è, di fatto, circoscritto alle classiche ipotesi di responsabilità (contrattuale) per inadempimento, il cui margine di operatività è, invero, assai limitato nel campo del diritto pubblico. Osservando, infatti, la formulazione della norma (“se colui che è obbligato a concludere un contratto, non adempie l’obbligazione”), può facilmente evincersi come il perno dell’articolo 2932 del Codice Civile sia un mancato adempimento cui si pone rimedio costringendo la parte recalcitrante a rendere la prestazione che era negozialmente tenuta ad adempiere e che avrebbe dovuto realizzare sin dal principio.
Ciò non toglie, tuttavia – in base a un secondo approccio – che, proprio in forza dei citati elementi costitutivi (fonte dell’obbligo a contrarre rinvenibile nella lex specialis e imposizione di un “autovincolo”, da parte della P.A. stessa, a negoziare con chi presenti le caratteristiche di cui al bando, emanazione di un provvedimento – l’aggiudicazione – che formalizzi quanto predetto, eventuale violazione dell’obbligo a contrarre, conseguente assenza di contratto e giustiziabilità della “trasgressione”), alla lesione cagionata al privato non possa, in ogni caso, recarsi ristoro a titolo di responsabilità cosiddetta pre-contrattuale, ove il comportamento della P.A. ne determini l’integrazione.
Infatti, ad avviso dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 6 del 2005), la responsabilità (squisitamente civilistica) ex articolo 1337 del Codice Civile ben si presta al contesto del diritto amministrativo.
Tra i casi paradigmatici entro cui questa vada ricondotta v’è proprio la predetta ipotesi della P.A. che, contravvenendo – ingiustificatamente – ad un preciso obbligo negoziale, impedisca all’aggiudicatario di rendere effettivo e concreto il diritto a contrarre, nato a seguito dell’emanazione di un provvedimento ad hoc.
A fronte di insistenti contrasti, tra dottrina e giurisprudenza, sul tipo di responsabilità addebitabile alla P.A. in casi simili e, addirittura, sull’effettiva consistenza di diritto soggettivo dello status giuridico riconducibile al privato, la Plenaria fugò qualsiasi dubbio, alimentato peraltro da un’ambigua lettera normativa (articolo 11, comma 7 e 9, Codice dei contratti pubblici), e propese definitivamente per l’applicabilità dell’articolo 1337 del Codice Civile alle ipotesi dianzi menzionate.
Ivi, infatti, la relazione tra P.A. e privato, contrariamente a quanto sostenuto dalla Cassazione, s’iscrive in un quadro di rapporti paritetici in cui entrambe le figure negoziali assumono la qualità di futuri e reciproci contraenti.
Il privato non è più, dunque, un mero partecipante alla gara: subordinato, in quanto tale, alla potestà pubblicistica e semplice titolare di un interesse legittimo al corretto esercizio della stessa. Il privato è, a ben vedere, un soggetto che interfaccia direttamente la P.A. e che è direttamente tutelato dal Codice Civile attraverso la previsione di specifici canoni comportamentali (correttezza e buona fede in senso oggettivo: articolo 1375) la cui violazione configura un’ipotesi di responsabilità pre-contrattuale a carico del trasgressore.
Essa, peraltro – come succintamente già visto – può innescarsi per il tramite di più motori. Attraverso la revoca o l’annullamento legittimi dell’aggiudicazione e degli atti della relativa procedura, per mezzo della rottura ingiustificata di trattative negoziali in fieri ovvero per il tramite di “meri” comportamenti: silenzi, ritardi, rifiuti taciti. Questi ultimi in particolare, infatti, in base alle proprie modalità di realizzazione, possono configurare un vulnus all’affidamento del privato, provocare, dunque, l’inadempimento dei visionati obblighi comportamentali ed integrare, così, gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità. Dunque, oltre alla coercibilità dell’obbligo a contrarre di cui all’articolo 2932 del Codice Civile, può affiancarsi, quale rimedio di giustizia esperibile dal privato, l’avanzamento di un’apposita domanda risarcitoria. Soprattutto laddove “l’esatto adempimento” non sia fattivamente praticabile (si pensi al caso della revoca o dell’annullamento dell’aggiudicazione).
Ragion per cui sarà proprio la disamina di ciascuna delle menzionate ipotesi applicative, dei motori di cui all’articolo 1337 del Codice Civile, a consentire non solo di scindere quella responsabilità nelle due sub-tipologie pura e spuria, ma anche di trarre considerazioni distinte in ordine ai criteri di liquidazione del danno patito e subito.
Con riguardo al caso della revoca/annullamento legittimi dell’aggiudicazione, il civis ivi si duole di un operare scorretto da parte della P.A. Quest’ultima, infatti, agendo in autotutela e incidendo indirettamente sul contratto da stipulare, motiva il ritiro anzitempo della propria determinazione sulla base del riscontro di un vizio di legittimità ovvero della sopravvenienza di un interesse pubblico superiore (articolo 21-octies e articolo 21-quinquies, lg. 241 del 1990). Ciò significa, dunque, che non potendosi dare luogo, in ogni caso, all’esecuzione del futuro contratto, al privato aggiudicatario residuerà quale forma di tutela quella del risarcimento del danno. Del danno, cioè, da lesione del ragionevole affidamento ingeneratogli dalla complessiva condotta della P.A. e/o dai singoli segmenti comportamentali che questa abbia disvelato nel corso della procedura ad evidenza pubblica.
Secondo le argomentazioni della citata Plenaria, infatti, in tale eventualità, verrà in rilievo il modello classico (rectius: puro) di responsabilità pre-contrattuale. Il criterio di commisurazione e di liquidazione del danno si assesterà sulla soglia dell’interesse negativo, comprensivo delle spese indotte dalla negoziazione e delle occasioni perdute, ma non parametrato al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto che si sarebbe dovuto porre in essere (il cosiddetto interesse positivo).
Nel caso, invece, di rottura ingiustificata delle trattative da parte della P.A. (ma il discorso può ragionevolmente estendersi anche alle ipotesi dei comportamenti illegittimi), l’interprete si troverà al cospetto di una responsabilità pre-contrattuale cosiddetta spuria.
Infatti, il tipo di responsabilità configurabile a carico della P.A. è, a ben vedere, una gemmazione della responsabilità ex articolo 2043 del Codice Civile in cui, all’illiceità del fatto costituente fonte dell’obbligazione risarcitoria, si sostituisce l’illegittimità del modus agendi della Pubblica Amministrazione. Di un comportamento, cioè, con cui la P.A. ha direttamente inciso, impendendoglielo, sul conseguimento del bene della vita da parte del privato e che, pertanto, determinerà quest’ultimo – sussistendo in toto le relative condizioni – ad esercitare l’azione risarcitoria, modulando stavolta il danno subito anche sulla base dell’interesse positivo.
Le stesse considerazioni, inoltre, possono spendersi, in conformità a consolidata giurisprudenza, anche ove la violazione dell’obbligo di correttezza si sia tradotto nel silenzio, serbato dalla P.A. all’aggiudicatario, circa l’esistenza di cause di invalidità del futuro contratto. Il che comporta, com’è ovvio, la piena applicazione, nei confronti della Pubblica Amministrazione, del regime normativo di cui all’articolo 1338 del Codice Civile, nonché del correlato obbligo di risarcire il danno arrecato all’ignaro, senza sua colpa, civis.
In tutta evidenza, dunque, nei casi menzionati vi sono due denominatori comuni.
Da un lato, v’è la responsabilità della P.A. per culpa in contraendo: per un agire scorretto che, a prescindere dall’adozione di atti legittimi e dalla indennizzabilità del pregiudizio subito (articolo 21-quinquies, comma 1-bis, lg. 241 del 1990), ha comunque lesionato l’affidamento del privato. La riparazione di detto vulnus avverrà, dunque, sulla scorta delle regole processuali di cui all’articolo 2043 del Codice Civile.
Infatti, come visto in apertura nonché ad avviso di recente giurisprudenza, il rapporto P.A. – civis va (quasi sempre) a iscriversi nel più ampio genus della responsabilità extracontrattuale, a prescindere dalla sua qualificazione come responsabilità pre-contrattuale. Detta qualificazione, invero, funge da semplice e sostanziale discrimen in merito alle cause integrative della fattispecie di cui all’articolo 1337 del Codice Civile e, perciò, differenti da quelle integrative della responsabilità da fatto illecito.
Ciò significa che, affinché possa individuarsi la P.A. come responsabile pre-contrattuale del danno patito dal privato e affinché questi possa vedersi accolta la correlata domanda risarcitoria, il danneggiato dovrà ricostruire la catena causale “lesione – evento – condotta – dolo/colpa” secondo gli schemi euristici e i gravosi oneri probatori tipici dell’illecito aquiliano. Ciò comporta, ancora, la fruibilità ed applicabilità, anche a svantaggio dell’aggiudicatario, delle prescrizioni – redistributive della colpa - di cui all’articolo 1227 del Codice Civile.
Il secondo denominatore comune è rappresentato dall’Autorità giudiziaria competente a conoscere delle controversie aventi ad oggetto le menzionate ipotesi applicative della responsabilità ex articoli 1337 e 1338 del Codice Civile. Esse, infatti, sono attratte ex articolo 133 del Codice del processo amministrativo nella sfera di cognizione esclusiva del giudice amministrativo; attrazione che ben può comprendersi soprattutto nel caso dei cosiddetti atti di autotutela “interni” (revoca/annullamento) che incidono, soltanto di riflesso, sul contratto e rendono così evidente la propria intrinseca natura e valore pubblicistico.
Un discorso diverso va fatto, invece, qualora l’interazione tra P.A. e civis non si arresti alla tappa del modulo procedimentale: qualora le parti, cioè, si spostino poco più avanti nella catena bifasica, interagiscano e diano luogo all’esecuzione del contratto. Può, infatti, accadere che esse non pervengano ad una sua fattiva realizzazione a causa della P.A. che eserciti – unilateralmente – il diritto potestativo di cui è titolare al pari di ogni contraente di diritto comune: il c.d. diritto di recesso (articolo 21-sexies, lg. 241 del 1990).
Di primo acchito, potrebbe dirsi che le responsabilità eventualmente emergenti in questo contesto siano di matrice contrattuale. Tuttavia, la questione della loro corretta qualificazione è di poco conto ove si consideri che la P.A. può esercitare il recesso solo nei casi di cui alle prescrizioni di legge e/o alle statuizioni negoziali. Esso può, infatti, costituire una modalità di esercizio del potere di autotutela e dar luogo, quindi, in capo all’Amministrazione, alla nascita di obblighi indennizzatori tesi al ristoro del pregiudizio comunque subito dal privato.
A ben vedere, però, in questo caso, l’atto della P.A. incide direttamente sul contratto, assumendo connotati privatistici, tant’è che trova applicazione la disposizione dell’articolo 1373 del Codice Civile. Viene, perciò, in rilievo la sfera di cognizione del giudice ordinario.
A questa prima differenza, si affianca una seconda, invero profilata dalla giurisprudenza civile con riguardo all’articolo 11, comma 2 e 3, Decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998, in tema di certificazione antimafia.
La facoltà di revoca-recesso ivi esperibile da parte della stazione appaltante/P.A., incide sempre, direttamente, sul contratto. Stavolta, però, questa è espressione di un potere autoritativo: quello di valutazione discrezionale dei requisiti del contraente. È espressione, cioè, di un potere a fronte del quale il privato/appaltatore gode innegabilmente di una posizione d’interesse legittimo e su cui insiste la giurisdizione del giudice amministrativo. Pertanto, esso è comunque assimilabile all’ipotesi dell’articolo 21-sexies (e alle conseguenze indennizzatorie che potrebbero derivarne), ma, in virtù della disparità tra situazioni giuridiche solleticate dal suo esercizio, le competenze giurisdizionali sono differenti.
Infine, ex adverso, un’altra ipotesi di responsabilità della P.A. può configurarsi qualora il privato non sia aggiudicatario, ma terzo rispetto ad un’aggiudicazione illegittima.
Qui, le posizioni sostanziali in capo ai soggetti coinvolti (P.A. – aggiudicatario – terzo escluso) e le correlate dialettiche processuali variano sensibilmente soprattutto rispetto alle ipotesi applicative della responsabilità pre-contrattuale.
In questo caso, infatti, il terzo/privato non aggiudicatario, affinché si veda somministrata la tutela che egli ritiene di meritare, dovrà impugnare il provvedimento lesivo (l’aggiudicazione) del suo interesse (la titolarità del diritto alla stipula del contratto) e ricorrere, pertanto, ad una giustizia in primis demolitoria, eventualmente corredata di apposita domanda risarcitoria, secondo le prescrizioni dell’articolo 30 del Codice del processo amministrativo.
Si vuol dire, cioè, che la dinamica del processo amministrativo, in tale ambito, subisce una modifica che riguarda le modalità di ottenimento della tutela da parte del privato.
A cambiare è, infatti, la consistenza della posizione soggettiva da lui vantata: pariteticità delle parti in causa, diritto soggettivo, estraneità della tutela caducatoria e signoria di quella risarcitoria nei casi di cui agli articoli 1337 e 1338 del Codice Civile; disparità dei contendenti, interesse legittimo-potere pubblico, strenue decadenze da rispettare, signoria della tutela demolitoria e non più ancillarità di quella riparatoria nel caso da ultimo esposto.
Va da sé, pertanto, che, nonostante la matrice comune ai due contesti sia costituita dalla identità del giudice competente a conoscere delle relative controversie, le due ipotesi di responsabilità – per quanto entrambe affermino o possano affermare una “colpa” della P.A. nella spendita del public power – andranno contestate, declinate e verificate secondo modalità quasi opposte.
A riprova di ciò, basti pensare che il modulo “secco” di cui all’articolo 30 del Codice del processo amministrativo ammorbidirà il suo rigore, in caso di accoglimento del ricorso del terzo illegittimamente escluso, grazie alla previsione di rimedi ulteriori rispetto ai classici caducatori e risarcitori ex articolo 2043 del Codice Civile.
Il riferimento è alla cosiddetta sorte del contratto dopo l’annullamento dell’aggiudicazione e al tipo di sanzione irrogabile al contratto stesso, ormai intervenuto tra l’aggiudicatrice e l’illegittimo aggiudicatario (articoli 55, 121 e 122 del Codice del processo amministrativo).
In definitiva, come ci si può agevolmente rendere conto, il codice dei contratti pubblici, in tempi ben precedenti rispetto all’avvento del Codice del processo amministrativo, già anticipava quello sganciamento tra tutela demolitoria e risarcitoria che avrebbe caratterizzato il Decreto Legislativo n. 104/2010.
Sebbene a tali risvolti operativi sia giunta la giurisprudenza amministrativa ermeneuticamente, le disposizioni del Codice dei contratti pubblici hanno fornito un giusto assist per rendere la tutela del privato il più completa ed effettiva possibile, in linea, altresì, con il dettato normativo europeo ed i suoi insegnamenti pretori.
A prescindere, infatti, dall’attrazione in capo al giudice amministrativo della competenza a conoscere di tutte (o quasi: si pensi all’ipotesi del recesso) le controversie in punto di contratti pubblici, ciò che viene in rilievo è la facoltà, per il civis, di muovere un addebito di responsabilità in capo alla Pubblica Amministrazione; addebito svincolato dalla preventiva, contestuale o successiva impugnazione del provvedimento ritenuto lesivo.
Vero è che, in queste ipotesi, il privato interfaccia la P.A. vantando uno status giuridico di diritto soggettivo. È, altresì, vero, però, che – soprattutto nei casi di rottura ingiustificata delle trattative, silenzio o ritardi immotivati – il comportamento colpevole della Pubblica Amministrazione non incarna esattamente la nozione di comportamento mero, come tale privo di consistenza pubblicistica. Al contrario, il suo illegittimo modus agendi è comunque espressione di un potere pubblico, di un suo cattivo esercizio; il che è idoneo a spiegare come mai, a prescindere da asettiche adesioni al dato normativo (articolo 133 del Codice del processo amministrativo), controversie di tal fatta siano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Argomentando a contrario, lo spessore di diritto soggettivo e la sua giustiziabiltà, ove ingiustamente leso, ex articoli 1337, 1338, 2043 o 2932 del Codice Civile è certamente idoneo a giustificare la fruizione delle modalità di tutela tipiche di simili lesioni. Modalità volte al rispetto di precisi schemi di ricostruzione eziologica, libere da rigide decadenze, ma comunque asservite al rispetto di termini prescrizionali, nonché scevre dall’onere/obbligo di impugnazione del provvedimento lesivo.
Esse, tuttavia, rispecchiano appieno quel concetto di effettività della tutela, fatto proprio dal Codice del processo amministrativo, nonché caratteristico della Convenzione EDU (articoli 6 e 13) se valutate in relazione al fatto che vanno a lambire un comportamento comunque espressivo di un potere pubblico.
Concludendo, il Codice dei contratti, insieme con la giurisprudenza che ha interpretato e messo a sistema, anche col diritto europeo, le sue disposizioni, ha anticipato l’abbandono del mito della pregiudiziale amministrativa. Abbandono operato poi, di fatto, dal Codice del processo amministrativo anche – e soprattutto – con riguardo agli “ordinari” casi di tutela dell’interesse legittimo.
L’avvento del cosiddetto Codice del processo amministrativo (Decreto Legislativo n. 104/2010), oltre a introdurre il primo esemplare di codificazione di rito in ambito pubblicistico, ha formalizzato la caduta di taluni dogmi, tipici della fase primordiale (e non solo) del diritto amministrativo e comunque già messi in discussione dalla giurisprudenza contemporanea: in primo luogo, quello della irrisarcibilità dell’interesse legittimo.
Se nulla quaestio poteva sollevarsi con riguardo ai rapporti paritetici tra Pubblica Amministrazione e privato (non foss’altro che per la diversa caratura del diritto venuto in gioco), la configurazione della posizione soggettiva del civis, che interfacci asimmetricamente la P.A., come interesse legittimo rendeva dapprima controversa l’ammissibilità di una sua tutela tout court e, successivamente, di una tutela che contemplasse anche l’esercizio di azioni risarcitorie.
Infatti, la Manciniana “rassegnazione che avrebbe dovuto seguire alla semplice lesione dell’interesse” insieme con l’assenza di norme ad hoc atte a prescrivere cure diverse da quella meramente demolitoria, rimetteva all’interprete l’onere di colmare le lacune di un ordinamento privo di un vero e proprio rito risarcitorio e di somministrare, di riflesso, una tutela, per quanto possibile, completa e rispondente a canoni di effettività. Una tutela, cioè, che non si limitasse a elidere dalla realtà giuridica il provvedimento lesivo, ma che si facesse, altresì, carico dei danni, ulteriori e consequenziali (articolo 7, Legge n. 205/2000), che il privato potesse aver subito a seguito di quell’emanazione contra legem.
Pertanto, la risarcibilità dell’interesse legittimo, da ipotesi avversata ed esorbitante i limiti normativi (articoli 4 e 5, L.A.C.) imposti dal Legislatore, è divenuta caposaldo delle dialettiche giudiziarie. Grazie, infatti, all’operato di attenta giurisprudenza (Cassazione Civile, 22 luglio 1999, n. 500), si è fatto di detta tecnica di tutela una regola processuale, di chiara ispirazione civilistica, finalizzata alla deduzione di ulteriori (meglio: differenziati) profili di responsabilità addebitabili alla P.A. agente.
La caduta del dogma dell’irrisarcibilità – che ha avvicinato l’Italia alle esperienze degli altri Stati europei – ha, tuttavia, comportato la costruzione di un altro dogma. Quello secondo cui al civis è inibito l’esercizio di un’azione risarcitoria ove svincolato dalla previa impugnazione (e successivo annullamento) del provvedimento lesivo dell’interesse.
In realtà, la Cassazione del 1999 aveva già – velatamente - individuato un’autonomia operativa tra le due tecniche di difesa. Tuttavia, il mito della cosiddetta pregiudiziale amministrativa continuò a persistere nel nostro ordinamento, ancorando le istanze di tutela dei ricorrenti al rigoroso rispetto di termini di decadenza e di logiche processuali, così indebolendo le chances di ottenimento di una pronuncia pienamente satisfattiva delle loro pretese.
A questa criticità ha posto rimedio proprio il Codice del processo amministrativo, con il suo articolo 30, comma primo. La disposizione, da leggersi in parallelo all’articolo 7, comma 4 (“[…] pure se introdotte in via autonoma”), sancisce la proponibilità di un’azione risarcitoria indipendente, ossia slegata dall’impugnazione e dall’annullamento del provvedimento ritenuto lesivo. Essa, invero, tratteggia una sorta di statuto della tutela risarcitoria all’interno del processo amministrativo, preoccupandosi di individuare: i limiti operativi all’esperibilità dell’azione risarcitoria (comma 2, prima parte), le species di istanze risarcitorie avanzabili (comma 2, seconda parte), i limiti temporali entro cui l’azione deve essere promossa a pena di decadenza (comma 3, prima parte, con la deroga di cui al comma 4), la proponibilità dell’azione “in differita” (comma 5), coerentemente alla logica sottesa all’istituto dei motivi aggiunti e, infine, la competenza del giudice amministrativo a conoscere delle questioni risarcitorie sia nelle vesti di giudice naturale sia in sede di giurisdizione esclusiva sui diritti soggettivi (comma 6).
Il tutto, ovviamente subordinato alla dimostrazione, da parte del civis-danneggiato, della lesione patita secondo gli schemi della responsabilità ex articolo 2043 del Codice Civile e degli eventuali correttivi di cui all’articolo 1227 del Codice Civile, implicitamente richiamati dall’articolo 30, comma 3, seconda parte.
Soprattutto con riguardo a quest’implicito rinvio, appare evidente come il Legislatore abbia assunto una posizione di compromesso – a cavallo tra la pregiudizialità pura e la radicale autonomia tra le due tecniche di tutela –, ferma restando, tuttavia, l’ormai certa caduta dell’ancillarità dell’una (tutela risarcitoria) rispetto all’altra (tutela demolitoria). Certezza che, inoltre, può ricavarsi dalla esegesi di un terzo dato normativo (l’articolo 34, comma 3, Codice del processo amministrativo), il quale, riconoscendo la potenziale non utilità che il ricorrente potrebbe trarre dalla caducazione del provvedimento (si pensi, per un pratico riscontro, alla sentenza del Consiglio di Stato, 10 maggio 2011, n. 2755, ma anche ad Adunanza Plenaria, 23 marzo 2011, n. 3), conferisce al giudice il potere di accertare l’illegittimità dell’atto impugnato ai soli fini risarcitori.
In definitiva, l’evoluzione sancita dalle norme del Codice del processo va ad allinearsi all’ormai consolidata visione dottrinale e giurisprudenziale secondo cui il giudizio amministrativo verte non più su un atto, del quale si contesta la legittimità, bensì su un rapporto. Un rapporto che vede interfacciarsi P.A. e privato e che ha ad oggetto l’indagine, compiuta dal giudice, circa la fondatezza della pretesa vantata, in via oppositiva ovvero pretensiva, dal secondo nei confronti della prima. E che ove si risolva positivamente per il civis, merita di concludersi con quel quid pluris che la tutela risarcitoria è in grado di conferirgli.
Un ambito all’interno del quale la responsabilità della P.A. è particolarmente avvertita è quello della contrattazione pubblica, con specifico riferimento alla materia dell’aggiudicazione di contratti pubblici.
Caratteristica della cosiddetta evidenza pubblica è il suo bipolarismo. Al modulo procedimentale si affianca, infatti, un modulo negoziale che si contraddistingue per la pariteticità di chi dialoga al suo interno.
Si parte, dunque, con un vero e proprio procedimento amministrativo (prima fase). Esso, in quanto tale, è funzionalizzato al perseguimento dell’interesse pubblico, nonché assoggettato ai tipici controlli contabili che devono precedere la definizione di qualsivoglia negozio della P.A. ed informarne lo svolgimento. Il suo momento terminale è rappresentato dalla fase dell’aggiudicazione del contratto al miglior offerente. Qui la P.A./aggiudicatrice individua la propria controparte negoziale, in conformità alle prescrizioni del bando/lex specialis, e procede, da ultimo, alla stipula del contratto: cesura con cui si mette fine alla fase pubblicistica ed a interazioni impari.
Icasticamente, pertanto, può dirsi che il provvedimento di aggiudicazione definitiva e la stipula del contratto segnano il momento conclusivo della procedura ad evidenza pubblica e quello d’avvio del rapporto negoziale tra P.A. aggiudicatrice e “miglior” contraente privato (seconda fase).
Lo stacco temporale che intercorre tra i due momenti, infatti, oltre ad essere decisivo ai fini del riparto di giurisdizione, individua un sostanziale discrimen tra le situazioni giuridico-soggettive configurabili in capo al civis: alla stregua di interesse legittimo nel corso del modulo procedimentale; di diritto soggettivo in quello di perfezionamento dell’operazione strictu sensu negoziale.
In altri termini, la determinazione autoritativa con cui la P.A. formalizza l’individuazione del soggetto aggiudicatario sancisce il definitivo completamento della fase pubblicistica, caratterizzata dalla spendita del public power ai fini del precipuo perseguimento dell’interesse pubblico, ed immette le parti (P.A. – privato) all’interno di un rapporto (negoziale) ormai paritetico, volto alla concretizzazione di quanto formalmente statuito in seno al provvedimento: la stipula, in favore del civis, del contratto che si è aggiudicato.
L’alternanza tra situazioni giuridico-soggettive profilabili in capo al privato comporta due ordini di conseguenze.
In primis, la fruibilità, da parte sua, di strumenti difensivi diversi a seconda del tipo di interesse cui vada somministrata tutela.
In secondo luogo, essa grava l’interprete e chi adisce le vie giudiziarie del compito di valutare attentamente il tipo di responsabilità addebitabile alla P.A. agente, costituendo detta individuazione un banco di prova ai fini della effettiva adoperabilità di quegli strumenti difensivi.
Infatti, se il provvedimento di aggiudicazione contrassegna la nascita, in capo al privato/aggiudicatario, di un diritto (soggettivo) a contrarre (rectius: alla futura stipula del contratto), l’inerzia ingiustificata ovvero il rifiuto illegittimo che la P.A. manifesti nel procedere a detta stipula arrecherebbero, in tutta evidenza, una sensibile lesione alla sfera giuridica del civis. Lesione – secondo un primo approccio - giustiziabile ai soli sensi dell’articolo 2932 del Codice Civile, ricorrendone gli elementi costitutivi: sussistenza di un obbligo a stipulare gravante sulla P.A., sua violazione e consequenziale inadempimento imputabile alla P.A. agente.
A ben guardare, tuttavia, l’ambito di operatività del rimedio citato è, di fatto, circoscritto alle classiche ipotesi di responsabilità (contrattuale) per inadempimento, il cui margine di operatività è, invero, assai limitato nel campo del diritto pubblico. Osservando, infatti, la formulazione della norma (“se colui che è obbligato a concludere un contratto, non adempie l’obbligazione”), può facilmente evincersi come il perno dell’articolo 2932 del Codice Civile sia un mancato adempimento cui si pone rimedio costringendo la parte recalcitrante a rendere la prestazione che era negozialmente tenuta ad adempiere e che avrebbe dovuto realizzare sin dal principio.
Ciò non toglie, tuttavia – in base a un secondo approccio – che, proprio in forza dei citati elementi costitutivi (fonte dell’obbligo a contrarre rinvenibile nella lex specialis e imposizione di un “autovincolo”, da parte della P.A. stessa, a negoziare con chi presenti le caratteristiche di cui al bando, emanazione di un provvedimento – l’aggiudicazione – che formalizzi quanto predetto, eventuale violazione dell’obbligo a contrarre, conseguente assenza di contratto e giustiziabilità della “trasgressione”), alla lesione cagionata al privato non possa, in ogni caso, recarsi ristoro a titolo di responsabilità cosiddetta pre-contrattuale, ove il comportamento della P.A. ne determini l’integrazione.
Infatti, ad avviso dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 6 del 2005), la responsabilità (squisitamente civilistica) ex articolo 1337 del Codice Civile ben si presta al contesto del diritto amministrativo.
Tra i casi paradigmatici entro cui questa vada ricondotta v’è proprio la predetta ipotesi della P.A. che, contravvenendo – ingiustificatamente – ad un preciso obbligo negoziale, impedisca all’aggiudicatario di rendere effettivo e concreto il diritto a contrarre, nato a seguito dell’emanazione di un provvedimento ad hoc.
A fronte di insistenti contrasti, tra dottrina e giurisprudenza, sul tipo di responsabilità addebitabile alla P.A. in casi simili e, addirittura, sull’effettiva consistenza di diritto soggettivo dello status giuridico riconducibile al privato, la Plenaria fugò qualsiasi dubbio, alimentato peraltro da un’ambigua lettera normativa (articolo 11, comma 7 e 9, Codice dei contratti pubblici), e propese definitivamente per l’applicabilità dell’articolo 1337 del Codice Civile alle ipotesi dianzi menzionate.
Ivi, infatti, la relazione tra P.A. e privato, contrariamente a quanto sostenuto dalla Cassazione, s’iscrive in un quadro di rapporti paritetici in cui entrambe le figure negoziali assumono la qualità di futuri e reciproci contraenti.
Il privato non è più, dunque, un mero partecipante alla gara: subordinato, in quanto tale, alla potestà pubblicistica e semplice titolare di un interesse legittimo al corretto esercizio della stessa. Il privato è, a ben vedere, un soggetto che interfaccia direttamente la P.A. e che è direttamente tutelato dal Codice Civile attraverso la previsione di specifici canoni comportamentali (correttezza e buona fede in senso oggettivo: articolo 1375) la cui violazione configura un’ipotesi di responsabilità pre-contrattuale a carico del trasgressore.
Essa, peraltro – come succintamente già visto – può innescarsi per il tramite di più motori. Attraverso la revoca o l’annullamento legittimi dell’aggiudicazione e degli atti della relativa procedura, per mezzo della rottura ingiustificata di trattative negoziali in fieri ovvero per il tramite di “meri” comportamenti: silenzi, ritardi, rifiuti taciti. Questi ultimi in particolare, infatti, in base alle proprie modalità di realizzazione, possono configurare un vulnus all’affidamento del privato, provocare, dunque, l’inadempimento dei visionati obblighi comportamentali ed integrare, così, gli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità. Dunque, oltre alla coercibilità dell’obbligo a contrarre di cui all’articolo 2932 del Codice Civile, può affiancarsi, quale rimedio di giustizia esperibile dal privato, l’avanzamento di un’apposita domanda risarcitoria. Soprattutto laddove “l’esatto adempimento” non sia fattivamente praticabile (si pensi al caso della revoca o dell’annullamento dell’aggiudicazione).
Ragion per cui sarà proprio la disamina di ciascuna delle menzionate ipotesi applicative, dei motori di cui all’articolo 1337 del Codice Civile, a consentire non solo di scindere quella responsabilità nelle due sub-tipologie pura e spuria, ma anche di trarre considerazioni distinte in ordine ai criteri di liquidazione del danno patito e subito.
Con riguardo al caso della revoca/annullamento legittimi dell’aggiudicazione, il civis ivi si duole di un operare scorretto da parte della P.A. Quest’ultima, infatti, agendo in autotutela e incidendo indirettamente sul contratto da stipulare, motiva il ritiro anzitempo della propria determinazione sulla base del riscontro di un vizio di legittimità ovvero della sopravvenienza di un interesse pubblico superiore (articolo 21-octies e articolo 21-quinquies, lg. 241 del 1990). Ciò significa, dunque, che non potendosi dare luogo, in ogni caso, all’esecuzione del futuro contratto, al privato aggiudicatario residuerà quale forma di tutela quella del risarcimento del danno. Del danno, cioè, da lesione del ragionevole affidamento ingeneratogli dalla complessiva condotta della P.A. e/o dai singoli segmenti comportamentali che questa abbia disvelato nel corso della procedura ad evidenza pubblica.
Secondo le argomentazioni della citata Plenaria, infatti, in tale eventualità, verrà in rilievo il modello classico (rectius: puro) di responsabilità pre-contrattuale. Il criterio di commisurazione e di liquidazione del danno si assesterà sulla soglia dell’interesse negativo, comprensivo delle spese indotte dalla negoziazione e delle occasioni perdute, ma non parametrato al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto che si sarebbe dovuto porre in essere (il cosiddetto interesse positivo).
Nel caso, invece, di rottura ingiustificata delle trattative da parte della P.A. (ma il discorso può ragionevolmente estendersi anche alle ipotesi dei comportamenti illegittimi), l’interprete si troverà al cospetto di una responsabilità pre-contrattuale cosiddetta spuria.
Infatti, il tipo di responsabilità configurabile a carico della P.A. è, a ben vedere, una gemmazione della responsabilità ex articolo 2043 del Codice Civile in cui, all’illiceità del fatto costituente fonte dell’obbligazione risarcitoria, si sostituisce l’illegittimità del modus agendi della Pubblica Amministrazione. Di un comportamento, cioè, con cui la P.A. ha direttamente inciso, impendendoglielo, sul conseguimento del bene della vita da parte del privato e che, pertanto, determinerà quest’ultimo – sussistendo in toto le relative condizioni – ad esercitare l’azione risarcitoria, modulando stavolta il danno subito anche sulla base dell’interesse positivo.
Le stesse considerazioni, inoltre, possono spendersi, in conformità a consolidata giurisprudenza, anche ove la violazione dell’obbligo di correttezza si sia tradotto nel silenzio, serbato dalla P.A. all’aggiudicatario, circa l’esistenza di cause di invalidità del futuro contratto. Il che comporta, com’è ovvio, la piena applicazione, nei confronti della Pubblica Amministrazione, del regime normativo di cui all’articolo 1338 del Codice Civile, nonché del correlato obbligo di risarcire il danno arrecato all’ignaro, senza sua colpa, civis.
In tutta evidenza, dunque, nei casi menzionati vi sono due denominatori comuni.
Da un lato, v’è la responsabilità della P.A. per culpa in contraendo: per un agire scorretto che, a prescindere dall’adozione di atti legittimi e dalla indennizzabilità del pregiudizio subito (articolo 21-quinquies, comma 1-bis, lg. 241 del 1990), ha comunque lesionato l’affidamento del privato. La riparazione di detto vulnus avverrà, dunque, sulla scorta delle regole processuali di cui all’articolo 2043 del Codice Civile.
Infatti, come visto in apertura nonché ad avviso di recente giurisprudenza, il rapporto P.A. – civis va (quasi sempre) a iscriversi nel più ampio genus della responsabilità extracontrattuale, a prescindere dalla sua qualificazione come responsabilità pre-contrattuale. Detta qualificazione, invero, funge da semplice e sostanziale discrimen in merito alle cause integrative della fattispecie di cui all’articolo 1337 del Codice Civile e, perciò, differenti da quelle integrative della responsabilità da fatto illecito.
Ciò significa che, affinché possa individuarsi la P.A. come responsabile pre-contrattuale del danno patito dal privato e affinché questi possa vedersi accolta la correlata domanda risarcitoria, il danneggiato dovrà ricostruire la catena causale “lesione – evento – condotta – dolo/colpa” secondo gli schemi euristici e i gravosi oneri probatori tipici dell’illecito aquiliano. Ciò comporta, ancora, la fruibilità ed applicabilità, anche a svantaggio dell’aggiudicatario, delle prescrizioni – redistributive della colpa - di cui all’articolo 1227 del Codice Civile.
Il secondo denominatore comune è rappresentato dall’Autorità giudiziaria competente a conoscere delle controversie aventi ad oggetto le menzionate ipotesi applicative della responsabilità ex articoli 1337 e 1338 del Codice Civile. Esse, infatti, sono attratte ex articolo 133 del Codice del processo amministrativo nella sfera di cognizione esclusiva del giudice amministrativo; attrazione che ben può comprendersi soprattutto nel caso dei cosiddetti atti di autotutela “interni” (revoca/annullamento) che incidono, soltanto di riflesso, sul contratto e rendono così evidente la propria intrinseca natura e valore pubblicistico.
Un discorso diverso va fatto, invece, qualora l’interazione tra P.A. e civis non si arresti alla tappa del modulo procedimentale: qualora le parti, cioè, si spostino poco più avanti nella catena bifasica, interagiscano e diano luogo all’esecuzione del contratto. Può, infatti, accadere che esse non pervengano ad una sua fattiva realizzazione a causa della P.A. che eserciti – unilateralmente – il diritto potestativo di cui è titolare al pari di ogni contraente di diritto comune: il c.d. diritto di recesso (articolo 21-sexies, lg. 241 del 1990).
Di primo acchito, potrebbe dirsi che le responsabilità eventualmente emergenti in questo contesto siano di matrice contrattuale. Tuttavia, la questione della loro corretta qualificazione è di poco conto ove si consideri che la P.A. può esercitare il recesso solo nei casi di cui alle prescrizioni di legge e/o alle statuizioni negoziali. Esso può, infatti, costituire una modalità di esercizio del potere di autotutela e dar luogo, quindi, in capo all’Amministrazione, alla nascita di obblighi indennizzatori tesi al ristoro del pregiudizio comunque subito dal privato.
A ben vedere, però, in questo caso, l’atto della P.A. incide direttamente sul contratto, assumendo connotati privatistici, tant’è che trova applicazione la disposizione dell’articolo 1373 del Codice Civile. Viene, perciò, in rilievo la sfera di cognizione del giudice ordinario.
A questa prima differenza, si affianca una seconda, invero profilata dalla giurisprudenza civile con riguardo all’articolo 11, comma 2 e 3, Decreto del Presidente della Repubblica n. 252 del 1998, in tema di certificazione antimafia.
La facoltà di revoca-recesso ivi esperibile da parte della stazione appaltante/P.A., incide sempre, direttamente, sul contratto. Stavolta, però, questa è espressione di un potere autoritativo: quello di valutazione discrezionale dei requisiti del contraente. È espressione, cioè, di un potere a fronte del quale il privato/appaltatore gode innegabilmente di una posizione d’interesse legittimo e su cui insiste la giurisdizione del giudice amministrativo. Pertanto, esso è comunque assimilabile all’ipotesi dell’articolo 21-sexies (e alle conseguenze indennizzatorie che potrebbero derivarne), ma, in virtù della disparità tra situazioni giuridiche solleticate dal suo esercizio, le competenze giurisdizionali sono differenti.
Infine, ex adverso, un’altra ipotesi di responsabilità della P.A. può configurarsi qualora il privato non sia aggiudicatario, ma terzo rispetto ad un’aggiudicazione illegittima.
Qui, le posizioni sostanziali in capo ai soggetti coinvolti (P.A. – aggiudicatario – terzo escluso) e le correlate dialettiche processuali variano sensibilmente soprattutto rispetto alle ipotesi applicative della responsabilità pre-contrattuale.
In questo caso, infatti, il terzo/privato non aggiudicatario, affinché si veda somministrata la tutela che egli ritiene di meritare, dovrà impugnare il provvedimento lesivo (l’aggiudicazione) del suo interesse (la titolarità del diritto alla stipula del contratto) e ricorrere, pertanto, ad una giustizia in primis demolitoria, eventualmente corredata di apposita domanda risarcitoria, secondo le prescrizioni dell’articolo 30 del Codice del processo amministrativo.
Si vuol dire, cioè, che la dinamica del processo amministrativo, in tale ambito, subisce una modifica che riguarda le modalità di ottenimento della tutela da parte del privato.
A cambiare è, infatti, la consistenza della posizione soggettiva da lui vantata: pariteticità delle parti in causa, diritto soggettivo, estraneità della tutela caducatoria e signoria di quella risarcitoria nei casi di cui agli articoli 1337 e 1338 del Codice Civile; disparità dei contendenti, interesse legittimo-potere pubblico, strenue decadenze da rispettare, signoria della tutela demolitoria e non più ancillarità di quella riparatoria nel caso da ultimo esposto.
Va da sé, pertanto, che, nonostante la matrice comune ai due contesti sia costituita dalla identità del giudice competente a conoscere delle relative controversie, le due ipotesi di responsabilità – per quanto entrambe affermino o possano affermare una “colpa” della P.A. nella spendita del public power – andranno contestate, declinate e verificate secondo modalità quasi opposte.
A riprova di ciò, basti pensare che il modulo “secco” di cui all’articolo 30 del Codice del processo amministrativo ammorbidirà il suo rigore, in caso di accoglimento del ricorso del terzo illegittimamente escluso, grazie alla previsione di rimedi ulteriori rispetto ai classici caducatori e risarcitori ex articolo 2043 del Codice Civile.
Il riferimento è alla cosiddetta sorte del contratto dopo l’annullamento dell’aggiudicazione e al tipo di sanzione irrogabile al contratto stesso, ormai intervenuto tra l’aggiudicatrice e l’illegittimo aggiudicatario (articoli 55, 121 e 122 del Codice del processo amministrativo).
In definitiva, come ci si può agevolmente rendere conto, il codice dei contratti pubblici, in tempi ben precedenti rispetto all’avvento del Codice del processo amministrativo, già anticipava quello sganciamento tra tutela demolitoria e risarcitoria che avrebbe caratterizzato il Decreto Legislativo n. 104/2010.
Sebbene a tali risvolti operativi sia giunta la giurisprudenza amministrativa ermeneuticamente, le disposizioni del Codice dei contratti pubblici hanno fornito un giusto assist per rendere la tutela del privato il più completa ed effettiva possibile, in linea, altresì, con il dettato normativo europeo ed i suoi insegnamenti pretori.
A prescindere, infatti, dall’attrazione in capo al giudice amministrativo della competenza a conoscere di tutte (o quasi: si pensi all’ipotesi del recesso) le controversie in punto di contratti pubblici, ciò che viene in rilievo è la facoltà, per il civis, di muovere un addebito di responsabilità in capo alla Pubblica Amministrazione; addebito svincolato dalla preventiva, contestuale o successiva impugnazione del provvedimento ritenuto lesivo.
Vero è che, in queste ipotesi, il privato interfaccia la P.A. vantando uno status giuridico di diritto soggettivo. È, altresì, vero, però, che – soprattutto nei casi di rottura ingiustificata delle trattative, silenzio o ritardi immotivati – il comportamento colpevole della Pubblica Amministrazione non incarna esattamente la nozione di comportamento mero, come tale privo di consistenza pubblicistica. Al contrario, il suo illegittimo modus agendi è comunque espressione di un potere pubblico, di un suo cattivo esercizio; il che è idoneo a spiegare come mai, a prescindere da asettiche adesioni al dato normativo (articolo 133 del Codice del processo amministrativo), controversie di tal fatta siano devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Argomentando a contrario, lo spessore di diritto soggettivo e la sua giustiziabiltà, ove ingiustamente leso, ex articoli 1337, 1338, 2043 o 2932 del Codice Civile è certamente idoneo a giustificare la fruizione delle modalità di tutela tipiche di simili lesioni. Modalità volte al rispetto di precisi schemi di ricostruzione eziologica, libere da rigide decadenze, ma comunque asservite al rispetto di termini prescrizionali, nonché scevre dall’onere/obbligo di impugnazione del provvedimento lesivo.
Esse, tuttavia, rispecchiano appieno quel concetto di effettività della tutela, fatto proprio dal Codice del processo amministrativo, nonché caratteristico della Convenzione EDU (articoli 6 e 13) se valutate in relazione al fatto che vanno a lambire un comportamento comunque espressivo di un potere pubblico.
Concludendo, il Codice dei contratti, insieme con la giurisprudenza che ha interpretato e messo a sistema, anche col diritto europeo, le sue disposizioni, ha anticipato l’abbandono del mito della pregiudiziale amministrativa. Abbandono operato poi, di fatto, dal Codice del processo amministrativo anche – e soprattutto – con riguardo agli “ordinari” casi di tutela dell’interesse legittimo.