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Fenomeno successorio e misure di prevenzione patrimoniale

Fenomeno successorio e misure di prevenzione patrimoniale
Fenomeno successorio e misure di prevenzione patrimoniale

Il legislatore, attraverso l’articolo 2 del codice penale, ha redatto un vero e proprio statuto riepilogativo delle norme che disciplinano il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo e ricognitivo dei principi a tal proposito posti a fondamento della Costituzione.

La fattispecie citata consta, infatti, di sei disposizioni, ripartite in altrettanti commi.

La struttura della norma è di tipo piramidale, nel senso che ad un primo comma, che mutua in buona sostanza i contenuti dell’articolo 25, comma 2 della Costituzione, fanno seguito gli altri cinque, applicativi di quest’ultimo.

È evidente, dunque, che il fulcro attorno al quale ruota l’intera disciplina successoria è la più puntuale “riedizione” del noto brocardo costituzionale nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, già fatto proprio, in parte, dall’articolo 1 del codice penale. Si discorre di “riedizione” perché il legislatore del 1930 non si è limitato a prendere atto della norma fondamentale e a trasfonderla, immutata, nelle pieghe del codice, bensì ne ha proposto una modulazione differenziata, a seconda delle vicissitudini che possono attingere le leggi penali col passare degli anni.

Pertanto - parafrasando la locuzione latina -, all’irrinunciabile, ma generico, dogma in virtù del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto” (così l’articolo 25, comma 2 della Costituzione), il legislatore ha affiancato le diverse sfaccettature che, in concreto, quel dogma può assumere, e che l’interprete, dunque, può trovarsi a dover fronteggiare. Dette sfaccettature sono compendiabili nella cosiddetta abolitio criminis, ossia nella carenza di rilevanza penale del fatto commesso, operata da una legge successiva, in tal senso “abolitrice”, e nella cosiddetta abrogatio sine abolitio che si configura ove, a seguito di sopravvenienze normative, un fatto è punito diversamente rispetto a prima.

Le disposizioni riassuntive di quanto appena ricordato si rinvengono negli articoli 2, comma 2 e 2, comma 4 del codice penale; fattispecie che non si limitano a tratteggiare il fenomeno, proponendone  invero una risoluzione applicativa.

Con riguardo, infatti, all’eventualità dell’abolitio criminis, il codice impone all’interprete di non condannare l’imputato, qualora il processo penale sia in fieri, nel caso in cui la nuova legge non qualifichi più come reato il fatto contestatogli dal P.M.. Parimenti, il codice offre al giudice una coerente chiave risolutiva laddove la sopravvenienza normativa favorevole al reo giunga quando quest’ultimo sia già stato condannato ed il correlato processo penale sia arrivato alla sua fase terminale, quella dell’esecuzione della pena. In questo caso, l’articolo 2, comma 2 del codice penale precisa che la depenalizzazione del fatto-reato travolge la sentenza di condanna - ancorché res iudicata - ed i suoi effetti penali, determinando la scarcerazione del detenuto ove in vinculis.

La ratio della disposizione codicistica va rinvenuta in almeno due necessità che il legislatore del 1930 ha inteso soddisfare. La prima è quella della stretta aderenza del sistema penale di fatto al sistema penale normativo. Si vuol dire, cioè, che il diritto in toto (e, in particolare, il diritto penale), poiché opera dell’uomo, s’incanala nella realtà sociale, recependone esigenze, osservandone eventuali storture, apportando modifiche più appropriate ai tempi moderni.

Di conseguenza, se il Parlamento si avvede di tali bisogni, al punto di reputare opportuno un intervento normativo innovatore, l’ordinamento penale non può restarne a margine, dovendo piuttosto adeguarsi, anche - e soprattutto - per una forma di coerenza e rispetto del più alto principio di legalità; è questa, dunque, la funzione dell’articolo 2, comma 2 del codice penale.

A titolo esemplificativo, sarebbe paradossale, infatti, oltreché contra legem, se, a seguito dell’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, dettata per ragioni acceleratorie e deflattive dei contenziosi, l’ordinamento penale continuasse a considerare reo un soggetto condannato per una contravvenzione ormai inesistente. Da qui, la necessitata, prima che necessaria, “caducazione” del provvedimento di condanna e dei suoi correlati effetti; caducazione, comunque, effettiva solo ove attivati gli opportuni mezzi processuali previsti ad hoc dal legislatore (ci si vuol riferire al cosiddetto incidente di esecuzione ex articolo 673 del codice di procedura penale).

Il rispetto del principio di legalità è, inoltre, collegato alla finalità anche rieducativa della sanzione penale, ruolo riconosciutole dall’articolo 27, comma 3 della Costituzione. Infatti, non potrebbe dirsi “correttiva”, e nemmeno retributiva, una pena che continui ad esplicare i suoi effetti in un contesto sociale dove il fatto a monte di quella irrogazione non è più considerato punibile.

Quest’appunto dà la stura per individuare la seconda delle necessità sottese alla ratio dell’articolo 2, comma 2 del codice penale: quella della tutela della libertà personale, ritenuta costituzionalmente inviolabile ex articolo 13 della Carta fondamentale. Qualsivoglia, superiore, esigenza di salvaguardia di un bene comune cede dinnanzi all’ingiustificato sacrificio della libertà di movimento del singolo, che può tollerarsi, infatti, solo se ad imporlo siano disposizioni di legge dallo stringente - peraltro - ambito applicativo.

Ed è proprio il diritto inviolabile di cui all’articolo 13 della Costituzione, in uno con l’implicito divieto di retroattività della legge penale più sfavorevole, ad informare anche la ratio dell’articolo 2, comma 4 del codice penale .

L’abrogatio sine abolitio, infatti, a netta differenza dell’abolitio criminis, contempla un fenomeno successorio in senso stretto: in un dato arco di tempo, cioè, si susseguono più leggi penali, modificative l’una dell’altra, l’ultima delle quali prevede, per il reo, un trattamento sanzionatorio più favorevole. L’articolo 2, comma 4 del codice penale dispone, in tal caso, l’applicazione della legge modificativa in melius, a meno che non sia stata, però, pronunciata sentenza irrevocabile di condanna.

Il limite del giudicato qui non rappresenta uno sbarramento superabile, come accade nell’ipotesi dell’articolo 2, comma 2 del codice penale, ma si atteggia a vero e proprio spartiacque ostativo alla retroazione della norma “migliore”. Ivi, infatti, l’interprete non assiste alla fuoriuscita di una fattispecie dall’ambito del giuridicamente rilevante, peculiarità dell’abolitio criminis, bensì osserva un mero alternarsi di disposizioni normative. L’essenza del fatto punibile, cioè, permane, non venendo mutata dall’attività del legislatore, il quale si limita ad apporre mere modifiche operative su di un reato che, dunque, resta tale.

La perduranza del disvalore del fatto fa sì che, fino a quando il processo penale sia in corso, possa farsi applicazione della sopravvenienza normativa più benefica per l’imputato. Una volta, però, che il processo sia arrivato a definizione, non potranno scavalcarsi i correlati limiti, applicando retroattivamente la norma più favorevole.

Sebbene una parziale rivisitazione di questi assunti si sia avuta, in tema di successione di leggi mediate nel tempo, col celebre caso Scoppola, la mancata ultra-attività della nuova, e più benefica, norma si spiega proprio con l’immutata offensività del fatto, che legittima il restringimento della libertà personale del reo.

Un discorso uguale e contrario deve, però, farsi con riguardo alle misure di prevenzione che compongono, assieme a pene e misure di sicurezza (di cui condividono la disciplina), il cosiddetto doppio binario punitivo che caratterizza il nostro ordinamento penale.

Un discorso uguale perché entrambi gli istituti sono sottoposti al rispetto del principio di legalità, inteso come capacità, tipica della sola legge, di prevedere e disciplinare, in astratto, una casistica suscettiva di accadere in concreto (articolo 199 del codice penale in combinato con l’articolo 1 del codice penale).

Un discorso contrario perché le misure di prevenzione, personali o patrimoniali che siano, non soggiacciono ai peculiari meccanismi dell’articolo 2 del codice penale, ma si applicano in conformità alla legge vigente al momento della loro esecuzione (articolo 200, comma 1 del codice penale).

La valenza, in questo frangente, del brocardo tempus regit actum, si giustifica alla luce del particolare ruolo svolto dalle misure di prevenzione nel sistema penale.

Al pari delle misure di sicurezza, infatti (ed è, altresì, per questo che i due istituti sono operativamente affini), quelle di prevenzione sono orientate a reprimere il dilagare di fenomeni criminosi per il tramite di tecniche di contenimento, a matrice inibitoria.

Si vuol dire, cioè, che l’irrogazione della misura ha il target di arginare il singolo e specifico fatto-reato prima (nel caso delle misure ante delictum) o immediatamente dopo (in quelle post) la sua commissione, attraverso mezzi di volta in volta plasmati sulle particolarità del caso concreto.

A giustificare una tale ingerenza nella sfera del destinatario di dette misure v’è una presunta - come si vedrà - pericolosità sociale del medesimo ovvero del bene di cui egli ha fruito in prospettiva della realizzazione dell’intento criminoso ovvero per la sua realizzazione (articoli 202 e 203 del codice penale).

La dicotomia pericolosità sociale del destinatario della misura - pericolosità intrinseca della res fruitasegnalerebbe, inoltre, la distinzione tra misure di prevenzione personali e misure di prevenzione patrimoniali, sebbene - come anticipato - il requisito della pericolosità non sia più discriminante a tali fini.

Ci si vuol riferire, nello specifico, alle novelle legislative che hanno riguardato la misura di prevenzione patrimoniale della confisca c.d. antimafia, di cui all’articolo 24 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011.

Il decreto citato, infatti, ha abrogato le disposizioni prima contenute nella Legge 575/1965.

Tra queste, si ricordano quelle degli articoli 2 bis e 2 ter, che individuavano i presupposti per l’applicazione della confisca antimafia e del sequestro preventivo finalizzato a detta confisca, e che adesso transitano in toto nel testo normativo del 2011.

In particolare, l’articolo 2 ter prevedeva il sequestro dei beni, dal valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, di cui il proposto disponesse a qualsiasi titolo.

In alternativa, la norma aggiungeva che poteva pervenirsi ugualmente a sequestro ove, sulla scorta di sufficienti indizi, quei beni rivelassero una matrice illecita o costituissero il reimpiego di attività criminose.

Ai sensi del medesimo articolo, il tribunale competente avrebbe, inoltre, confiscato, in via definitiva, dette res qualora l’indiziato non fosse stato in grado di giustificare la loro legittima provenienza.

Il legislatore, ancora, all’articolo 2 bis, precisava che, laddove vi fosse il pericolo che i beni di cui doveva disporsi la confisca ai sensi dell’articolo 2 ter venissero dispersi, deteriorati o in altro modo sottratti alla disponibilità dell’Autorità giudiziaria, quest’ultima ben poteva procedere al loro sequestro prima della fissazione dell’udienza camerale per l’emanazione del correlato decreto.

Il parallelismo sequestro preventivo - confisca antimafia, com’è evidente, rievoca con forza l’affine meccanismo processuale, caratterizzante le misure cautelari reali (articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale); meccanismo che, infatti, può culminare con l’irrogazione della confisca - misura di sicurezza ex articolo 240 del codice penale. Detto parallelismo giustificava, pertanto, il minor rigore probatorio richiesto per l’operatività del sequestro preventivo in funzione della successiva confisca. Come visto, il testo legislativo discorreva, infatti, di “sufficienti indizi”, e non di prove, al pari di quanto accade nei procedimenti cautelari: ivi, secondo un recente arresto pretorio, la seppur qualificata - ma pur sempre probabile - sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora sostituisce l’accertamento della responsabilità del reo al di là di ogni ragionevole dubbio; accertamento, in effetti, tipico del processo penale in senso stretto.

Il legislatore del 2011, riproponendo, come anticipato, dette fattispecie all’interno del decreto legislativo n. 159, nel Titolo II rubricato come “misure di prevenzione patrimoniali”, ha posto agli interpreti un dubbio, inerente all’effettiva natura caratterizzante la “nuova” confisca antimafia.

Ci si è chiesti, infatti, se essa sia equiparabile, quoad effectum, ad una sanzione penale o se debba - ancora - considerarsi una misura, sub specie di prevenzione, alla luce, inoltre, del nomen iuris (confisca) e dell’allocazione (misure di prevenzione patrimoniali) datole dal legislatore.

Rispondere a questa domanda in un modo anziché in un altro determina conseguenze applicative di non poco conto in virtù del differente regime normativo applicabile (articolo 2 del codice penale nel primo caso; articolo 199 e seguenti nel secondo).

Inoltre, la conclamata assenza di ogni riferimento alla pericolosità sociale del proposto o del bene di cui egli ha fruito per realizzare l’intento criminoso (“le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere […] applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto”, così l’art. 18, d.lgs. 159 del 2011), ha reso ancor più ardua l’esatta individuazione della natura della confisca in analisi. Tant’è che la giurisprudenza si è divisa in due tronconi: una parte di essa, in linea con quella EDU, l’ha considerata alla stregua di pena, altra parte - poi supportata dalle recentissime Sezioni Unite Spinelli - l’ha qualificata come misura di prevenzione.

Per il primo “troncone”, i mancati riferimenti alla pericolosità, requisito indefettibile se si voglia discorrere di misure di sicurezza/prevenzione, la conseguente afflittività patrimoniale del rimedio, la sua applicabilità anche in assenza di una sentenza di condanna e nei confronti di soggetti diversi dal proposto, ne denotavano la matrice spiccatamente retributiva e non soltanto “preventiva”.

Al contrario, il secondo filone, usufruendo del criterio c.d. topografico, caro alla giurisprudenza interna, ha invece inserito la confisca antimafia nel genus delle misure di prevenzione, come suggerisce la stessa lettera del decreto.

Per la giurisprudenza da ultimo ricordata, infatti, l’assenza del requisito della pericolosità sociale, è argomento superabile facendo leva sulla finalità “inibitoria” e repressiva ex ante della misura, volta a contenere peculiari e preoccupanti fenomeni criminosi (se così non fosse, del resto, non la si definirebbe  - gergalmente - confisca antimafia).

Inoltre, la mancanza del requisito della pericolosità può spiegarsi guardando al fatto che la DIA è legittimata a disporre il decreto di confisca solo laddove il proposto non possa giustificare l’origine lecita dei beni sequestrati e la loro sproporzione rispetto alle risorse finanziarie di cui egli è titolare.

Sebbene l’onus probandi sia, in tal modo, vistosamente invertito, spettando al destinatario della misura fornire la prova della propria estraneità ai fatti, senza limitarsi ad allegarla come accade nel rituale processo penale, la presunzione relativa dell’articolo 24 ben si allinea alla matrice cautelare dell’istituto.

Anzi, a tal proposito, le Sezioni Unite Spinelli hanno precisato che il requisito della pericolosità sociale venga comunque valutato, sebbene in via implicita, al momento della c.d. proposta. Infatti, l’ingiustificata e sproporzionata disponibilità di beni presso l’indiziato, tengono vivo in lui il proposito di delinquere, proprio come accade nel caso della confisca-misura di sicurezza. Pertanto, diviene opportuno sottrarglieli, in una tipica ottica di prevenzione ante delictum (si vuole, cioè, evitare che il proposto “commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”, così l’articolo 203, comma 1 del codice penale).

Condividere detti assunti comporta che, qualora più leggi penali si succedano tra di loro, modificando l’assetto operativo della confisca di prevenzione, l’interprete dovrà applicare la legge vigente al momento in cui debba disporsi la misura (articolo 200, comma 2 del codice penale).

Ciò anche laddove la lex posterior sia più sfavorevole per il proposto o perché comporti - ad esempio - l’elisione dei “sufficienti indizi” per adottare il decreto di sequestro preventivo oppure perché introduca nuovi presupposti, più stringenti per il reo, ai fini di detta adozione.

Con riguardo a questa ultima ipotesi, una acuta dottrina ha sottolineato come il legislatore, nell’articolo 200, comma 2 del codice penale, ha voluto intendere per “legge diversa” la mera modifica che abbia attinto un testo o una norma già esistenti, e non l’introduzione ex novo di parametri o presupposti prima non contemplati per l’applicazione di una fattispecie.

La giurisprudenza maggioritaria, però, non ha sposato questa tesi e, anzi, ha colto l’occasione per rimarcare la correttezza dei propri arresti, precisando come il legislatore non possa invero prescindere dalla vigenza di un testo normativo al momento della disposizione della misura, in disparte il favor o meno dei suoi effetti nei confronti dell’indiziato.

Nel caso specifico della confisca di prevenzione, tuttavia, il legislatore ha previsto, all’articolo 117 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, una disciplina transitoria, proprio per risolvere i casi dubbi nelle ipotesi di successione di leggi nel tempo.

Il legislatore delegato ha infatti statuito che le disposizioni del Libro I (e, dunque, anche quelle concernenti la confisca dell’articolo 24) non si applicano ai procedimenti in cui “alla data di entrata in vigore del decreto, sia stata già formulata proposta di applicazione” della confisca. In casi del genere, infatti, continuerà ad operare la disciplina previgente.

La norma transitoria sembra - parzialmente - derogare alla regola generale di cui all’articolo 200 del codice penale: in realtà, essa non fa altro che confermarla.

Infatti, statuire che la disciplina del Decreto Legislativo n. 159/2011 non si applica ai procedimenti in cui sia già stata formulata la proposta, equivale a dire che questi ultimi, essendo già in executivis, vengono regolamentati dalla legge vigente al tempo dell’esecuzione. Esegesi, quest’ultima, perfettamente sovrapponibile alla regola generale dell’articolo 200 del codice penale, nonché al brocardo tempus regit actum che la contraddistingue e che governa l’intera materia delle misure di sicurezza/misure di prevenzione.

La vera differenza, quanto allo statuto normativo applicabile, la fa l’esatta individuazione della natura del rimedio di volta in volta considerato: pena o misura.

Una lettura convenzionalmente orientata delle disposizioni normative interne (con particolare riferimento agli articoli 6 e 7 CEDU) indurrebbe gli interpreti tutti, anche alla luce della conclamata “proteiformità” della confisca, a qualificare la confisca antimafia alla stregua di una sanzione, con conseguente operatività dello statuto dell’articolo 2 del codice penale.

Tuttavia, le citate esigenze di contenimento e repressione di fenomeni delinquenziali su larga scala, ha orientato la giurisprudenza ad un “sentito” giro di vite, conducendola a qualificare “misura” ciò che, diversamente, avrebbe chiamato “pena” (basti pensare alla c.d. confisca allargata di cui all’articolo 12 sexies, lg. 359 del 1992 ovvero alla confisca per equivalente di cui all’articolo 322 ter del codice penale).

Il legislatore, attraverso l’articolo 2 del codice penale, ha redatto un vero e proprio statuto riepilogativo delle norme che disciplinano il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo e ricognitivo dei principi a tal proposito posti a fondamento della Costituzione.

La fattispecie citata consta, infatti, di sei disposizioni, ripartite in altrettanti commi.

La struttura della norma è di tipo piramidale, nel senso che ad un primo comma, che mutua in buona sostanza i contenuti dell’articolo 25, comma 2 della Costituzione, fanno seguito gli altri cinque, applicativi di quest’ultimo.

È evidente, dunque, che il fulcro attorno al quale ruota l’intera disciplina successoria è la più puntuale “riedizione” del noto brocardo costituzionale nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, già fatto proprio, in parte, dall’articolo 1 del codice penale. Si discorre di “riedizione” perché il legislatore del 1930 non si è limitato a prendere atto della norma fondamentale e a trasfonderla, immutata, nelle pieghe del codice, bensì ne ha proposto una modulazione differenziata, a seconda delle vicissitudini che possono attingere le leggi penali col passare degli anni.

Pertanto - parafrasando la locuzione latina -, all’irrinunciabile, ma generico, dogma in virtù del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto” (così l’articolo 25, comma 2 della Costituzione), il legislatore ha affiancato le diverse sfaccettature che, in concreto, quel dogma può assumere, e che l’interprete, dunque, può trovarsi a dover fronteggiare. Dette sfaccettature sono compendiabili nella cosiddetta abolitio criminis, ossia nella carenza di rilevanza penale del fatto commesso, operata da una legge successiva, in tal senso “abolitrice”, e nella cosiddetta abrogatio sine abolitio che si configura ove, a seguito di sopravvenienze normative, un fatto è punito diversamente rispetto a prima.

Le disposizioni riassuntive di quanto appena ricordato si rinvengono negli articoli 2, comma 2 e 2, comma 4 del codice penale; fattispecie che non si limitano a tratteggiare il fenomeno, proponendone  invero una risoluzione applicativa.

Con riguardo, infatti, all’eventualità dell’abolitio criminis, il codice impone all’interprete di non condannare l’imputato, qualora il processo penale sia in fieri, nel caso in cui la nuova legge non qualifichi più come reato il fatto contestatogli dal P.M.. Parimenti, il codice offre al giudice una coerente chiave risolutiva laddove la sopravvenienza normativa favorevole al reo giunga quando quest’ultimo sia già stato condannato ed il correlato processo penale sia arrivato alla sua fase terminale, quella dell’esecuzione della pena. In questo caso, l’articolo 2, comma 2 del codice penale precisa che la depenalizzazione del fatto-reato travolge la sentenza di condanna - ancorché res iudicata - ed i suoi effetti penali, determinando la scarcerazione del detenuto ove in vinculis.

La ratio della disposizione codicistica va rinvenuta in almeno due necessità che il legislatore del 1930 ha inteso soddisfare. La prima è quella della stretta aderenza del sistema penale di fatto al sistema penale normativo. Si vuol dire, cioè, che il diritto in toto (e, in particolare, il diritto penale), poiché opera dell’uomo, s’incanala nella realtà sociale, recependone esigenze, osservandone eventuali storture, apportando modifiche più appropriate ai tempi moderni.

Di conseguenza, se il Parlamento si avvede di tali bisogni, al punto di reputare opportuno un intervento normativo innovatore, l’ordinamento penale non può restarne a margine, dovendo piuttosto adeguarsi, anche - e soprattutto - per una forma di coerenza e rispetto del più alto principio di legalità; è questa, dunque, la funzione dell’articolo 2, comma 2 del codice penale.

A titolo esemplificativo, sarebbe paradossale, infatti, oltreché contra legem, se, a seguito dell’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, dettata per ragioni acceleratorie e deflattive dei contenziosi, l’ordinamento penale continuasse a considerare reo un soggetto condannato per una contravvenzione ormai inesistente. Da qui, la necessitata, prima che necessaria, “caducazione” del provvedimento di condanna e dei suoi correlati effetti; caducazione, comunque, effettiva solo ove attivati gli opportuni mezzi processuali previsti ad hoc dal legislatore (ci si vuol riferire al cosiddetto incidente di esecuzione ex articolo 673 del codice di procedura penale).

Il rispetto del principio di legalità è, inoltre, collegato alla finalità anche rieducativa della sanzione penale, ruolo riconosciutole dall’articolo 27, comma 3 della Costituzione. Infatti, non potrebbe dirsi “correttiva”, e nemmeno retributiva, una pena che continui ad esplicare i suoi effetti in un contesto sociale dove il fatto a monte di quella irrogazione non è più considerato punibile.

Quest’appunto dà la stura per individuare la seconda delle necessità sottese alla ratio dell’articolo 2, comma 2 del codice penale: quella della tutela della libertà personale, ritenuta costituzionalmente inviolabile ex articolo 13 della Carta fondamentale. Qualsivoglia, superiore, esigenza di salvaguardia di un bene comune cede dinnanzi all’ingiustificato sacrificio della libertà di movimento del singolo, che può tollerarsi, infatti, solo se ad imporlo siano disposizioni di legge dallo stringente - peraltro - ambito applicativo.

Ed è proprio il diritto inviolabile di cui all’articolo 13 della Costituzione, in uno con l’implicito divieto di retroattività della legge penale più sfavorevole, ad informare anche la ratio dell’articolo 2, comma 4 del codice penale .

L’abrogatio sine abolitio, infatti, a netta differenza dell’abolitio criminis, contempla un fenomeno successorio in senso stretto: in un dato arco di tempo, cioè, si susseguono più leggi penali, modificative l’una dell’altra, l’ultima delle quali prevede, per il reo, un trattamento sanzionatorio più favorevole. L’articolo 2, comma 4 del codice penale dispone, in tal caso, l’applicazione della legge modificativa in melius, a meno che non sia stata, però, pronunciata sentenza irrevocabile di condanna.

Il limite del giudicato qui non rappresenta uno sbarramento superabile, come accade nell’ipotesi dell’articolo 2, comma 2 del codice penale, ma si atteggia a vero e proprio spartiacque ostativo alla retroazione della norma “migliore”. Ivi, infatti, l’interprete non assiste alla fuoriuscita di una fattispecie dall’ambito del giuridicamente rilevante, peculiarità dell’abolitio criminis, bensì osserva un mero alternarsi di disposizioni normative. L’essenza del fatto punibile, cioè, permane, non venendo mutata dall’attività del legislatore, il quale si limita ad apporre mere modifiche operative su di un reato che, dunque, resta tale.

La perduranza del disvalore del fatto fa sì che, fino a quando il processo penale sia in corso, possa farsi applicazione della sopravvenienza normativa più benefica per l’imputato. Una volta, però, che il processo sia arrivato a definizione, non potranno scavalcarsi i correlati limiti, applicando retroattivamente la norma più favorevole.

Sebbene una parziale rivisitazione di questi assunti si sia avuta, in tema di successione di leggi mediate nel tempo, col celebre caso Scoppola, la mancata ultra-attività della nuova, e più benefica, norma si spiega proprio con l’immutata offensività del fatto, che legittima il restringimento della libertà personale del reo.

Un discorso uguale e contrario deve, però, farsi con riguardo alle misure di prevenzione che compongono, assieme a pene e misure di sicurezza (di cui condividono la disciplina), il cosiddetto doppio binario punitivo che caratterizza il nostro ordinamento penale.

Un discorso uguale perché entrambi gli istituti sono sottoposti al rispetto del principio di legalità, inteso come capacità, tipica della sola legge, di prevedere e disciplinare, in astratto, una casistica suscettiva di accadere in concreto (articolo 199 del codice penale in combinato con l’articolo 1 del codice penale).

Un discorso contrario perché le misure di prevenzione, personali o patrimoniali che siano, non soggiacciono ai peculiari meccanismi dell’articolo 2 del codice penale, ma si applicano in conformità alla legge vigente al momento della loro esecuzione (articolo 200, comma 1 del codice penale).

La valenza, in questo frangente, del brocardo tempus regit actum, si giustifica alla luce del particolare ruolo svolto dalle misure di prevenzione nel sistema penale.

Al pari delle misure di sicurezza, infatti (ed è, altresì, per questo che i due istituti sono operativamente affini), quelle di prevenzione sono orientate a reprimere il dilagare di fenomeni criminosi per il tramite di tecniche di contenimento, a matrice inibitoria.

Si vuol dire, cioè, che l’irrogazione della misura ha il target di arginare il singolo e specifico fatto-reato prima (nel caso delle misure ante delictum) o immediatamente dopo (in quelle post) la sua commissione, attraverso mezzi di volta in volta plasmati sulle particolarità del caso concreto.

A giustificare una tale ingerenza nella sfera del destinatario di dette misure v’è una presunta - come si vedrà - pericolosità sociale del medesimo ovvero del bene di cui egli ha fruito in prospettiva della realizzazione dell’intento criminoso ovvero per la sua realizzazione (articoli 202 e 203 del codice penale).

La dicotomia pericolosità sociale del destinatario della misura - pericolosità intrinseca della res fruitasegnalerebbe, inoltre, la distinzione tra misure di prevenzione personali e misure di prevenzione patrimoniali, sebbene - come anticipato - il requisito della pericolosità non sia più discriminante a tali fini.

Ci si vuol riferire, nello specifico, alle novelle legislative che hanno riguardato la misura di prevenzione patrimoniale della confisca c.d. antimafia, di cui all’articolo 24 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011.

Il decreto citato, infatti, ha abrogato le disposizioni prima contenute nella Legge 575/1965.

Tra queste, si ricordano quelle degli articoli 2 bis e 2 ter, che individuavano i presupposti per l’applicazione della confisca antimafia e del sequestro preventivo finalizzato a detta confisca, e che adesso transitano in toto nel testo normativo del 2011.

In particolare, l’articolo 2 ter prevedeva il sequestro dei beni, dal valore sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta, di cui il proposto disponesse a qualsiasi titolo.

In alternativa, la norma aggiungeva che poteva pervenirsi ugualmente a sequestro ove, sulla scorta di sufficienti indizi, quei beni rivelassero una matrice illecita o costituissero il reimpiego di attività criminose.

Ai sensi del medesimo articolo, il tribunale competente avrebbe, inoltre, confiscato, in via definitiva, dette res qualora l’indiziato non fosse stato in grado di giustificare la loro legittima provenienza.

Il legislatore, ancora, all’articolo 2 bis, precisava che, laddove vi fosse il pericolo che i beni di cui doveva disporsi la confisca ai sensi dell’articolo 2 ter venissero dispersi, deteriorati o in altro modo sottratti alla disponibilità dell’Autorità giudiziaria, quest’ultima ben poteva procedere al loro sequestro prima della fissazione dell’udienza camerale per l’emanazione del correlato decreto.

Il parallelismo sequestro preventivo - confisca antimafia, com’è evidente, rievoca con forza l’affine meccanismo processuale, caratterizzante le misure cautelari reali (articoli 321 e seguenti del codice di procedura penale); meccanismo che, infatti, può culminare con l’irrogazione della confisca - misura di sicurezza ex articolo 240 del codice penale. Detto parallelismo giustificava, pertanto, il minor rigore probatorio richiesto per l’operatività del sequestro preventivo in funzione della successiva confisca. Come visto, il testo legislativo discorreva, infatti, di “sufficienti indizi”, e non di prove, al pari di quanto accade nei procedimenti cautelari: ivi, secondo un recente arresto pretorio, la seppur qualificata - ma pur sempre probabile - sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora sostituisce l’accertamento della responsabilità del reo al di là di ogni ragionevole dubbio; accertamento, in effetti, tipico del processo penale in senso stretto.

Il legislatore del 2011, riproponendo, come anticipato, dette fattispecie all’interno del decreto legislativo n. 159, nel Titolo II rubricato come “misure di prevenzione patrimoniali”, ha posto agli interpreti un dubbio, inerente all’effettiva natura caratterizzante la “nuova” confisca antimafia.

Ci si è chiesti, infatti, se essa sia equiparabile, quoad effectum, ad una sanzione penale o se debba - ancora - considerarsi una misura, sub specie di prevenzione, alla luce, inoltre, del nomen iuris (confisca) e dell’allocazione (misure di prevenzione patrimoniali) datole dal legislatore.

Rispondere a questa domanda in un modo anziché in un altro determina conseguenze applicative di non poco conto in virtù del differente regime normativo applicabile (articolo 2 del codice penale nel primo caso; articolo 199 e seguenti nel secondo).

Inoltre, la conclamata assenza di ogni riferimento alla pericolosità sociale del proposto o del bene di cui egli ha fruito per realizzare l’intento criminoso (“le misure di prevenzione personali e patrimoniali possono essere […] applicate indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto”, così l’art. 18, d.lgs. 159 del 2011), ha reso ancor più ardua l’esatta individuazione della natura della confisca in analisi. Tant’è che la giurisprudenza si è divisa in due tronconi: una parte di essa, in linea con quella EDU, l’ha considerata alla stregua di pena, altra parte - poi supportata dalle recentissime Sezioni Unite Spinelli - l’ha qualificata come misura di prevenzione.

Per il primo “troncone”, i mancati riferimenti alla pericolosità, requisito indefettibile se si voglia discorrere di misure di sicurezza/prevenzione, la conseguente afflittività patrimoniale del rimedio, la sua applicabilità anche in assenza di una sentenza di condanna e nei confronti di soggetti diversi dal proposto, ne denotavano la matrice spiccatamente retributiva e non soltanto “preventiva”.

Al contrario, il secondo filone, usufruendo del criterio c.d. topografico, caro alla giurisprudenza interna, ha invece inserito la confisca antimafia nel genus delle misure di prevenzione, come suggerisce la stessa lettera del decreto.

Per la giurisprudenza da ultimo ricordata, infatti, l’assenza del requisito della pericolosità sociale, è argomento superabile facendo leva sulla finalità “inibitoria” e repressiva ex ante della misura, volta a contenere peculiari e preoccupanti fenomeni criminosi (se così non fosse, del resto, non la si definirebbe  - gergalmente - confisca antimafia).

Inoltre, la mancanza del requisito della pericolosità può spiegarsi guardando al fatto che la DIA è legittimata a disporre il decreto di confisca solo laddove il proposto non possa giustificare l’origine lecita dei beni sequestrati e la loro sproporzione rispetto alle risorse finanziarie di cui egli è titolare.

Sebbene l’onus probandi sia, in tal modo, vistosamente invertito, spettando al destinatario della misura fornire la prova della propria estraneità ai fatti, senza limitarsi ad allegarla come accade nel rituale processo penale, la presunzione relativa dell’articolo 24 ben si allinea alla matrice cautelare dell’istituto.

Anzi, a tal proposito, le Sezioni Unite Spinelli hanno precisato che il requisito della pericolosità sociale venga comunque valutato, sebbene in via implicita, al momento della c.d. proposta. Infatti, l’ingiustificata e sproporzionata disponibilità di beni presso l’indiziato, tengono vivo in lui il proposito di delinquere, proprio come accade nel caso della confisca-misura di sicurezza. Pertanto, diviene opportuno sottrarglieli, in una tipica ottica di prevenzione ante delictum (si vuole, cioè, evitare che il proposto “commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”, così l’articolo 203, comma 1 del codice penale).

Condividere detti assunti comporta che, qualora più leggi penali si succedano tra di loro, modificando l’assetto operativo della confisca di prevenzione, l’interprete dovrà applicare la legge vigente al momento in cui debba disporsi la misura (articolo 200, comma 2 del codice penale).

Ciò anche laddove la lex posterior sia più sfavorevole per il proposto o perché comporti - ad esempio - l’elisione dei “sufficienti indizi” per adottare il decreto di sequestro preventivo oppure perché introduca nuovi presupposti, più stringenti per il reo, ai fini di detta adozione.

Con riguardo a questa ultima ipotesi, una acuta dottrina ha sottolineato come il legislatore, nell’articolo 200, comma 2 del codice penale, ha voluto intendere per “legge diversa” la mera modifica che abbia attinto un testo o una norma già esistenti, e non l’introduzione ex novo di parametri o presupposti prima non contemplati per l’applicazione di una fattispecie.

La giurisprudenza maggioritaria, però, non ha sposato questa tesi e, anzi, ha colto l’occasione per rimarcare la correttezza dei propri arresti, precisando come il legislatore non possa invero prescindere dalla vigenza di un testo normativo al momento della disposizione della misura, in disparte il favor o meno dei suoi effetti nei confronti dell’indiziato.

Nel caso specifico della confisca di prevenzione, tuttavia, il legislatore ha previsto, all’articolo 117 del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, una disciplina transitoria, proprio per risolvere i casi dubbi nelle ipotesi di successione di leggi nel tempo.

Il legislatore delegato ha infatti statuito che le disposizioni del Libro I (e, dunque, anche quelle concernenti la confisca dell’articolo 24) non si applicano ai procedimenti in cui “alla data di entrata in vigore del decreto, sia stata già formulata proposta di applicazione” della confisca. In casi del genere, infatti, continuerà ad operare la disciplina previgente.

La norma transitoria sembra - parzialmente - derogare alla regola generale di cui all’articolo 200 del codice penale: in realtà, essa non fa altro che confermarla.

Infatti, statuire che la disciplina del Decreto Legislativo n. 159/2011 non si applica ai procedimenti in cui sia già stata formulata la proposta, equivale a dire che questi ultimi, essendo già in executivis, vengono regolamentati dalla legge vigente al tempo dell’esecuzione. Esegesi, quest’ultima, perfettamente sovrapponibile alla regola generale dell’articolo 200 del codice penale, nonché al brocardo tempus regit actum che la contraddistingue e che governa l’intera materia delle misure di sicurezza/misure di prevenzione.

La vera differenza, quanto allo statuto normativo applicabile, la fa l’esatta individuazione della natura del rimedio di volta in volta considerato: pena o misura.

Una lettura convenzionalmente orientata delle disposizioni normative interne (con particolare riferimento agli articoli 6 e 7 CEDU) indurrebbe gli interpreti tutti, anche alla luce della conclamata “proteiformità” della confisca, a qualificare la confisca antimafia alla stregua di una sanzione, con conseguente operatività dello statuto dell’articolo 2 del codice penale.

Tuttavia, le citate esigenze di contenimento e repressione di fenomeni delinquenziali su larga scala, ha orientato la giurisprudenza ad un “sentito” giro di vite, conducendola a qualificare “misura” ciò che, diversamente, avrebbe chiamato “pena” (basti pensare alla c.d. confisca allargata di cui all’articolo 12 sexies, lg. 359 del 1992 ovvero alla confisca per equivalente di cui all’articolo 322 ter del codice penale).