La crisi profonda del calcio nel sud-Italia
C’era una volta il calcio nel Sud-Italia. Se la nostra indagine fosse una favola, comincerebbe più o meno così. Ma questa, lungi dall’essere una fiaba, ha piuttosto le sembianze di un incubo senza fine. Tra l’inizio degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, la massima serie del nostro calcio poteva contare diverse squadre da Roma in giù: l’Ascoli nelle Marche, il Napoli in Campania e il Cagliari in Sardegna; il Bari, il Lecce e il Foggia in Puglia; il Catania e il Palermo in Sicilia.
Impossibile dimenticarsi dell’Avellino – specie per quello che sta accadendo oggi – che dal 1978 al 1988 ha militato senza interruzioni in Serie A. Diverso è il caso della Reggina, che conta il suo esordio nella massima serie ad inizio anni Duemila, e quello del Benevento, più vicino a noi (2017). In altre parole, possiamo definire gli anni Ottanta come l’epoca d’oro del calcio nel Mezzogiorno italiano.
Cosa è accaduto prima e dopo quest’arco di tempo? Poco o nulla. In Italia, è come se tra la passione dei tifosi e il palmarès dei club vigesse un rapporto inversamente proporzionale. Più il campanilismo è radicato in una regione, minori sono le possibilità che le squadre di quella regione ne beneficino a livello sportivo. Che razza di paradosso è mai questo?
Ma il paradosso è tale solo se continuiamo a vedere il calcio come se fossimo fermi agli anni Ottanta – o, al limite, all’inizio degli anni Novanta –, perdendo così di vista il grande cambiamento che la tecnologia ha portato nel mondo del pallone. Non stiamo parlando del VAR ma di un fenomeno ben più profondo, che per esigenze di testo riassumeremo qui nella formula “pubblicizzazione mediatica del calcio”.
Pensare al campanilismo nel calcio oggi è possibile solo a patto di ridimensionare (e di molto) le proprie pretese sportive.
Se per guardare una partita, fino a metà degli anni Novanta, c’era bisogno di recarsi fisicamente sul luogo dell’incontro – scilicet andare allo Stadio –, dall’avvento delle televisioni questo fatto – che consentiva a Pasolini di salutare il calcio come l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo – non è più da dare per scontato. La possibilità di vedere una partita di calcio in televisione ha spostato il logos calcistico dalle città alle nazioni. Internet, dalla diffusione dei primi siti specializzati alla nascita di You Tube – fino a giungere ai recentissimi esiti di Twitter, Instagram e Facebook – ha completato il quadro di “diffusione” globale del fenomeno. Il processo di accelerazione economico cui il calcio è stato sottoposto dalla fine degli anni Novanta ad oggi è così imponente che per delinearne anche solo i contorni servirebbero dei libri.
Il precedente paragrafo aveva solo lo scopo, dunque, di sottolineare l’evoluzione “pubblica” del calcio. Il passaggio dal football al modern football è dunque lo specchio del rapporto inverso che si viene a creare tra pubblico fruitore del “prodotto” calcio – i tifosi e gli appassionati in genere, ma anche gli stessi specialisti – e privato possessore del “prodotto” medesimo – non solo le reti televisive, gli sponsor, ma in primo luogo i presidenti delle società.
Da quest’ultimo punto di vista, pensare al campanilismo nel calcio di oggi è possibile solo a patto di ridimensionare (e di molto) le proprie pretese sportive – il caso dello United of Manchester è, in questo senso, un eccellente esempio di quest’utopia. Il fenomeno noto come azionariato popolare è senz’altro un’alternativa intrigante, ma non per un club che abbia ambizioni internazionali. Non esiste oggi una grande società calcistica che non sia quotata in borsa; questo è un fatto sul quale occorre riflettere. Fermiamoci qui, e torniamo al nostro problema principale.
La grande epoca del calcio nel Sud-Italia, non a caso, è coincisa con l’ascesa più o meno fortunata dei Presidentissimi.
È noto come più che di vere e proprie presidenze – come accade nella maggior parte delle squadre centro-settentrionali – sarebbe più opportuno parlare, nel caso delle squadre del Mezzogiorno, di regime paternalistico. È il “Patron” la figura cardine; attorno a lui ruota ogni cosa, dal rapporto coi tifosi a quello coi giocatori. La grande epoca del calcio nel Sud-Italia, non a caso, è coincisa con l’ascesa più o meno fortunata dei Presidentissimi. Da questo punto di vista, Claudio Lotito, non a caso Patron di due squadre del centro-sud come Lazio e Salernitana, è l’ultimo rappresentante di questo fenomeno. Tutto l’opposto di un Pallotta o un Suning, tanto per intenderci.
Perché i grandi imprenditori non cercano fortuna nel (profondo) Sud? Quasi non occorre rispondere. I problemi economici e sociali di questa parte d’Italia si riversano, come è ovvio, anche sul lato sportivo. Mancanza di infrastrutture, magna-magna nella gestione delle grandi – e ancor più piccole – realtà calcistiche, ombre sui controlli e sulle transizioni finanziarie, fallimenti continui – Avellino e Palermo gli ultimi di una lunga serie.
D’altra parte, quello degli anni Ottanta è un periodo eccezionale – nel senso dell’eccezione che conferma la regola. È in questo periodo che il numero delle squadre meridionali in Serie A è arrivato solo una volta a toccare il 31%; è la stagione 1979/80, con Avellino, Cagliari, Catanzaro, Napoli e Pescara (in un campionato, peraltro, ancora a 16 squadre). Mediamente, la “quota meridionale” si è attestata attorno al 16,6%, e spesso (in ben 23 campionati) è stata di circa il 10%: solo una squadra su 10, insomma, veniva dal Sud (fonte Limes).
Dal 1929 (primo campionato a girone unico) ad oggi, solo 13 squadre meridionali sono riuscite a realizzare il sogno di affacciarsi sul palcoscenico più prestigioso del nostro calcio. Il club con più presenze è il Napoli, seguito da Cagliari, Bari e Palermo. Sotto la soglia dei venti campionati in A ci sono Catania, Lecce, Foggia, Avellino, Reggina, Catanzaro, Pescara, Messina e Salernitana.
La tendenza, migliorata dal 2007 (anno di ritorno in A del Napoli) ad oggi, ha subìto quest’anno una nuova – e triste – inversione di rotta: Cagliari, Napoli e Lecce; ecco le squadre del Sud presenti in Serie A. Tre su venti, poco. Troppo poco per il nostro calcio, che ha bisogno delle squadre del Meridione, fucine di talenti e di tifosi (da stadio; si pensi al solo Palermo che quest’anno, il primo dopo il fallimento, conta 10.000 abbonati).
A proposito di talenti e “magna-magna”. Sapete come funziona il regolamento sugli Under in Lega Pro (Serie C)? Citiamo per intero il paragrafo 4.1 (fonte TMW):
Tradotto: i giovani diventano vere e proprie miniere d’oro dei club di Lega Pro (dove le squadre del Sud abbondano; 23 sulle 59 totali, lista completa qui) che sfruttano l’incentivo giovani – fornitogli dalla Lega Calcio – per rientrare economicamente con gli stipendi dell’intera rosa. Il più delle volte, come è ovvio, i giovani provengono (in prestito) dalle medie-grandi società. Risultato: tutti ci guadagnano in soldi, fregandosene altamente dei risultati sportivi. O, quantomeno, lasciando l’aspetto tecnico-calcistico in secondo piano.
La degenza del calcio nel Sud-Italia è insieme un problema nuovo e antico. Nuovo, perché il calcio moderno e i suoi intricati meccanismi mediatici ed economici svuotano la passione a vantaggio del guadagno – o, che è lo stesso, la tradizione a vantaggio della globalizzazione. Antico perché il Sud, più che uscire da questa impasse che la denota originariamente, deve tornare a convivere in essa. Nella speranza che l’Italia intera, e non sporadicamente, si interessi del problema.