La nozione di comportamento e la responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione

Il problema della giurisdizione, della pregiudizialità, dell’applicabilità dell’art. 23-bis della l. n. 1034/1971 nonché quello dei danni ristorabili e della loro consistenza
Il dibattito attorno alla giusta perimetrazione del concetto di comportamento viene alimentato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale intervenuta a delimitare l’ambito delle materie “particolari” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

In particolare, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34 del D. Lgs. n. 80 del 1998 nella parte in cui si riferisce ai “comportamenti tenuti dalla pubblica amministrazione in materia di urbanistica e edilizia” conduce ad interrogarsi sulla natura di determinate attività dell’amministrazione non riconducibili ad un determinato provvedimento.

Si pensi alla tematica del silenzio, alle c.d. occupazioni ed in particolare alla condotta scorretta della stazione appaltante nella gestione della procedura di evidenza pubblica.

La Corte Costituzionale mette in evidenza come soltanto l’inerenza all’esercizio del potere pubblico dei comportamenti radica la giurisdizione del giudica amministrativo.

Tale indirizzo viene confermato con la sentenza n. 191 del 2006 della stessa Consulta, che distingue nettamente i comportamenti meri, come tali giustiziabili davanti al giudice ordinario, e i comportamenti c.d. amministrativi, tramite i quali la pubblica amministrazione, pur esercitando illegittimamente il potere conferitole, tiene condotte che non sfociano nell’adozione di un provvedimento.

Di conseguenza non è il “non atto”, ma l’attività non autoritativa dell’amministrazione a determinare la giurisdizione del giudice ordinario.

Alla luce di tali coordinate interpretative occorre analizzare specificamente il comportamento di ingiustificato recesso dalle trattative della stazione appaltante, data la sopravvenuta impossibilità dei fondi necessari a pagare l’aggiudicatario.

L’ipotesi appena descritta ci permette di esaminare la problematica dell’ammissibilità di una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione.

Si può sottolineare come la giurisprudenza sia passata da una posizione di netta chiusura riguardo alla sussistenza della culpa in contrahendo, fondata sulla presunzione di correttezza dei comportamenti tenuti dai soggetti pubblici e sull’inammissibilità di un sindacato del giudice ordinario sulle scelte discrezionali della pubblica amministrazione, all’affermazione contraria che estende i principi di correttezza e di buona fede nel corso delle trattative contrattuali alla stazione appaltante.

Tale apertura, però, viene ridimensionata dalla limitazione applicativa della responsabilità precontrattuale ai casi di trattativa privata in quanto si ritiene che solo in tale modalità di selezione del contraente l’autorità amministrativa agisca in posizione del tutto paritetica al privato.

Successivamente la Cassazione riconosce la culpa in contrahendo delle stazioni appaltanti anche in presenza di una pubblica gara, ma opera una distinzione fra le condotte poste in essere anteriormente o successivamente all’aggiudicazione.

Invero la responsabilità precontrattuale si configurerebbe soltanto per le seconde perché l’amministrazione ha già scelto il contraente e sancito, quindi, il delinearsi di trattative tra soggetti qualificabili come “parti”.

Invece per quanto riguarda le condotte poste in essere anteriormente all’aggiudicazione, il privato sarebbe titolare esclusivamente di un mero interesse legittimo al corretto esercizio del potere di scelta proprio della pubblica amministrazione.

Questa conclusione, però, porterebbe alla sostanziale irresponsabilità delle stazioni appaltanti per il loro operato nel corso delle procedure di gara.

Per evitare tale inaccettabile conseguenza, è ormai opinione prevalente che non può esistere una procedura di evidenza pubblica basata su due procedimenti paralleli, quello di formazione della volontà, disciplinato dal diritto privato, e quello di natura amministrativa, in cui si determinano soltanto posizioni di interesse legittimo.

Il privato, quindi, è titolare sia del tradizionale interesse legittimo al corretto espletamento della procedura di gara sia di un vero e proprio diritto soggettivo al rispetto del principio di buona fede nelle trattative contrattuali.

Prima dell’entrata in vigore dell’articolo 6 della legge n. 205 del 2000 si riteneva che sussistesse la giurisdizione del giudice ordinario in relazione a tali condotte della stazione appaltante in quanto vi era la violazione delle norme di relazione di buona fede contenuta nell’articolo 1337 c.c., in disparte la natura peculiare del rapporto tra amministrazione ed impresa instauratasi con le trattative.

Con l’intervento della riforma appena citata, invece, si attribuisce la giurisdizione in tema di responsabilità precontrattuale al giudice amministrativo.

Innanzitutto si afferma che la fase negoziale è propria del momento successivo all’approvazione del contratto, come disciplinato dalle norme sulla contabilità pubblica; ciò implica che l’arco temporale successivo all’aggiudicazione presuppone la gestione della procedura da parte della pubblica amministrazione su parametri tendenzialmente autoritativi.

La tutela dell’obiettivo affidamento del privato va, quindi, bilanciata con il perseguimento dell’interesse pubblico da parte dell’amministrazione.

Ne consegue che il diniego del contratto o l’annullamento della gara sono atti interni alla procedura di affidamento, che radicano la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Tale conclusione rispetta la ratio sottesa all’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004 dato che la controversia in esame configura una situazione di interferenza tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.

La pretesa risarcitoria avanzata dall’impresa aggiudicataria è legata ai comportamenti scorretti appartenenti alla fase pubblicistica del rapporto.

Nel caso di specie l’esercizio, seppur illegittimo, del potere si accompagna a tutta la fase dell’affidamento nella quale rientrano i momenti successivi all’aggiudicazione ed antecedenti la stipulazione del contratto.

Quindi nonostante la legittimità della successiva revoca da parte dell’amministrazione in funzione di autotutela, l’impresa vuole essere ristorata dei danni non eziologicamente riconducibili ad un’attività provvedimentale della stazione appaltante: la rimozione dell’aggiudicazione se vale a porre al riparo l’interesse pubblico non fa venir meno il fatto incancellabile degli affidamenti suscitati dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi.

Ciò ci permette di rispondere negativamente al quesito riguardante la rilevanza della regola della pregiudizialità, che non trova applicazione nel caso di un comportamento c.d. amministrativo, in particolare quello tenuto dalla stazione appaltante che omette di informare tempestivamente i partecipanti alla gara della sostanziale inutilità della prosecuzione della stessa data l’emersa indisponibilità dei fondi necessari a rispettare gli impegni contrattuali.

Ne deriva l’ammissibilità della proposizione in via autonoma della domanda risarcitoria, che prescinde del tutto dalla preventiva caducazione di atti amministrativi.

Ci si chiede se a questa domanda sia applicabile il rito abbreviato previsto dall’articolo 23-bis della legge n. 1034 del 1971, che ha ad oggetto, in particolare, i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, di affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, servizi pubblici e forniture.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato valorizza, in primo luogo, il dato testuale della disposizione che circoscrive il rito differenziato a giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione di provvedimenti e non quelli originati da autonome domande risarcitorie.

Inoltre la ratio dell’articolo 23-bis risiede nella valorizzazione di peculiari interessi pubblici, quale è, ad esempio, il nocumento per la collettività derivante dal ritardo nella realizzazione di opere pubbliche, che, invece, non sussistono nell’ipotesi in esame.

Stabilita la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante, ne consegue la limitazione del risarcimento del danno al c.d. interesse negativo.

L’ammontare del danno va determinato considerando che fra le parti non è stato stipulato un contratto e non può essere dovuto un risarcimento equivalente a quello conseguente all’inadempimento contrattuale, e cioè il c.d. interesse positivo; quindi non sarà ristorabile il mancato utile derivato dall’esecuzione della specifica gara d’appalto.

L’impresa aggiudicataria potrà chiedere il ristoro delle perdite derivate dall’aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perse.

Infine, parte della giurisprudenza, risolvendo il problema della natura giuridica della responsabilità precontrattuale, stabilisce che la violazione dei doveri di cui agli articoli 1337 e 1338 c.c. dà luogo a responsabilità extracontrattuale: di conseguenza il debito risarcitorio è qualificabile in termini di debito di valore e non di valuta, come tale soggetto a rivalutazione monetaria e ad interessi legali.

Il dibattito attorno alla giusta perimetrazione del concetto di comportamento viene alimentato dalla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale intervenuta a delimitare l’ambito delle materie “particolari” assoggettabili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

In particolare, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34 del D. Lgs. n. 80 del 1998 nella parte in cui si riferisce ai “comportamenti tenuti dalla pubblica amministrazione in materia di urbanistica e edilizia” conduce ad interrogarsi sulla natura di determinate attività dell’amministrazione non riconducibili ad un determinato provvedimento.

Si pensi alla tematica del silenzio, alle c.d. occupazioni ed in particolare alla condotta scorretta della stazione appaltante nella gestione della procedura di evidenza pubblica.

La Corte Costituzionale mette in evidenza come soltanto l’inerenza all’esercizio del potere pubblico dei comportamenti radica la giurisdizione del giudica amministrativo.

Tale indirizzo viene confermato con la sentenza n. 191 del 2006 della stessa Consulta, che distingue nettamente i comportamenti meri, come tali giustiziabili davanti al giudice ordinario, e i comportamenti c.d. amministrativi, tramite i quali la pubblica amministrazione, pur esercitando illegittimamente il potere conferitole, tiene condotte che non sfociano nell’adozione di un provvedimento.

Di conseguenza non è il “non atto”, ma l’attività non autoritativa dell’amministrazione a determinare la giurisdizione del giudice ordinario.

Alla luce di tali coordinate interpretative occorre analizzare specificamente il comportamento di ingiustificato recesso dalle trattative della stazione appaltante, data la sopravvenuta impossibilità dei fondi necessari a pagare l’aggiudicatario.

L’ipotesi appena descritta ci permette di esaminare la problematica dell’ammissibilità di una responsabilità precontrattuale della pubblica amministrazione.

Si può sottolineare come la giurisprudenza sia passata da una posizione di netta chiusura riguardo alla sussistenza della culpa in contrahendo, fondata sulla presunzione di correttezza dei comportamenti tenuti dai soggetti pubblici e sull’inammissibilità di un sindacato del giudice ordinario sulle scelte discrezionali della pubblica amministrazione, all’affermazione contraria che estende i principi di correttezza e di buona fede nel corso delle trattative contrattuali alla stazione appaltante.

Tale apertura, però, viene ridimensionata dalla limitazione applicativa della responsabilità precontrattuale ai casi di trattativa privata in quanto si ritiene che solo in tale modalità di selezione del contraente l’autorità amministrativa agisca in posizione del tutto paritetica al privato.

Successivamente la Cassazione riconosce la culpa in contrahendo delle stazioni appaltanti anche in presenza di una pubblica gara, ma opera una distinzione fra le condotte poste in essere anteriormente o successivamente all’aggiudicazione.

Invero la responsabilità precontrattuale si configurerebbe soltanto per le seconde perché l’amministrazione ha già scelto il contraente e sancito, quindi, il delinearsi di trattative tra soggetti qualificabili come “parti”.

Invece per quanto riguarda le condotte poste in essere anteriormente all’aggiudicazione, il privato sarebbe titolare esclusivamente di un mero interesse legittimo al corretto esercizio del potere di scelta proprio della pubblica amministrazione.

Questa conclusione, però, porterebbe alla sostanziale irresponsabilità delle stazioni appaltanti per il loro operato nel corso delle procedure di gara.

Per evitare tale inaccettabile conseguenza, è ormai opinione prevalente che non può esistere una procedura di evidenza pubblica basata su due procedimenti paralleli, quello di formazione della volontà, disciplinato dal diritto privato, e quello di natura amministrativa, in cui si determinano soltanto posizioni di interesse legittimo.

Il privato, quindi, è titolare sia del tradizionale interesse legittimo al corretto espletamento della procedura di gara sia di un vero e proprio diritto soggettivo al rispetto del principio di buona fede nelle trattative contrattuali.

Prima dell’entrata in vigore dell’articolo 6 della legge n. 205 del 2000 si riteneva che sussistesse la giurisdizione del giudice ordinario in relazione a tali condotte della stazione appaltante in quanto vi era la violazione delle norme di relazione di buona fede contenuta nell’articolo 1337 c.c., in disparte la natura peculiare del rapporto tra amministrazione ed impresa instauratasi con le trattative.

Con l’intervento della riforma appena citata, invece, si attribuisce la giurisdizione in tema di responsabilità precontrattuale al giudice amministrativo.

Innanzitutto si afferma che la fase negoziale è propria del momento successivo all’approvazione del contratto, come disciplinato dalle norme sulla contabilità pubblica; ciò implica che l’arco temporale successivo all’aggiudicazione presuppone la gestione della procedura da parte della pubblica amministrazione su parametri tendenzialmente autoritativi.

La tutela dell’obiettivo affidamento del privato va, quindi, bilanciata con il perseguimento dell’interesse pubblico da parte dell’amministrazione.

Ne consegue che il diniego del contratto o l’annullamento della gara sono atti interni alla procedura di affidamento, che radicano la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Tale conclusione rispetta la ratio sottesa all’intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004 dato che la controversia in esame configura una situazione di interferenza tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.

La pretesa risarcitoria avanzata dall’impresa aggiudicataria è legata ai comportamenti scorretti appartenenti alla fase pubblicistica del rapporto.

Nel caso di specie l’esercizio, seppur illegittimo, del potere si accompagna a tutta la fase dell’affidamento nella quale rientrano i momenti successivi all’aggiudicazione ed antecedenti la stipulazione del contratto.

Quindi nonostante la legittimità della successiva revoca da parte dell’amministrazione in funzione di autotutela, l’impresa vuole essere ristorata dei danni non eziologicamente riconducibili ad un’attività provvedimentale della stazione appaltante: la rimozione dell’aggiudicazione se vale a porre al riparo l’interesse pubblico non fa venir meno il fatto incancellabile degli affidamenti suscitati dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi rimossi.

Ciò ci permette di rispondere negativamente al quesito riguardante la rilevanza della regola della pregiudizialità, che non trova applicazione nel caso di un comportamento c.d. amministrativo, in particolare quello tenuto dalla stazione appaltante che omette di informare tempestivamente i partecipanti alla gara della sostanziale inutilità della prosecuzione della stessa data l’emersa indisponibilità dei fondi necessari a rispettare gli impegni contrattuali.

Ne deriva l’ammissibilità della proposizione in via autonoma della domanda risarcitoria, che prescinde del tutto dalla preventiva caducazione di atti amministrativi.

Ci si chiede se a questa domanda sia applicabile il rito abbreviato previsto dall’articolo 23-bis della legge n. 1034 del 1971, che ha ad oggetto, in particolare, i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, di affidamento ed esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità, servizi pubblici e forniture.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato valorizza, in primo luogo, il dato testuale della disposizione che circoscrive il rito differenziato a giudizi aventi ad oggetto l’impugnazione di provvedimenti e non quelli originati da autonome domande risarcitorie.

Inoltre la ratio dell’articolo 23-bis risiede nella valorizzazione di peculiari interessi pubblici, quale è, ad esempio, il nocumento per la collettività derivante dal ritardo nella realizzazione di opere pubbliche, che, invece, non sussistono nell’ipotesi in esame.

Stabilita la responsabilità precontrattuale della stazione appaltante, ne consegue la limitazione del risarcimento del danno al c.d. interesse negativo.

L’ammontare del danno va determinato considerando che fra le parti non è stato stipulato un contratto e non può essere dovuto un risarcimento equivalente a quello conseguente all’inadempimento contrattuale, e cioè il c.d. interesse positivo; quindi non sarà ristorabile il mancato utile derivato dall’esecuzione della specifica gara d’appalto.

L’impresa aggiudicataria potrà chiedere il ristoro delle perdite derivate dall’aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perse.

Infine, parte della giurisprudenza, risolvendo il problema della natura giuridica della responsabilità precontrattuale, stabilisce che la violazione dei doveri di cui agli articoli 1337 e 1338 c.c. dà luogo a responsabilità extracontrattuale: di conseguenza il debito risarcitorio è qualificabile in termini di debito di valore e non di valuta, come tale soggetto a rivalutazione monetaria e ad interessi legali.