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La responsabilità civile e penale del gestore di impianti sportivi

La società ha subito profonde mutazioni e anche lo sport si è adattato ad un processo di modernizzazione indotto, oltre che dall’avvento dei media e dalla crescente rilevanza economica, anche dalle svariate motivazioni poste alla base di una sempre maggiore diffusione della pratica sportiva, quali, ad esempio, l’attenzione per la salute e la cura del corpo, la ricerca del benessere, le esigenze di recupero terapeutico, la maggiore disponibilità di tempo libero, fattori, questi, ormai legati ad una domanda di sport sempre più articolata e non più “spartana”, per così dire.

In tale contesto, dunque, la gestione dell’impianto sportivo non potrà che essere attuata e sviluppata secondo canoni di massima efficienza e funzionalità, e non solo avuto riguardo ai profili economico-finanziari.

Infatti, l’elevata percezione della qualità del servizio da parte del cliente moderno non può non tener conto della garanzia di sicurezza offerta da ciascun gestore il quale, anche sotto tale specifico profilo, dovrà avere un approccio operativo assolutamente customer oriented.

D’altra parte, questi, intenderà senza dubbio evitare di incorrere in forme di responsabilità (in sede civile e/o penale) a causa di danni subiti dai soggetti che, per i motivi più diversi, fruiscano degli impianti, ovvero gli atleti, i dipendenti, i collaboratori, gli utenti in generale, siano essi frequentatori o spettatori.

La responsabilità del gestore, quale soggetto esercente, di fatto, specifici poteri ad hoc, sorge, infatti, da un lato, quando il nocumento discenda da un difetto di funzionalità o di manutenzione dell’impianto, dall’altro, quando sia causato dalla mancata adozione di particolari cautele all’atto di svolgimento dell’attività sportiva (o competizione).

Per la verità, il Legislatore, soprattutto a partire dall’emanazione del D.M. 18/03/1996 (Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi, modificativo del precedente D.M. 25/08/1989, nonché succesivamente integrato dal D.M. 06/06/2005), relativo alla gestione degli impianti sportivi, nuovi e già in uso, nei quali abbiano luogo manifestazioni e/o attività sportive in presenza di un numero di spettatori superiore a 100, ha cercato di fornire, in via graduale, ulteriori e sempre più precise indicazioni sulle responsabilità e sui comportamenti che devono essere tenuti ai fini di una corretta attività gestionale, anche alla luce delle direttive europee in materia di sicurezza degli impianti utilizzati a fini sportivi.

Purtroppo, però, in molti casi, le varie leggi, circolari, ecc. succedutesi nel tempo, hanno contribuito a generare, piuttosto, una certa confusione, soprattutto con riferimento alle realtà di più modeste dimensioni e meno organizzate.

Confusione e dubbi che, invece, non possono affatto sussistere in ordine alla portata e all’applicazione delle norme cogenti mediante cui il nostro ordinamento disciplina, puntualmente, i vari profili di responsabilità civile e penale legati al comportamento umano e che, in questa sede, cercheremo di individuare con particolare riferimento alla tipica attività svolta dal gestore di impianti sportivi, anche nella veste di organizzatore dell’evento.

Lo scopo, se possibile, è quello di fornire una “visione d’insieme” in tema specifico, anche mediante il richiamo a fattispecie e precedenti giurisprudenziali attraverso cui osservare l’evoluzione delle diverse interpretazioni offerte in argomento dagli organi giudicanti intervenuti a pronunciarsi, non senza tener conto delle caratteristiche funzionali e della natura dei vari impianti deputati a ospitare lo svolgimento delle singole discipline sportive.

In particolare, per quanto concerne la responsabilità del gestore dell’impianto sportivo, che sia anche organizzatore dell’evento, prenderemo in considerazione l’ambito calcistico, e, nello specifico, le società sportive che, di regola, gestiscono gli impianti di proprietà pubblica in base a rapporti di natura concessoria e sono riconducibili, esse stesse, al soggetto organizzatore generalmente inteso.

Preliminarmente, ritengo sia opportuno inquadrare, pur in modo sintetico, la figura del gestore di impianti sportivi, nella sua accezione generale.

In linea di principio, si può assumere che questi è il soggetto responsabile della sicurezza e dell’incolumità di chi acceda, per le più svariate ragioni, alle diverse strutture.

In tal senso, quindi, il gestore é titolare di una posizione di garanzia che, però, non è senza limiti; egli, infatti, potrà essere chiamato a rispondere solo degli eventi dannosi prevedibili ed evitabili, i quali, proprio in quanto prevedibili ed evitabili, gli impongono un potere-dovere di intervenire al fine di scongiurarne l’insorgere.

Il gestore, pertanto, è tenuto a predisporre ogni più ampia e idonea misura di cautela, ovvero, tutto quanto si renda necessario ad impedire il pregiudizio dell’integrità fisica di chi abbia accesso e fruisca degli impianti, a qualunque titolo.

Quando poi, come di frequente accade, il “bene impianto sportivo” non è nella disponibilità diretta del gestore, ma gli viene trasferito mediante concessione amministrativa da parte di un ente pubblico, le rispettive posizioni di obblighi e diritti, tra concedente e concessionario, sono regolamentate in base allo specifico rapporto giuridico tra essi sorto, mentre nei riguardi dei terzi danneggiati risponde unicamente il gestore, tenuto a verificare la perfetta funzionalità della struttura deputata ad ospitare lo svolgimento della relativa disciplina sportiva e/o evento organizzato.

A voler concedere, in capo all’ente pubblico potrebbe residuare non una responsabilità connessa all’attività di gestione della struttura sportiva, ma un obbligo di custodia del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c. o anche una responsabilità conseguente ad eventuali danni provocati da rovina di edificio ex art. 2053 c.c.., forme di responsabilità, queste, cui rischiano di essere assoggettati, in certi casi, come vedremo in seguito, gli stessi gestori.

Sotto il profilo della responsabilità civile, é’ noto che una condotta produttiva di danno, può rivestire una duplice valenza, determinando a carico del soggetto che l’ha posta in essere sia una responsabilità per illecito civile che per illecito penale, il che, per la verità, si verifica con una certa frequenza in relazione all’attività di conduzione degli impianti sportivi.

In particolare, quanto alla responsabilità civile, è ormai pacifico, in giurisprudenza e dottrina, che il gestore di impianti sportivi, ricorrendo le condizioni previste dalle norme dettate in materia dall’ordinamento, è obbligato a risarcire il danno subito da coloro che, a qualsiasi titolo (lavoratori dipendenti, collaboratori, atleti, utenti e spettatori in genere) operino nell’impianto, lo frequentino o solo occasionalmente vi accedano.

Dal punto di vista prettamente giuridico, la responsabilità civile specificamente connessa alla gestione degli impianti sportivi, si configura di natura extracontrattuale, in ossequio al generale dovere del naeminem laedere, sia con riferimento all’art. 2043 c.c., sia con riferimento alle forme di responsabilità speciali di cui diremo tra breve (art. 2050 c.c. e ss.) anche se, spesso, come vedremo, a detta forma di responsabilità può sovrapporsi anche quella di natura contrattuale (ad esempio, quando una società sportiva, organizzatrice dell’evento, provvedendo alla vendita dei biglietti della gara, si assume anche l’obbligazione contrattuale di assicurare lo svolgimento e la fruizione dello spettacolo sportivo, oltre a quello di predisporre ogni più efficace misura atta a garantire la sicurezza degli spettatori).

Dicevamo della responsabilità di natura extracontrattuale che, sempre tenuto conto del generale principio per cui nessuno deve causare ad altri nocumento alcuno con il proprio comportamento, può manifestarsi, nello specifico, sia ai sensi dell’art. 2043 c.c. (“Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”) che, come sappiamo, pone a carico del danneggiato la prova del danno della colpa o del dolo del danneggiante, nonché del nesso di causalità tra la condotta del soggetto responsabile e l’evento, sia in relazione ad una delle c.d. responsabilità speciali, ai sensi degli artt. 2050 c.c. s.s. sulle quali, peraltro, dottrina e giurisprudenza manifestano diversità di vedute circa la relativa natura oggettiva o aggravata, (la giurisprudenza prevalente vi ravvisa una responsabilità aggravata per colpa presunta (RESPONSABILITA’>COLPA PRESUNTA PER INADEMPIMENTO DEGLI OBBLIGHI CAUTELARI DA PARTE DEL GESTORE // ESCLUSIONE RESPONSABILITA’>PROVA DEL CASO FORTUITO IN “SENSO SOGGETTIVO”>ESCLUDE LA COLPA DEL GESTORE MA NON INCIDE SUL NESSO DI CAUSALITA’), al contrario di altra parte della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, entrambe orientate a privilegiare la tesi della responsabilità oggettiva (RESPONSABILITA’>NESSO CAUSALE TRA CONDOTTA ED EVENTO DANNOSO CON RIFERIMENTO ALL’ ATTIVITA’ PERICOLOSA, PROPRIO PERCHE’ L’ATTIVITA’ CONSIDERATA E’ ATTIVITA’ PERICOLOSA -ART. 2050 C.C.-, ALLA COSA IN CUSTODIA -ART. 2051 C.C.-, ECC. // ESCLUSIONE DI RESPONSABILITA’>PROVA DEL CASO FORTUITO IN “SENSO OGGETTIVO”>FATTO INTERRUTTIVO DEL NESSO DI CAUSALITA’ // CASO FORTUITO>COME FATTORE IMPREVEDIBILE E QUINDI ESTRANEO AL CONTROLLO UMANO, ANCHE SOTTO FORMA DEL FATTO DEL TERZO O DEL DANNEGGIATO AVENTI EFFICIENZA CAUSALE AUTONOMA E NON QUALI ELEMENTI CONCORRENTI DEL DANNO CHE SI INSERISCANO IN UNA SITUAZIONE DA CUI ESSO E’ DERIVATO), per cui sussisterebbe una responsabilità incolpevole per fatto non proprio, giacché il responsabile gestore potrebbe non essere personalmente in colpa per la mancata adozione di ogni più idonea misura di cautela.

In tali casi, quindi, o perché la responsabilità si presuma o perché da essa si prescinda (a seconda che si voglia ragionare in termini di responsabilità aggravata o di responsabilità oggettiva), il criterio di imputazione del danno non è mai direttamente la colpa ma, di volta in volta, l’esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.), la custodia di cose (art. 2051 c.c.), la proprietà di edifici (art. 2053 c.c.), ecc..

Nulla esclude, del resto, che, in ipotesi di danno discendente da insufficiente manutenzione delle parti strutturali dell’impianto, possa intervenire la disciplina di cui agli artt. 2051 c.c. (danni cagionati da cose in custodia) e 2053 c.c. (danni cagionati da rovina di edificio), magari in via concorrente con l’ente pubblico quando ad esso appartenga la proprietà della struttura, come detto in precedenza.

Peraltro, il gestore potrebbe essere chiamato a rispondere anche in forza dell’art. 2049 c.c. (I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle funzioni cui sono adibiti) per i danni determinati da condotte censurabili poste in essere da dipendenti e/o collaboratori; in tale ipotesi, si verte in tema di c.d. responsabilità indiretta che, appunto, presuppone un rapporto di preposizione (non necessariamente connesso ad un rapporto di lavoro subordinato, ma anche soltanto al temporaneo o occasionale inserimento del preposto nell’organizzazione aziendale), con conseguente possibilità di controllo e sorveglianza sulle attività del collaboratore o dipendente da parte del preponente; quest’ultimo, però, sarà ritenuto responsabile anche se il preposto abbia agito fuori dalle mansioni affidategli, qualora dette mansioni abbiano reso possibile, o anche solo agevolato, il fatto dannoso, ponendosi con esso in relazione di occasionalità necessaria.

In tali casi, accanto alla responsabilità del preponente, concorre quella della persona cui sia direttamente imputabile l’evento produttivo del danno.

Evidente, poi, che i danni intanto saranno risarcibili, in quanto siano conseguiti ad eventi (malattie, lesioni, morte) verificatisi all’interno della struttura o intimamente collegati all’accesso e/o alla permanenza nella medesima e, ovviamente, trovino la loro causa in comportamenti dolosi o colposi direttamente o indirettamente riferibili al gestore.

Invero, la sola individuazione delle diverse forme in cui potrebbe essere sussunta la responsabilità civile connessa alla gestione dell’impianto sportivo, però, non risulterebbe sufficientemente idonea a delineare un completo quadro giuridico di riferimento, se non si individuasse, contestualmente, la diversa portata, specialmente sotto il profilo probatorio, delle diverse forme di responsabilità, come poco addietro individuate.

In effetti, mentre in ipotesi di responsabilità ex art. 2043 c.c., come già osservato, é il danneggiato che dovrà fornire la prova del danno (ingiusto), della colpa o del dolo del danneggiante e del nesso materiale di causalità tra la condotta e l’evento, avuto riguardo, invece, alle citate responsabilità speciali, l’onere probatorio incomberà sul danneggiante mediante la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, non essendo sufficiente la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione di norme di legge o di comune prudenza e diligenza.

In definitiva, esclusivamente il caso fortuito (fatto eccezionale e imprevedibile), individuabile anche nel fatto del terzo o del danneggiato che, però, abbiano propria e autonoma efficienza causale, potrà soccorrere ai fini dell’esclusione della colpa in capo al soggetto gestore o il nesso di causalità tra la condotta tenuta e l’evento lesivo, a seconda che si propenda, rispettivamente per la natura aggravata o oggettiva delle richiamate forme di responsabilità speciali.

Come si arguisce, siamo in presenza di forme di responsabilità variamente strutturate sotto il profilo della tecnica normativa, con la previsione di prove liberatorie più o meno difficoltose a carico del soggetto asseritamente ritenuto responsabile.

Per concludere in tema di responsabilità civile contrattuale e/o extracontrattuale del gestore che agisca, o meno, anche in veste di organizzatore dell’evento sportivo, ve precisato che:

1) sotto il profilo della natura e della quantificazione del danno, andranno considerati il DANNO PATRIMONIALE (danno emergente e lucro cessante), il DANNO NON PATRMONIALE (danno biologico, danno morale, ulteriori e diversi pregiudizi) che, lo ricordiamo, non è più limitato alle sole ipotesi previste dalla legge, ovvero alla commissione di reati, ma involge ogni valore della persona costituzionalmente garantito, indipendentemente dal fatto che il fatto illecito commesso integri un’ipotesi di reato, la VALUTAZIONE EQUITATIVA DEL DANNO e il FATTO COLPOSO DEL DANNEGGIATO (cfr. art. 2056 c.c. secondo il quale, anche in ipotesi di danno da fatto illecito, il relativo risarcimento è determinato alla luce dell’art. 1223 c.c. -danno emergente e lucro cessante-, dell’art. 1226 c.c. -valutazione equitativa del danno- e dell’art. 1227 c.c. -concorso del fatto colposo del creditore danneggiato) .

Tuttavia, occorre precisare che, qualora si ritenga di inquadrare le richiamate responsabilità c.d. speciali nella fattispecie della responsabilità oggettiva, dovrebbe essere escluso qualsivoglia risarcimento del danno non patrimoniale (cfr. Cass. Civ., sez. III, n. 20814 del 27/10/2004), atteso che in detta ultima ipotesi, a differenza della responsabilità aggravata per colpa presunta, in ambito oggettivo la responsabilità viene fatta gravare in capo ad un soggetto semplicemente in virtù del nesso causale che lo lega all’evento lesivo.

In tal caso, il comportamento del danneggiante non assume alcuna rilevanza, così come la relativa colpa, e tutta la responsabilità si fonda sull’accertata esistenza dell’elemento materiale (condotta, evento e nesso causale);

2) con riferimento al patrimonio su cui il danneggiato potrà trovare soddisfazione ai fini risarcitori, bisogna operare una distinzione.

Avuto riguardo alle società sportive che esercitano attività economica con scopo di lucro (società di calcio professionistico, ad esempio), infatti, la disciplina sarà quella dettata dal codice civile in tema di compagini societarie, mentre, per quelle società sportive che, non avendo fini imprenditoriali, si costituiscono in associazioni sportive, la responsabilità patrimoniale si inciderà sul proprio patrimonio, in maniera diversa, a seconda che esse siano riconosciute (dotate di personalità giuridica e, quindi, di autonoma capacità patrimoniale rispetto ai consociati) o non riconosciute (prive di personalità giuridica, per cui vi è una sorta di identità tra l’ente stesso e i consociati medesimi, e quindi tra i rispettivi patrimoni).

Nel primo caso, infatti, sussistendo al c.d. autonomia patrimoniale perfetta, risponde l’associazione solo con il suo patrimonio (escludendosi da qualsiasi coinvolgimento quello del legale rappresentante o di altri consociati), nel secondo, invece, e solo limitatamente alle obbligazioni contrattuali (art. 38 c.c.), vi è solidarietà tra fondo comune dell’associazione non riconosciuta e patrimonio del legale rappresentante che abbia agito in nome e per conto della persona giuridica rappresentata.

Quid iuris per i fatti illeciti? Poiché si è sempre dibattuto sulla circostanza se, in relazione ad essi, dovesse rispondere, in solido con l’ente rappresentato, anche il legale rappresentante con il suo patrimonio, la giurisprudenza, nel tentativo di comporre la querelle, ha introdotto due forme di responsabilità: diretta e una indiretta.

Ne consegue che l’associazione non riconosciuta sarà ritenuta responsabile nei limiti del proprio fondo comune, sia quando il fatto illecito sia imputabile a chi abbia legalmente agito in nome e per conto di essa (responsabilità diretta), sia quando l’illecito medesimo sia stato perpetrato da suoi ausiliari nell’esercizio dell’attività cui erano preposti (responsabilità indiretta).

Abbiamo rilevato, in precedenza, come una determinata condotta produttiva di danno possa rivestire una duplice valenza, determinando a carico del gestore coinvolto sia una responsabilità per illecito civile che per illecito penale; in questo senso ci si riferisce, in particolare, al profilo dinamico dell’attività di gestione, essenzialmente legato alla concreta disponibilità che altri abbiano dell’impianto e ad eventuali danni da essi subiti.

Tuttavia, non possiamo omettere di considerare, in breve, altri ambiti rispetto a cui potrebbero emergere responsabilità penali in capo al gestore:

A) con riferimento alla commissione di reati societari (gravi irregolarità gestionali), atteso che, ad esempio, gli amministratori di società sportive costituite in forma di società di capitali, hanno gli stesso obblighi e compiti di quelli che operano in altre società svolgenti diversa attività economica;

B) con riferimento alla commissione di reati tributari (tipica ipotesi di emissione di fatture per operazioni inesistenti);

C) con riferimento alla commissione di reati fallimentari (tipica ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale e/o documentale, atti di distrazione del patrimonio, falsificazione delle scritture contabili).

Altra forma di responsabilità penale (di natura contravvenzionale) in cui potrebbe incorrere il gestore, è quella che deriva dalla violazione di norme contenute nel D.Lgs. n. 626/94, successivamente integrato dal D.Lgs. n. 242 del 19/03/1996, mediante il quale sono state recepite nel nostro ordinamento ben 8 direttive comunitarie in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro che impongono al datore di lavoro di organizzare un accurato servizio di prevenzione e protezione, di effettuare la valutazione dei rischi, di realizzare un programma di intervento per ridurre o eliminare i rischi individuati, nonché di informare e formare adeguatamente i dipendenti.

La responsabilità penale discendente dall’inosservanza del D. Lgs. n. 626/94, come modificato dal D.Lgs, n. 242/96, secondo l’orientamento prevalente, può ricadere sui soli gestori che si avvalgono di lavoratori dipendenti o di collaboratori ad essi assimilati e che svolgono attività imprenditoriale (nel senso che offrono il servizio, al quale l’impianto è destinato, al fine di conseguire un profitto).

Vero è, tuttavia, che l’applicazione del D. Lgs. n. 626/94 comporta degli oneri (es. la predisposizione del DOCUMENTO DELLA VALUTAZIONE DEI RISCHI contenente tutta una serie di dati) che, per i gestori di più modeste dimensioni, si rivelano oltremodo gravosi, anche economicamente.

Per tale ragione, il Legislatore ha disposto alcune deroghe per quelle realtà il cui dimensionamento è piuttosto modesto o il cui livello di pericolosità è irrilevante.

In particolare, è prevista l’autocertificazione scritta della valutazione di rischi e degli adempimenti degli obblighi relativi per i centri sportivi sino a 10 addetti, ferma restando la necessità di effettuare, ugualmente, una puntuale e corretta valutazione dei fattori di rischio.

Vi è, inoltre, una responsabilità penale connessa all’organizzazione e alla gestione dei pubblici spettacoli (sportivi) che resta circoscritta, secondo l’opinione più diffusa, ai gestori che assumono la veste di imprenditori gestendo gli spettacoli (sportivi) a pagamento.

Costoro devono previamente ottenere l’autorizzazione del Sindaco del luogo ex art. 666 c.p. (rilascio di licenza per spettacoli o trattenimenti pubblici), la cui mancanza, oggi, costituisce solo illecito amministrativo (depenalizzazione) punito con pena pecuniaria, e devono, inoltre, nella gestione degli spettacoli, osservare tutte le disposizioni normative e le prescrizioni dettate dalle varie Autorità competenti (Commissione pubblici spettacoli, Questore, ecc.) dirette alla tutela della pubblica incolumità.

La loro inosservanza determina l’applicazione della contravvenzione ex art. 681 c.p. (apertura abusiva di luoghi pubblico spettacolo o trattenimento, punita con con l’arresto fino a 6 mesi e l’ammenda non inferiore a € 103,00).

Ad ogni buon conto, secondo altro orientamento, le due forme di responsabilità penale appena richiamate, è ascrivibile anche ai gestori che non svolgano, in maniera prevalente, attività imprenditoriale, per cui è consigliabile che le Società o le Associazioni Sportive che gestiscono impianti sportivi, pur senza essere soggetti imprenditori, si attengano al dettato normativo del D. Lgs. n. 626/94, sempre che si avvalgano di lavoratori dipendenti o di altri collaboratori assimilati e osservino le prescrizioni di cui agli artt.. 666 e 681 c.p., qualora organizzino pubbliche manifestazioni, specie se a pagamento.

Tornando, ora, al binomio responsabilità civile - responsabilità penale, si può assumere che, di solito, in relazione all’attività di gestione degli impianti, accanto alla responsabilità civile (di natura extracontrattuale e/o contrattuale), si manifesta la responsabilità penale per i reati di lesioni colpose o omicidio colposo; e ciò, nei riguardi di qualsiasi gestore, sia che svolga attività d’impresa, sia che operi sul piano della sola attività dilettantistica, sempre che gli eventi di danno si verifichino all’interno dell’impianto o siano intimamente legati alla fruizione del medesimo e, ovviamente, trovino causa in un contegno colposo del gestore o di un suo preposto.

Atteso, però, che la responsabilità penale è personale, essa sarà ascrivibile o al gestore persona fisica singolarmente considerato, oppure, qualora titolare del rapporto di gestione sia una Società o Associazione Sportiva, al legale rappresentante del gruppo associato, al responsabile della conduzione dell’impianto, nonché al collaboratore che abbia posto in essere il comportamento colposo da cui ha avuto origine l’evento di danno (ad esempio, come nel recentissimo caso che ha coinvolto la Juventus per la morte di due giovani calciatori nel centro sportivo Mondo Juve di Vinovo, in relazione al quale risultano indagati, per omicidio colposo, l’A.D. della società, il tecnico che si occupava dell’addestramento tecnico dei due atleti, l’A.D. della società Semana che gestisce l’impianto sportivo, il responsabile del personale).

La menzione del club Juventus, offre lo spunto per analizzare, in breve, una vicenda che lo ha coinvolto alcuni anni orsono, atteso che il Tribunale di Torino, intervenuto a pronunciarsi nell’occasione, ha tratto lo spunto per confermare, ribadendolo, un principio già radicatosi dalla metà degli anni novanta, pur non sorretto da uniformità di vedute, in giurisprudenza e dottrina: quello secondo cui “l’attività di gestione di uno stadio di calcio costituisce attività pericolosa in relazione alla sua stessa natura e per la caratteristiche dei mezzi adoperati”, con la conseguenza che da essa può scaturire la responsabilità ex art. 2050 c.c.. In che termini?

Posto, come già osservato, che un medesimo comportamento contra ius può dare luogo sia a responsabilità civile che penale, si deve, però, tener conto della fonte causale del danno.

Ad esempio, il danno subito da un soggetto che discenda direttamente dall’attività sportiva svolta in quel particolare momento nella struttura, oppure il nocumento che il medesimo subisca a causa di scelte negligenti o imprudenti compiute dall’organizzatore, o ancora, il danno arrecato da altri altri soggetti, come gli spettatori di una manifestazione sportiva, del tutto estranei all’attività di gestione e di organizzazione afferente all’impianto in cui l’evento sportivo ha luogo.

E’ soprattutto in relazione a tale ultima ipotesi che, allora, rileva riscontrare la sussistenza di elementi idonei a far ritenere l’attività di gestione di uno stadio quale esercizio di attività pericolosa.

Cosa si intenda per esercizio di attività pericolosa?

Occorre preliminarmente chiederci se l’attività sportiva sia di per sé pericolosa e se nella nozione di pericolosità rientrino tutte le attività o discipline sportive, o solo alcune di esse.

Evidentemente, solo alcune di esse si possono ritenere fonte di pericolo e di danno (si pensi all’automobilismo che, per sua stessa natura o per i mezzi adoperati, è pericoloso), ma ciò che importa sottolineare è la circostanza per cui il concetto di attività pericolosa non vale ad individuare, immutabilmente e definitivamente, una categoria ben precisa di attività, contemplando esso, piuttosto, anche quelle espressamente previste come tali, e che dunque ricevono un’attribuzione di pericolosità generale dal Legislatore (a titolo esemplificativo, nel T.U.P.S. in altre leggi speciali) o dal giudice il quale, caso per caso, ravvisi in determinate attività la rilevante possibilità che si verifichino dei danni in relazione alla loro stessa natura o alle caratteristiche dei mezzi impiegati.

Invero, é proprio in relazione a questa seconda opzione che sorgono i maggiori dubbi interpretativi, attesa la necessità di formulare, in tali evenienze, un giudizio ex ante (criterio della prognosi postuma), a prescindere dalla gravità ed entità del danno concreto occorso, tenendo presenti le astratte caratteristiche di rischio insite nell’attività presa in considerazione.

In questo senso, allora, non vi è dubbio che le attività sportive, lecite e socialmente utili, pur non apparendo tutte in egual misura pericolose, possano anche generare danni nel corso del loro svolgimento, come nel caso in cui sia la medesima società sportiva (soggetto gestore dell’impianto) a organizzare una gara o una manifestazione sportiva, con evidenti riflessi in tema di ordine pubblico.

La società, allora, indipendentemente dalla responsabilità del funzionario preposto alla tutela dell’ordine pubblico (Autorità di P.S.), deve comunque attivarsi al fine di prevenire, ed evitare, danni o incidenti a persone e/o cose.

Né, del resto, quegli obblighi potrebbero venire meno sol perché l’Autorità di P.S., qualora ravvisi una situazione di pericolo per la pubblica incolumità, abbia il potere di ordinare la sospensione dell’evento sportivo, atteso che essa agisce e opera non già per sostituirsi all’organizzatore (gestore) nell’adempimento degli obblighi che egli assume nei confronti degli spettatori, ma senza dubbio al di fuori del particolare rapporto giuridico che si instaura tra spettatore e società di calcio, nel nostro caso, con l’acquisto del biglietto.

Con particolare riguardo alla gestione degli stadi e all’organizzazione di una partita di calcio di livello professionistico, l’applicazione dell’art. 2050 c.c. è stata motivata, come vedremo, considerando che la pericolosità può essere desunta sia dalla normativa concernente l’organizzazione delle manifestazioni sportive professionistiche, basata proprio sull’evidenza dell’estrema pericolosità, sia dalla possibilità di incidenti, alcuni anche mortali, che troppo spesso si sono verificati nell’ambito di tali manifestazioni, anche all’esterno degli impianti utilizzati.

Per tutti, si ricordi il recente dramma legato alla morte del Dott. Filippo Raciti (Ispettore della Polizia di Stato) nel corso dei tafferugli occorsi in occasione del derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007.

Tornando al tema che ci occupa, dunque, si può affermare che, qualora il pericolo sorga a causa del comportamento colposo dell’uomo nell’esercizio dell’attività, la persona lesa sarà tutelata ex art. 2043 c.c., ovvero nell’ambito del generale obbligo di protezione previsto dalla legge.

Il tema è quantomai delicato, proprio perché, come osservato nella parte iniziale dell’intervento, ricorrendo una delle ipotesi di responsabilità speciali, in particolare quella ex art. 2050 c.c., tanto per non discostarci dalla fattispecie in argomento, solo la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il nocumento, esonererà la società sportiva (gestore) da qualsivoglia forma di responsabilità.

A tal proposito, si ritiene utile segnalare due fattispecie che, con particolare riguardo alla figura del gestore dell’impianto sportivo che sia anche organizzatore dell’evento, risultano di un certo interesse.

CASO JUVENTUS (Trib. To, 11/01/2004)

Ebbene, durante la gara di Campionato di serie A Juventus-Roma del 06/05/2001 (Stadio delle Alpi), un tifoso romanista, giunto a Torino con un pullman, veniva colpito da un fumogeno lanciato da un sostenitore juventino all’interno della struttura.

Il romanista, nel tentativo di allontanare l’oggetto, riportava la grave lesione di un arto, con amputazione di un dito e gravi danni alle altre dita, a causa dell’esplosione dell’ordigno fumogeno.

Promosso giudizio civile contro la società Juventus, nella sua qualità di soggetto gestore e organizzatore dell’incontro, il Tribunale di Torino accoglieva la domanda interposta dal fan capitolino, affermando la responsabilità del club per non avere evitato il danno, con conseguente condanna al relativo risarcimento in favore del tifoso ferito.

Nello specifico, l’organo giudicante ha ritenuto che l’evento occorso in danno di questi dovesse essere valutato proprio alla stregua del principio di cui all’art. 2050 c.c..

Il tifoso romanista è riuscito a dimostrare la pericolosità dell’attività svolta dalla Juventus, la cui potenzialità dannosa è stata appurata, da parte del Tribunale di Torino, secondo un criterio di media normalità, desunta alla luce di dati statistici ed elementi tecnici, in base alle norme di comune esperienza.

In definitiva, il giudice torinese ha stabilito che intanto l’attività va qualificata come pericolosa, in quanto, statisticamente, cagioni ripetuti incidenti o minacci di cagionarne di molto gravi; in tal senso, è stata operata una valutazione di regolarità statistica circa il fatto che, in presenza di manifestazioni calcistiche, vi sia la probabilità che lanci di ordigni fumogeni provochino lesioni a terzi, tanto più avuto riguardo a quello stadio torinese, privo, secondo il giudice, delle dotazioni tecniche sufficienti atte a scongiurare il verificarsi di simili episodi.

Pertanto, addirittura, il club -ed è questo il fondamento della decisione assunta- avrebbe dovuto disputare la gara in altro stadio, attesa l’insussistenza di alcun vincolo, da parte della Juventus, a giocare le gare interne al “delle Alpi”, la cui concessione veniva, di volta in volta acquisita.

Il mancato svolgimento del match in altro impianto, unitamente all’assenza di un sufficiente livello di sicurezza -sempre secondo il Tribunale di Torino-, aveva reso l’evento prevedibile, dunque evitabile mediante la predisposizione di misure appropriate. La Juventus, però, non aveva fornito la prova di un adeguato intervento in tal senso, funzionalmente orientato ad evitare il danno subito dallo sportivo.

Non si può omettere di considerare, tuttavia, che la gestione e il collocamento, in adeguati spazi, di diecimila tifosi romanisti, dei quali quattromila sprovvisti di biglietto, avrebbe costituito compito arduo con riferimento a qualunque altro stadio italiano.

Invero, diversamente ragionando, il Tribunale di Torino non sarebbe riuscito nell’intento di tutelare adeguatamente la posizione del danneggiato, per cui, pur di raggiungere lo scopo, ha ritenuto opportuno condannare la Juventus per non aver provato la predisposizione delle idonee misure di cautela richieste.

Nei termini di cui sopra, però, la prova diventa davvero diabolica, atteso che ogni stadio di calcio, per quanto sicuro e ben controllato, in fattispecie simili alla nostra, risulterebbe inevitabilmente inadeguato, risultando oltremodo arduo escludere la responsabilità del club calcistico e il relativo obbligo risarcitorio nei riguardi di uno spettatore che abbia subito un danno.

Vero è che la previsione di una prova liberatoria così onerosa tende a salvaguardare interessi che, altrimenti, rischierebbero di rimanere privi di tutela, ma nemmeno si può pensare di estendere la fattispecie di danno risarcibile ad ogni costo.

Inoltre -ma tale profilo non è stato tempestivamente dedotto in giudizio dal tifoso che aveva promosso l’azione civile-, si può affermare, con buon grado di ragionevolezza, che in capo alla Juventus avrebbe potuto essere anche ascritta una responsabilità di natura contrattuale.

Infatti “la vendita del biglietto include certamente il dovere di adottare tutte le misure idonee ad assicurare l’incolumità degli spettatori” (Trib. Mi, 1988 e C. App. Mi, 1990).

Con la vendita del ticket, in altri termini, la società sportiva si obbliga anche a tutelare l’integrità fisica degli spettatori paganti, dovendo approntare ogni necessario controllo agli ingressi e sugli spalti per scongiurare l’introduzione di oggetti idonei ad offendere, ovvero tutti quegli accorgimenti richiesti dalla norma speciale di illecito extracontrattuale; in caso contrario il club si sottrarrebbe anche ai propri doveri contrattuali e sarebbe senz’altro ritenuto responsabile nei termini di cui in precedenza.

CASO GIAMPA’

Una forma di responsabilità, quella di cui al citato art. 2050 c.c., che potrebbe essere invocata anche in relazione ad un episodio occorso di recente, peraltro, senza precedenti.

Mi riferisco alla vicenda del calciatore Giampà (all’epoca dei fatti tesserato in forza al Messina) il quale, nel corso della gara Messina-Lecce (ottobre 2004), finiva su un cartellone pubblicitario (del genere rotativo che modifica il messaggio pubblicitario a brevi cadenze temporali), posizionato a bordo campo, riportando la recisione del muscolo mediale della coscia sinistra causata da un ferro sporgente dal medesimo cartellone. A seguito dell’incidente, venivano applicati ben 147 punti di sutura alla ferita.

Orbene, per quanto concerne la disposizione dei “rotors” all’interno di uno stadio, i regolamenti federali di settore prescrivono che i cartelli devono essere posti ad una distanza di 2,5 m dalla linea di demarcazione del terreno di gioco.

E’ evidente, però, che detta previsione endoassociativa non può derogare ai principi di cautela e di salvaguardia posti a tutela dell’incolumità degli atleti, per cui non é sufficiente il rispetto della prescritta distanza al fine di potersi ritenere che sia stata approntata ogni più idonea misura ad evitare il danno.

Del resto, i regolamenti federali sono atti di autonomia privata attraverso cui si manifesta un potere di autonormazione del settore sportivo la cui portata è assolutamente circoscritta alla regolamentazione del medesimo settore, mentre, qualora si verta in ambito di rapporti intersoggettivi e situazioni giuridiche attive dei privati, non può che soccorrere l’ordinamento giuridico statale.

Più chiaramente, il regolamento che promana dall’ordinamento sportivo è efficace e vincolante per l’attività sportiva, ma non può incidere sui profili connessi a detta attività se, come nel caso di specie, il danno è stato cagionato da circostanze che dallo sport hanno tratto solo l’occasione ai fini dell’esecuzione di un contratto il cui oggetto e la cui causa appartengono a tutt’altra fattispecie.

In questo senso, inoltre, agli effetti scriminanti in punto di responsabilità, non è nemmeno possibile invocare il principio del c.d. rischio consentito (per cui il giocatore, consapevole di poter incorrere in un infortunio di gioco durante la gara, ne accetta le relative conseguenze), che, invece, é strettamente legato allo svolgimento dell’attività sportiva, e di certo non vi è alcun nesso tra essa e lo sfruttamento dell’evento sportivo come veicolo del messaggio pubblicitario divulgato mediante un cartello posto a bordo campo.

In definitiva, nel nostro caso, non può non individuarsi una responsabilità civile, ex art. 2050 c.c., del club (Messina) a fronte del danno subito dal proprio tesserato, per omessa vigilanza sul corretto posizionamento del supporto pubblicitario, nonché per omessa adozione delle misure di sicurezza necessarie a rendere l’insidia del ferro sporgente, visibile e prevedibile.

Peraltro, sempre con riferimento al caso in esame, non sarebbe fuori luogo invocare l’art. 2051 c.c. (responsabilità di cose in custodia), posto che il cartello, proprio in quanto collocato all’interno dello stadio, avrebbe dovuto essere costantemente monitorato dal soggetto-custode.

La propria responsabilità potrebbe venire meno solo in presenza del c.d. caso fortuito, ma non sembra potersene individuare traccia alcuna nella nostra fattispecie, per cui, di certo, è ipotizzabile una responsabilità anche in relazione all’art. 2051 c.c..

Inoltre, la responsabilità della società organizzatrice dell’evento, sempre con riferimento al caso Giampà, potrebbe risultare, in qualche modo, mitigata, da un giudizio di responsabilità diretto, in via concorrente, nei riguardi del produttore del cartellone pubblicitario, sia quale responsabile della sicurezza del prodotto (D. Lgs. n. 115/95), sia come produttore sic et simpliciter (D.P.R. n. 224/88), nonché nei riguardi dell’arbitro, nel cui potere-dovere di garantire il corretto svolgimento della gara rientra anche quello della verifica circa la conformità delle attrezzature, del terreno di gioco e di quanto si pone con esso in rapporto pertinenziale.

In questo senso egli esercita, se non proprio la funzione di pubblico ufficiale, certamente quella di interesse pubblico.

Per mera completezza espositiva, faccio solo osservare come, ad esempio, sia stata individuata la responsabilità extracontrattuale di un maestro di tennis che, nel generale programma di addestramento degli allievi di una Scuola di Addestramento Tennis (S.A.T.), aveva disposto un allenamento da svolgersi lungo un sentiero in discesa e dal fondo scivoloso, e, nell’occasione, una bambina di 12 anni era caduta a terra scivolando, con conseguente trauma agli arti inferiori.

In che senso, allora, ai fini risarcitori, l’organizzazione di un programma di allenamento è assimilabile a quella di un evento sportivo?

Lo ha chiarito, mirabilmente, la Suprema Corte (Cass. Civ., sez. III, n. 5136/03) assumendo che la bambina danneggiata era stata iscritta ai corsi tenuti della S.A.T. a seguito della pubblicizzazione dell’egida della F.I.T. (Federazione Italiana Tennis), dunque, con affidamento alle particolari garanzie di efficienza e sicurezza offerte nel caso specifico, per cui, proprio detta circostanza, avrebbe dovuto determinare, in capo all’allenatore (responsabile della seduta di training) una particolare diligenza nella scelta dei luoghi, soprattutto tenendo conto della giovane età degli atleti.

La società ha subito profonde mutazioni e anche lo sport si è adattato ad un processo di modernizzazione indotto, oltre che dall’avvento dei media e dalla crescente rilevanza economica, anche dalle svariate motivazioni poste alla base di una sempre maggiore diffusione della pratica sportiva, quali, ad esempio, l’attenzione per la salute e la cura del corpo, la ricerca del benessere, le esigenze di recupero terapeutico, la maggiore disponibilità di tempo libero, fattori, questi, ormai legati ad una domanda di sport sempre più articolata e non più “spartana”, per così dire.

In tale contesto, dunque, la gestione dell’impianto sportivo non potrà che essere attuata e sviluppata secondo canoni di massima efficienza e funzionalità, e non solo avuto riguardo ai profili economico-finanziari.

Infatti, l’elevata percezione della qualità del servizio da parte del cliente moderno non può non tener conto della garanzia di sicurezza offerta da ciascun gestore il quale, anche sotto tale specifico profilo, dovrà avere un approccio operativo assolutamente customer oriented.

D’altra parte, questi, intenderà senza dubbio evitare di incorrere in forme di responsabilità (in sede civile e/o penale) a causa di danni subiti dai soggetti che, per i motivi più diversi, fruiscano degli impianti, ovvero gli atleti, i dipendenti, i collaboratori, gli utenti in generale, siano essi frequentatori o spettatori.

La responsabilità del gestore, quale soggetto esercente, di fatto, specifici poteri ad hoc, sorge, infatti, da un lato, quando il nocumento discenda da un difetto di funzionalità o di manutenzione dell’impianto, dall’altro, quando sia causato dalla mancata adozione di particolari cautele all’atto di svolgimento dell’attività sportiva (o competizione).

Per la verità, il Legislatore, soprattutto a partire dall’emanazione del D.M. 18/03/1996 (Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi, modificativo del precedente D.M. 25/08/1989, nonché succesivamente integrato dal D.M. 06/06/2005), relativo alla gestione degli impianti sportivi, nuovi e già in uso, nei quali abbiano luogo manifestazioni e/o attività sportive in presenza di un numero di spettatori superiore a 100, ha cercato di fornire, in via graduale, ulteriori e sempre più precise indicazioni sulle responsabilità e sui comportamenti che devono essere tenuti ai fini di una corretta attività gestionale, anche alla luce delle direttive europee in materia di sicurezza degli impianti utilizzati a fini sportivi.

Purtroppo, però, in molti casi, le varie leggi, circolari, ecc. succedutesi nel tempo, hanno contribuito a generare, piuttosto, una certa confusione, soprattutto con riferimento alle realtà di più modeste dimensioni e meno organizzate.

Confusione e dubbi che, invece, non possono affatto sussistere in ordine alla portata e all’applicazione delle norme cogenti mediante cui il nostro ordinamento disciplina, puntualmente, i vari profili di responsabilità civile e penale legati al comportamento umano e che, in questa sede, cercheremo di individuare con particolare riferimento alla tipica attività svolta dal gestore di impianti sportivi, anche nella veste di organizzatore dell’evento.

Lo scopo, se possibile, è quello di fornire una “visione d’insieme” in tema specifico, anche mediante il richiamo a fattispecie e precedenti giurisprudenziali attraverso cui osservare l’evoluzione delle diverse interpretazioni offerte in argomento dagli organi giudicanti intervenuti a pronunciarsi, non senza tener conto delle caratteristiche funzionali e della natura dei vari impianti deputati a ospitare lo svolgimento delle singole discipline sportive.

In particolare, per quanto concerne la responsabilità del gestore dell’impianto sportivo, che sia anche organizzatore dell’evento, prenderemo in considerazione l’ambito calcistico, e, nello specifico, le società sportive che, di regola, gestiscono gli impianti di proprietà pubblica in base a rapporti di natura concessoria e sono riconducibili, esse stesse, al soggetto organizzatore generalmente inteso.

Preliminarmente, ritengo sia opportuno inquadrare, pur in modo sintetico, la figura del gestore di impianti sportivi, nella sua accezione generale.

In linea di principio, si può assumere che questi è il soggetto responsabile della sicurezza e dell’incolumità di chi acceda, per le più svariate ragioni, alle diverse strutture.

In tal senso, quindi, il gestore é titolare di una posizione di garanzia che, però, non è senza limiti; egli, infatti, potrà essere chiamato a rispondere solo degli eventi dannosi prevedibili ed evitabili, i quali, proprio in quanto prevedibili ed evitabili, gli impongono un potere-dovere di intervenire al fine di scongiurarne l’insorgere.

Il gestore, pertanto, è tenuto a predisporre ogni più ampia e idonea misura di cautela, ovvero, tutto quanto si renda necessario ad impedire il pregiudizio dell’integrità fisica di chi abbia accesso e fruisca degli impianti, a qualunque titolo.

Quando poi, come di frequente accade, il “bene impianto sportivo” non è nella disponibilità diretta del gestore, ma gli viene trasferito mediante concessione amministrativa da parte di un ente pubblico, le rispettive posizioni di obblighi e diritti, tra concedente e concessionario, sono regolamentate in base allo specifico rapporto giuridico tra essi sorto, mentre nei riguardi dei terzi danneggiati risponde unicamente il gestore, tenuto a verificare la perfetta funzionalità della struttura deputata ad ospitare lo svolgimento della relativa disciplina sportiva e/o evento organizzato.

A voler concedere, in capo all’ente pubblico potrebbe residuare non una responsabilità connessa all’attività di gestione della struttura sportiva, ma un obbligo di custodia del bene ai sensi dell’art. 2051 c.c. o anche una responsabilità conseguente ad eventuali danni provocati da rovina di edificio ex art. 2053 c.c.., forme di responsabilità, queste, cui rischiano di essere assoggettati, in certi casi, come vedremo in seguito, gli stessi gestori.

Sotto il profilo della responsabilità civile, é’ noto che una condotta produttiva di danno, può rivestire una duplice valenza, determinando a carico del soggetto che l’ha posta in essere sia una responsabilità per illecito civile che per illecito penale, il che, per la verità, si verifica con una certa frequenza in relazione all’attività di conduzione degli impianti sportivi.

In particolare, quanto alla responsabilità civile, è ormai pacifico, in giurisprudenza e dottrina, che il gestore di impianti sportivi, ricorrendo le condizioni previste dalle norme dettate in materia dall’ordinamento, è obbligato a risarcire il danno subito da coloro che, a qualsiasi titolo (lavoratori dipendenti, collaboratori, atleti, utenti e spettatori in genere) operino nell’impianto, lo frequentino o solo occasionalmente vi accedano.

Dal punto di vista prettamente giuridico, la responsabilità civile specificamente connessa alla gestione degli impianti sportivi, si configura di natura extracontrattuale, in ossequio al generale dovere del naeminem laedere, sia con riferimento all’art. 2043 c.c., sia con riferimento alle forme di responsabilità speciali di cui diremo tra breve (art. 2050 c.c. e ss.) anche se, spesso, come vedremo, a detta forma di responsabilità può sovrapporsi anche quella di natura contrattuale (ad esempio, quando una società sportiva, organizzatrice dell’evento, provvedendo alla vendita dei biglietti della gara, si assume anche l’obbligazione contrattuale di assicurare lo svolgimento e la fruizione dello spettacolo sportivo, oltre a quello di predisporre ogni più efficace misura atta a garantire la sicurezza degli spettatori).

Dicevamo della responsabilità di natura extracontrattuale che, sempre tenuto conto del generale principio per cui nessuno deve causare ad altri nocumento alcuno con il proprio comportamento, può manifestarsi, nello specifico, sia ai sensi dell’art. 2043 c.c. (“Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”) che, come sappiamo, pone a carico del danneggiato la prova del danno della colpa o del dolo del danneggiante, nonché del nesso di causalità tra la condotta del soggetto responsabile e l’evento, sia in relazione ad una delle c.d. responsabilità speciali, ai sensi degli artt. 2050 c.c. s.s. sulle quali, peraltro, dottrina e giurisprudenza manifestano diversità di vedute circa la relativa natura oggettiva o aggravata, (la giurisprudenza prevalente vi ravvisa una responsabilità aggravata per colpa presunta (RESPONSABILITA’>COLPA PRESUNTA PER INADEMPIMENTO DEGLI OBBLIGHI CAUTELARI DA PARTE DEL GESTORE // ESCLUSIONE RESPONSABILITA’>PROVA DEL CASO FORTUITO IN “SENSO SOGGETTIVO”>ESCLUDE LA COLPA DEL GESTORE MA NON INCIDE SUL NESSO DI CAUSALITA’), al contrario di altra parte della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, entrambe orientate a privilegiare la tesi della responsabilità oggettiva (RESPONSABILITA’>NESSO CAUSALE TRA CONDOTTA ED EVENTO DANNOSO CON RIFERIMENTO ALL’ ATTIVITA’ PERICOLOSA, PROPRIO PERCHE’ L’ATTIVITA’ CONSIDERATA E’ ATTIVITA’ PERICOLOSA -ART. 2050 C.C.-, ALLA COSA IN CUSTODIA -ART. 2051 C.C.-, ECC. // ESCLUSIONE DI RESPONSABILITA’>PROVA DEL CASO FORTUITO IN “SENSO OGGETTIVO”>FATTO INTERRUTTIVO DEL NESSO DI CAUSALITA’ // CASO FORTUITO>COME FATTORE IMPREVEDIBILE E QUINDI ESTRANEO AL CONTROLLO UMANO, ANCHE SOTTO FORMA DEL FATTO DEL TERZO O DEL DANNEGGIATO AVENTI EFFICIENZA CAUSALE AUTONOMA E NON QUALI ELEMENTI CONCORRENTI DEL DANNO CHE SI INSERISCANO IN UNA SITUAZIONE DA CUI ESSO E’ DERIVATO), per cui sussisterebbe una responsabilità incolpevole per fatto non proprio, giacché il responsabile gestore potrebbe non essere personalmente in colpa per la mancata adozione di ogni più idonea misura di cautela.

In tali casi, quindi, o perché la responsabilità si presuma o perché da essa si prescinda (a seconda che si voglia ragionare in termini di responsabilità aggravata o di responsabilità oggettiva), il criterio di imputazione del danno non è mai direttamente la colpa ma, di volta in volta, l’esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.), la custodia di cose (art. 2051 c.c.), la proprietà di edifici (art. 2053 c.c.), ecc..

Nulla esclude, del resto, che, in ipotesi di danno discendente da insufficiente manutenzione delle parti strutturali dell’impianto, possa intervenire la disciplina di cui agli artt. 2051 c.c. (danni cagionati da cose in custodia) e 2053 c.c. (danni cagionati da rovina di edificio), magari in via concorrente con l’ente pubblico quando ad esso appartenga la proprietà della struttura, come detto in precedenza.

Peraltro, il gestore potrebbe essere chiamato a rispondere anche in forza dell’art. 2049 c.c. (I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle funzioni cui sono adibiti) per i danni determinati da condotte censurabili poste in essere da dipendenti e/o collaboratori; in tale ipotesi, si verte in tema di c.d. responsabilità indiretta che, appunto, presuppone un rapporto di preposizione (non necessariamente connesso ad un rapporto di lavoro subordinato, ma anche soltanto al temporaneo o occasionale inserimento del preposto nell’organizzazione aziendale), con conseguente possibilità di controllo e sorveglianza sulle attività del collaboratore o dipendente da parte del preponente; quest’ultimo, però, sarà ritenuto responsabile anche se il preposto abbia agito fuori dalle mansioni affidategli, qualora dette mansioni abbiano reso possibile, o anche solo agevolato, il fatto dannoso, ponendosi con esso in relazione di occasionalità necessaria.

In tali casi, accanto alla responsabilità del preponente, concorre quella della persona cui sia direttamente imputabile l’evento produttivo del danno.

Evidente, poi, che i danni intanto saranno risarcibili, in quanto siano conseguiti ad eventi (malattie, lesioni, morte) verificatisi all’interno della struttura o intimamente collegati all’accesso e/o alla permanenza nella medesima e, ovviamente, trovino la loro causa in comportamenti dolosi o colposi direttamente o indirettamente riferibili al gestore.

Invero, la sola individuazione delle diverse forme in cui potrebbe essere sussunta la responsabilità civile connessa alla gestione dell’impianto sportivo, però, non risulterebbe sufficientemente idonea a delineare un completo quadro giuridico di riferimento, se non si individuasse, contestualmente, la diversa portata, specialmente sotto il profilo probatorio, delle diverse forme di responsabilità, come poco addietro individuate.

In effetti, mentre in ipotesi di responsabilità ex art. 2043 c.c., come già osservato, é il danneggiato che dovrà fornire la prova del danno (ingiusto), della colpa o del dolo del danneggiante e del nesso materiale di causalità tra la condotta e l’evento, avuto riguardo, invece, alle citate responsabilità speciali, l’onere probatorio incomberà sul danneggiante mediante la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, non essendo sufficiente la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione di norme di legge o di comune prudenza e diligenza.

In definitiva, esclusivamente il caso fortuito (fatto eccezionale e imprevedibile), individuabile anche nel fatto del terzo o del danneggiato che, però, abbiano propria e autonoma efficienza causale, potrà soccorrere ai fini dell’esclusione della colpa in capo al soggetto gestore o il nesso di causalità tra la condotta tenuta e l’evento lesivo, a seconda che si propenda, rispettivamente per la natura aggravata o oggettiva delle richiamate forme di responsabilità speciali.

Come si arguisce, siamo in presenza di forme di responsabilità variamente strutturate sotto il profilo della tecnica normativa, con la previsione di prove liberatorie più o meno difficoltose a carico del soggetto asseritamente ritenuto responsabile.

Per concludere in tema di responsabilità civile contrattuale e/o extracontrattuale del gestore che agisca, o meno, anche in veste di organizzatore dell’evento sportivo, ve precisato che:

1) sotto il profilo della natura e della quantificazione del danno, andranno considerati il DANNO PATRIMONIALE (danno emergente e lucro cessante), il DANNO NON PATRMONIALE (danno biologico, danno morale, ulteriori e diversi pregiudizi) che, lo ricordiamo, non è più limitato alle sole ipotesi previste dalla legge, ovvero alla commissione di reati, ma involge ogni valore della persona costituzionalmente garantito, indipendentemente dal fatto che il fatto illecito commesso integri un’ipotesi di reato, la VALUTAZIONE EQUITATIVA DEL DANNO e il FATTO COLPOSO DEL DANNEGGIATO (cfr. art. 2056 c.c. secondo il quale, anche in ipotesi di danno da fatto illecito, il relativo risarcimento è determinato alla luce dell’art. 1223 c.c. -danno emergente e lucro cessante-, dell’art. 1226 c.c. -valutazione equitativa del danno- e dell’art. 1227 c.c. -concorso del fatto colposo del creditore danneggiato) .

Tuttavia, occorre precisare che, qualora si ritenga di inquadrare le richiamate responsabilità c.d. speciali nella fattispecie della responsabilità oggettiva, dovrebbe essere escluso qualsivoglia risarcimento del danno non patrimoniale (cfr. Cass. Civ., sez. III, n. 20814 del 27/10/2004), atteso che in detta ultima ipotesi, a differenza della responsabilità aggravata per colpa presunta, in ambito oggettivo la responsabilità viene fatta gravare in capo ad un soggetto semplicemente in virtù del nesso causale che lo lega all’evento lesivo.

In tal caso, il comportamento del danneggiante non assume alcuna rilevanza, così come la relativa colpa, e tutta la responsabilità si fonda sull’accertata esistenza dell’elemento materiale (condotta, evento e nesso causale);

2) con riferimento al patrimonio su cui il danneggiato potrà trovare soddisfazione ai fini risarcitori, bisogna operare una distinzione.

Avuto riguardo alle società sportive che esercitano attività economica con scopo di lucro (società di calcio professionistico, ad esempio), infatti, la disciplina sarà quella dettata dal codice civile in tema di compagini societarie, mentre, per quelle società sportive che, non avendo fini imprenditoriali, si costituiscono in associazioni sportive, la responsabilità patrimoniale si inciderà sul proprio patrimonio, in maniera diversa, a seconda che esse siano riconosciute (dotate di personalità giuridica e, quindi, di autonoma capacità patrimoniale rispetto ai consociati) o non riconosciute (prive di personalità giuridica, per cui vi è una sorta di identità tra l’ente stesso e i consociati medesimi, e quindi tra i rispettivi patrimoni).

Nel primo caso, infatti, sussistendo al c.d. autonomia patrimoniale perfetta, risponde l’associazione solo con il suo patrimonio (escludendosi da qualsiasi coinvolgimento quello del legale rappresentante o di altri consociati), nel secondo, invece, e solo limitatamente alle obbligazioni contrattuali (art. 38 c.c.), vi è solidarietà tra fondo comune dell’associazione non riconosciuta e patrimonio del legale rappresentante che abbia agito in nome e per conto della persona giuridica rappresentata.

Quid iuris per i fatti illeciti? Poiché si è sempre dibattuto sulla circostanza se, in relazione ad essi, dovesse rispondere, in solido con l’ente rappresentato, anche il legale rappresentante con il suo patrimonio, la giurisprudenza, nel tentativo di comporre la querelle, ha introdotto due forme di responsabilità: diretta e una indiretta.

Ne consegue che l’associazione non riconosciuta sarà ritenuta responsabile nei limiti del proprio fondo comune, sia quando il fatto illecito sia imputabile a chi abbia legalmente agito in nome e per conto di essa (responsabilità diretta), sia quando l’illecito medesimo sia stato perpetrato da suoi ausiliari nell’esercizio dell’attività cui erano preposti (responsabilità indiretta).

Abbiamo rilevato, in precedenza, come una determinata condotta produttiva di danno possa rivestire una duplice valenza, determinando a carico del gestore coinvolto sia una responsabilità per illecito civile che per illecito penale; in questo senso ci si riferisce, in particolare, al profilo dinamico dell’attività di gestione, essenzialmente legato alla concreta disponibilità che altri abbiano dell’impianto e ad eventuali danni da essi subiti.

Tuttavia, non possiamo omettere di considerare, in breve, altri ambiti rispetto a cui potrebbero emergere responsabilità penali in capo al gestore:

A) con riferimento alla commissione di reati societari (gravi irregolarità gestionali), atteso che, ad esempio, gli amministratori di società sportive costituite in forma di società di capitali, hanno gli stesso obblighi e compiti di quelli che operano in altre società svolgenti diversa attività economica;

B) con riferimento alla commissione di reati tributari (tipica ipotesi di emissione di fatture per operazioni inesistenti);

C) con riferimento alla commissione di reati fallimentari (tipica ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale e/o documentale, atti di distrazione del patrimonio, falsificazione delle scritture contabili).

Altra forma di responsabilità penale (di natura contravvenzionale) in cui potrebbe incorrere il gestore, è quella che deriva dalla violazione di norme contenute nel D.Lgs. n. 626/94, successivamente integrato dal D.Lgs. n. 242 del 19/03/1996, mediante il quale sono state recepite nel nostro ordinamento ben 8 direttive comunitarie in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro che impongono al datore di lavoro di organizzare un accurato servizio di prevenzione e protezione, di effettuare la valutazione dei rischi, di realizzare un programma di intervento per ridurre o eliminare i rischi individuati, nonché di informare e formare adeguatamente i dipendenti.

La responsabilità penale discendente dall’inosservanza del D. Lgs. n. 626/94, come modificato dal D.Lgs, n. 242/96, secondo l’orientamento prevalente, può ricadere sui soli gestori che si avvalgono di lavoratori dipendenti o di collaboratori ad essi assimilati e che svolgono attività imprenditoriale (nel senso che offrono il servizio, al quale l’impianto è destinato, al fine di conseguire un profitto).

Vero è, tuttavia, che l’applicazione del D. Lgs. n. 626/94 comporta degli oneri (es. la predisposizione del DOCUMENTO DELLA VALUTAZIONE DEI RISCHI contenente tutta una serie di dati) che, per i gestori di più modeste dimensioni, si rivelano oltremodo gravosi, anche economicamente.

Per tale ragione, il Legislatore ha disposto alcune deroghe per quelle realtà il cui dimensionamento è piuttosto modesto o il cui livello di pericolosità è irrilevante.

In particolare, è prevista l’autocertificazione scritta della valutazione di rischi e degli adempimenti degli obblighi relativi per i centri sportivi sino a 10 addetti, ferma restando la necessità di effettuare, ugualmente, una puntuale e corretta valutazione dei fattori di rischio.

Vi è, inoltre, una responsabilità penale connessa all’organizzazione e alla gestione dei pubblici spettacoli (sportivi) che resta circoscritta, secondo l’opinione più diffusa, ai gestori che assumono la veste di imprenditori gestendo gli spettacoli (sportivi) a pagamento.

Costoro devono previamente ottenere l’autorizzazione del Sindaco del luogo ex art. 666 c.p. (rilascio di licenza per spettacoli o trattenimenti pubblici), la cui mancanza, oggi, costituisce solo illecito amministrativo (depenalizzazione) punito con pena pecuniaria, e devono, inoltre, nella gestione degli spettacoli, osservare tutte le disposizioni normative e le prescrizioni dettate dalle varie Autorità competenti (Commissione pubblici spettacoli, Questore, ecc.) dirette alla tutela della pubblica incolumità.

La loro inosservanza determina l’applicazione della contravvenzione ex art. 681 c.p. (apertura abusiva di luoghi pubblico spettacolo o trattenimento, punita con con l’arresto fino a 6 mesi e l’ammenda non inferiore a € 103,00).

Ad ogni buon conto, secondo altro orientamento, le due forme di responsabilità penale appena richiamate, è ascrivibile anche ai gestori che non svolgano, in maniera prevalente, attività imprenditoriale, per cui è consigliabile che le Società o le Associazioni Sportive che gestiscono impianti sportivi, pur senza essere soggetti imprenditori, si attengano al dettato normativo del D. Lgs. n. 626/94, sempre che si avvalgano di lavoratori dipendenti o di altri collaboratori assimilati e osservino le prescrizioni di cui agli artt.. 666 e 681 c.p., qualora organizzino pubbliche manifestazioni, specie se a pagamento.

Tornando, ora, al binomio responsabilità civile - responsabilità penale, si può assumere che, di solito, in relazione all’attività di gestione degli impianti, accanto alla responsabilità civile (di natura extracontrattuale e/o contrattuale), si manifesta la responsabilità penale per i reati di lesioni colpose o omicidio colposo; e ciò, nei riguardi di qualsiasi gestore, sia che svolga attività d’impresa, sia che operi sul piano della sola attività dilettantistica, sempre che gli eventi di danno si verifichino all’interno dell’impianto o siano intimamente legati alla fruizione del medesimo e, ovviamente, trovino causa in un contegno colposo del gestore o di un suo preposto.

Atteso, però, che la responsabilità penale è personale, essa sarà ascrivibile o al gestore persona fisica singolarmente considerato, oppure, qualora titolare del rapporto di gestione sia una Società o Associazione Sportiva, al legale rappresentante del gruppo associato, al responsabile della conduzione dell’impianto, nonché al collaboratore che abbia posto in essere il comportamento colposo da cui ha avuto origine l’evento di danno (ad esempio, come nel recentissimo caso che ha coinvolto la Juventus per la morte di due giovani calciatori nel centro sportivo Mondo Juve di Vinovo, in relazione al quale risultano indagati, per omicidio colposo, l’A.D. della società, il tecnico che si occupava dell’addestramento tecnico dei due atleti, l’A.D. della società Semana che gestisce l’impianto sportivo, il responsabile del personale).

La menzione del club Juventus, offre lo spunto per analizzare, in breve, una vicenda che lo ha coinvolto alcuni anni orsono, atteso che il Tribunale di Torino, intervenuto a pronunciarsi nell’occasione, ha tratto lo spunto per confermare, ribadendolo, un principio già radicatosi dalla metà degli anni novanta, pur non sorretto da uniformità di vedute, in giurisprudenza e dottrina: quello secondo cui “l’attività di gestione di uno stadio di calcio costituisce attività pericolosa in relazione alla sua stessa natura e per la caratteristiche dei mezzi adoperati”, con la conseguenza che da essa può scaturire la responsabilità ex art. 2050 c.c.. In che termini?

Posto, come già osservato, che un medesimo comportamento contra ius può dare luogo sia a responsabilità civile che penale, si deve, però, tener conto della fonte causale del danno.

Ad esempio, il danno subito da un soggetto che discenda direttamente dall’attività sportiva svolta in quel particolare momento nella struttura, oppure il nocumento che il medesimo subisca a causa di scelte negligenti o imprudenti compiute dall’organizzatore, o ancora, il danno arrecato da altri altri soggetti, come gli spettatori di una manifestazione sportiva, del tutto estranei all’attività di gestione e di organizzazione afferente all’impianto in cui l’evento sportivo ha luogo.

E’ soprattutto in relazione a tale ultima ipotesi che, allora, rileva riscontrare la sussistenza di elementi idonei a far ritenere l’attività di gestione di uno stadio quale esercizio di attività pericolosa.

Cosa si intenda per esercizio di attività pericolosa?

Occorre preliminarmente chiederci se l’attività sportiva sia di per sé pericolosa e se nella nozione di pericolosità rientrino tutte le attività o discipline sportive, o solo alcune di esse.

Evidentemente, solo alcune di esse si possono ritenere fonte di pericolo e di danno (si pensi all’automobilismo che, per sua stessa natura o per i mezzi adoperati, è pericoloso), ma ciò che importa sottolineare è la circostanza per cui il concetto di attività pericolosa non vale ad individuare, immutabilmente e definitivamente, una categoria ben precisa di attività, contemplando esso, piuttosto, anche quelle espressamente previste come tali, e che dunque ricevono un’attribuzione di pericolosità generale dal Legislatore (a titolo esemplificativo, nel T.U.P.S. in altre leggi speciali) o dal giudice il quale, caso per caso, ravvisi in determinate attività la rilevante possibilità che si verifichino dei danni in relazione alla loro stessa natura o alle caratteristiche dei mezzi impiegati.

Invero, é proprio in relazione a questa seconda opzione che sorgono i maggiori dubbi interpretativi, attesa la necessità di formulare, in tali evenienze, un giudizio ex ante (criterio della prognosi postuma), a prescindere dalla gravità ed entità del danno concreto occorso, tenendo presenti le astratte caratteristiche di rischio insite nell’attività presa in considerazione.

In questo senso, allora, non vi è dubbio che le attività sportive, lecite e socialmente utili, pur non apparendo tutte in egual misura pericolose, possano anche generare danni nel corso del loro svolgimento, come nel caso in cui sia la medesima società sportiva (soggetto gestore dell’impianto) a organizzare una gara o una manifestazione sportiva, con evidenti riflessi in tema di ordine pubblico.

La società, allora, indipendentemente dalla responsabilità del funzionario preposto alla tutela dell’ordine pubblico (Autorità di P.S.), deve comunque attivarsi al fine di prevenire, ed evitare, danni o incidenti a persone e/o cose.

Né, del resto, quegli obblighi potrebbero venire meno sol perché l’Autorità di P.S., qualora ravvisi una situazione di pericolo per la pubblica incolumità, abbia il potere di ordinare la sospensione dell’evento sportivo, atteso che essa agisce e opera non già per sostituirsi all’organizzatore (gestore) nell’adempimento degli obblighi che egli assume nei confronti degli spettatori, ma senza dubbio al di fuori del particolare rapporto giuridico che si instaura tra spettatore e società di calcio, nel nostro caso, con l’acquisto del biglietto.

Con particolare riguardo alla gestione degli stadi e all’organizzazione di una partita di calcio di livello professionistico, l’applicazione dell’art. 2050 c.c. è stata motivata, come vedremo, considerando che la pericolosità può essere desunta sia dalla normativa concernente l’organizzazione delle manifestazioni sportive professionistiche, basata proprio sull’evidenza dell’estrema pericolosità, sia dalla possibilità di incidenti, alcuni anche mortali, che troppo spesso si sono verificati nell’ambito di tali manifestazioni, anche all’esterno degli impianti utilizzati.

Per tutti, si ricordi il recente dramma legato alla morte del Dott. Filippo Raciti (Ispettore della Polizia di Stato) nel corso dei tafferugli occorsi in occasione del derby Catania-Palermo del 2 febbraio 2007.

Tornando al tema che ci occupa, dunque, si può affermare che, qualora il pericolo sorga a causa del comportamento colposo dell’uomo nell’esercizio dell’attività, la persona lesa sarà tutelata ex art. 2043 c.c., ovvero nell’ambito del generale obbligo di protezione previsto dalla legge.

Il tema è quantomai delicato, proprio perché, come osservato nella parte iniziale dell’intervento, ricorrendo una delle ipotesi di responsabilità speciali, in particolare quella ex art. 2050 c.c., tanto per non discostarci dalla fattispecie in argomento, solo la dimostrazione di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il nocumento, esonererà la società sportiva (gestore) da qualsivoglia forma di responsabilità.

A tal proposito, si ritiene utile segnalare due fattispecie che, con particolare riguardo alla figura del gestore dell’impianto sportivo che sia anche organizzatore dell’evento, risultano di un certo interesse.

CASO JUVENTUS (Trib. To, 11/01/2004)

Ebbene, durante la gara di Campionato di serie A Juventus-Roma del 06/05/2001 (Stadio delle Alpi), un tifoso romanista, giunto a Torino con un pullman, veniva colpito da un fumogeno lanciato da un sostenitore juventino all’interno della struttura.

Il romanista, nel tentativo di allontanare l’oggetto, riportava la grave lesione di un arto, con amputazione di un dito e gravi danni alle altre dita, a causa dell’esplosione dell’ordigno fumogeno.

Promosso giudizio civile contro la società Juventus, nella sua qualità di soggetto gestore e organizzatore dell’incontro, il Tribunale di Torino accoglieva la domanda interposta dal fan capitolino, affermando la responsabilità del club per non avere evitato il danno, con conseguente condanna al relativo risarcimento in favore del tifoso ferito.

Nello specifico, l’organo giudicante ha ritenuto che l’evento occorso in danno di questi dovesse essere valutato proprio alla stregua del principio di cui all’art. 2050 c.c..

Il tifoso romanista è riuscito a dimostrare la pericolosità dell’attività svolta dalla Juventus, la cui potenzialità dannosa è stata appurata, da parte del Tribunale di Torino, secondo un criterio di media normalità, desunta alla luce di dati statistici ed elementi tecnici, in base alle norme di comune esperienza.

In definitiva, il giudice torinese ha stabilito che intanto l’attività va qualificata come pericolosa, in quanto, statisticamente, cagioni ripetuti incidenti o minacci di cagionarne di molto gravi; in tal senso, è stata operata una valutazione di regolarità statistica circa il fatto che, in presenza di manifestazioni calcistiche, vi sia la probabilità che lanci di ordigni fumogeni provochino lesioni a terzi, tanto più avuto riguardo a quello stadio torinese, privo, secondo il giudice, delle dotazioni tecniche sufficienti atte a scongiurare il verificarsi di simili episodi.

Pertanto, addirittura, il club -ed è questo il fondamento della decisione assunta- avrebbe dovuto disputare la gara in altro stadio, attesa l’insussistenza di alcun vincolo, da parte della Juventus, a giocare le gare interne al “delle Alpi”, la cui concessione veniva, di volta in volta acquisita.

Il mancato svolgimento del match in altro impianto, unitamente all’assenza di un sufficiente livello di sicurezza -sempre secondo il Tribunale di Torino-, aveva reso l’evento prevedibile, dunque evitabile mediante la predisposizione di misure appropriate. La Juventus, però, non aveva fornito la prova di un adeguato intervento in tal senso, funzionalmente orientato ad evitare il danno subito dallo sportivo.

Non si può omettere di considerare, tuttavia, che la gestione e il collocamento, in adeguati spazi, di diecimila tifosi romanisti, dei quali quattromila sprovvisti di biglietto, avrebbe costituito compito arduo con riferimento a qualunque altro stadio italiano.

Invero, diversamente ragionando, il Tribunale di Torino non sarebbe riuscito nell’intento di tutelare adeguatamente la posizione del danneggiato, per cui, pur di raggiungere lo scopo, ha ritenuto opportuno condannare la Juventus per non aver provato la predisposizione delle idonee misure di cautela richieste.

Nei termini di cui sopra, però, la prova diventa davvero diabolica, atteso che ogni stadio di calcio, per quanto sicuro e ben controllato, in fattispecie simili alla nostra, risulterebbe inevitabilmente inadeguato, risultando oltremodo arduo escludere la responsabilità del club calcistico e il relativo obbligo risarcitorio nei riguardi di uno spettatore che abbia subito un danno.

Vero è che la previsione di una prova liberatoria così onerosa tende a salvaguardare interessi che, altrimenti, rischierebbero di rimanere privi di tutela, ma nemmeno si può pensare di estendere la fattispecie di danno risarcibile ad ogni costo.

Inoltre -ma tale profilo non è stato tempestivamente dedotto in giudizio dal tifoso che aveva promosso l’azione civile-, si può affermare, con buon grado di ragionevolezza, che in capo alla Juventus avrebbe potuto essere anche ascritta una responsabilità di natura contrattuale.

Infatti “la vendita del biglietto include certamente il dovere di adottare tutte le misure idonee ad assicurare l’incolumità degli spettatori” (Trib. Mi, 1988 e C. App. Mi, 1990).

Con la vendita del ticket, in altri termini, la società sportiva si obbliga anche a tutelare l’integrità fisica degli spettatori paganti, dovendo approntare ogni necessario controllo agli ingressi e sugli spalti per scongiurare l’introduzione di oggetti idonei ad offendere, ovvero tutti quegli accorgimenti richiesti dalla norma speciale di illecito extracontrattuale; in caso contrario il club si sottrarrebbe anche ai propri doveri contrattuali e sarebbe senz’altro ritenuto responsabile nei termini di cui in precedenza.

CASO GIAMPA’

Una forma di responsabilità, quella di cui al citato art. 2050 c.c., che potrebbe essere invocata anche in relazione ad un episodio occorso di recente, peraltro, senza precedenti.

Mi riferisco alla vicenda del calciatore Giampà (all’epoca dei fatti tesserato in forza al Messina) il quale, nel corso della gara Messina-Lecce (ottobre 2004), finiva su un cartellone pubblicitario (del genere rotativo che modifica il messaggio pubblicitario a brevi cadenze temporali), posizionato a bordo campo, riportando la recisione del muscolo mediale della coscia sinistra causata da un ferro sporgente dal medesimo cartellone. A seguito dell’incidente, venivano applicati ben 147 punti di sutura alla ferita.

Orbene, per quanto concerne la disposizione dei “rotors” all’interno di uno stadio, i regolamenti federali di settore prescrivono che i cartelli devono essere posti ad una distanza di 2,5 m dalla linea di demarcazione del terreno di gioco.

E’ evidente, però, che detta previsione endoassociativa non può derogare ai principi di cautela e di salvaguardia posti a tutela dell’incolumità degli atleti, per cui non é sufficiente il rispetto della prescritta distanza al fine di potersi ritenere che sia stata approntata ogni più idonea misura ad evitare il danno.

Del resto, i regolamenti federali sono atti di autonomia privata attraverso cui si manifesta un potere di autonormazione del settore sportivo la cui portata è assolutamente circoscritta alla regolamentazione del medesimo settore, mentre, qualora si verta in ambito di rapporti intersoggettivi e situazioni giuridiche attive dei privati, non può che soccorrere l’ordinamento giuridico statale.

Più chiaramente, il regolamento che promana dall’ordinamento sportivo è efficace e vincolante per l’attività sportiva, ma non può incidere sui profili connessi a detta attività se, come nel caso di specie, il danno è stato cagionato da circostanze che dallo sport hanno tratto solo l’occasione ai fini dell’esecuzione di un contratto il cui oggetto e la cui causa appartengono a tutt’altra fattispecie.

In questo senso, inoltre, agli effetti scriminanti in punto di responsabilità, non è nemmeno possibile invocare il principio del c.d. rischio consentito (per cui il giocatore, consapevole di poter incorrere in un infortunio di gioco durante la gara, ne accetta le relative conseguenze), che, invece, é strettamente legato allo svolgimento dell’attività sportiva, e di certo non vi è alcun nesso tra essa e lo sfruttamento dell’evento sportivo come veicolo del messaggio pubblicitario divulgato mediante un cartello posto a bordo campo.

In definitiva, nel nostro caso, non può non individuarsi una responsabilità civile, ex art. 2050 c.c., del club (Messina) a fronte del danno subito dal proprio tesserato, per omessa vigilanza sul corretto posizionamento del supporto pubblicitario, nonché per omessa adozione delle misure di sicurezza necessarie a rendere l’insidia del ferro sporgente, visibile e prevedibile.

Peraltro, sempre con riferimento al caso in esame, non sarebbe fuori luogo invocare l’art. 2051 c.c. (responsabilità di cose in custodia), posto che il cartello, proprio in quanto collocato all’interno dello stadio, avrebbe dovuto essere costantemente monitorato dal soggetto-custode.

La propria responsabilità potrebbe venire meno solo in presenza del c.d. caso fortuito, ma non sembra potersene individuare traccia alcuna nella nostra fattispecie, per cui, di certo, è ipotizzabile una responsabilità anche in relazione all’art. 2051 c.c..

Inoltre, la responsabilità della società organizzatrice dell’evento, sempre con riferimento al caso Giampà, potrebbe risultare, in qualche modo, mitigata, da un giudizio di responsabilità diretto, in via concorrente, nei riguardi del produttore del cartellone pubblicitario, sia quale responsabile della sicurezza del prodotto (D. Lgs. n. 115/95), sia come produttore sic et simpliciter (D.P.R. n. 224/88), nonché nei riguardi dell’arbitro, nel cui potere-dovere di garantire il corretto svolgimento della gara rientra anche quello della verifica circa la conformità delle attrezzature, del terreno di gioco e di quanto si pone con esso in rapporto pertinenziale.

In questo senso egli esercita, se non proprio la funzione di pubblico ufficiale, certamente quella di interesse pubblico.

Per mera completezza espositiva, faccio solo osservare come, ad esempio, sia stata individuata la responsabilità extracontrattuale di un maestro di tennis che, nel generale programma di addestramento degli allievi di una Scuola di Addestramento Tennis (S.A.T.), aveva disposto un allenamento da svolgersi lungo un sentiero in discesa e dal fondo scivoloso, e, nell’occasione, una bambina di 12 anni era caduta a terra scivolando, con conseguente trauma agli arti inferiori.

In che senso, allora, ai fini risarcitori, l’organizzazione di un programma di allenamento è assimilabile a quella di un evento sportivo?

Lo ha chiarito, mirabilmente, la Suprema Corte (Cass. Civ., sez. III, n. 5136/03) assumendo che la bambina danneggiata era stata iscritta ai corsi tenuti della S.A.T. a seguito della pubblicizzazione dell’egida della F.I.T. (Federazione Italiana Tennis), dunque, con affidamento alle particolari garanzie di efficienza e sicurezza offerte nel caso specifico, per cui, proprio detta circostanza, avrebbe dovuto determinare, in capo all’allenatore (responsabile della seduta di training) una particolare diligenza nella scelta dei luoghi, soprattutto tenendo conto della giovane età degli atleti.