La riduzione del numero dei parlamentari: un bene o un male per la rappresentatività?

Parlamentari
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Abstract

L’articolo analizza la legge costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari e le conseguenze che essa potrebbe avere sul principio di rappresentatività nel caso in cui non si apportassero i giusti adeguamenti.

The article analyzes the reform of the number of parliamentarians and its consequences in case of victory in the referendum.

 

Indice:

1. Introduzione

2. La legge costituzionale C. 1585 in materia di riduzione del numero dei parlamentari

3. Aspetti problematici della riforma alla luce della legge 27 maggio 2019, n. 51: gli effetti di ordine sociale, costituzionale e regolamentare

4. Conclusioni

 

1. Introduzione

L’approvazione da parte del Parlamento del decreto-legge “Cura Italia” contenente, tra l’altro “l’election day” (accorpamento in un solo giorno delle elezioni amministrative, regionali e referendum costituzionale), impone la necessità di approfondire l’oggetto referendario, la cui “inadeguata informazione” (Agcom) rischia di disincentivare i cittadini ad andare all’appuntamento referendario o di votare pro o contro il Governo.

I numerosi dibattiti, nonché i disegni di legge di modifica del Parlamento proposti nel corso della storia repubblicana hanno contribuito alla formazione di una vasta opinione pubblica che, da anni, è favorevole ad una riduzione del numero dei parlamentari, considerando eccessivo ed ingiustificato per il nostro sistema politico costituzionale l’essere rappresentati da quasi mille parlamentari.

Questo pensiero, naturalmente, da tempo è corroborato – non senza un qualche argomento, sia chiaro – da un sistema mediatico abile nel radicare questo tema nelle pieghe più profonde della nostra società, alimentando quell’idea di casta e di privilegi, e con essa uno spirito antiparlamentarista oltre che antipolitico: fatto pericoloso, a maggior ragione in un Paese che vede fasce della popolazione sempre più caratterizzarsi per un analfabetismo funzionale di ritorno e per lasciar prevalere le emozioni alle ragioni, soprattutto nei momenti elettorali.

 

2. La legge costituzionale C. 1585 in materia di riduzione del numero dei parlamentari

Entrando nel merito della legge “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, in caso di vittoria referendaria si assisterebbe ad una riduzione del 36,5% degli attuali componenti elettivi: il numero dei deputati passerebbe da 630 a 400, con un deputato eletto ogni 151.210 abitanti mentre, con la revisione dell’articolo 57, il numero dei senatori verrebbe abbassato da 315 a 200, con un senatore eletto ogni 302.420 abitanti.

La proposta di legge si occupa poi di definire una questione che, come noto, è stata in passato oggetto di applicazioni ed interpretazioni non uniformi: si tratta dell’articolo 59 Cost., al cui secondo comma verrebbe aggiunta la previsione secondo cui «il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque[1]».

La riforma taglia ovviamente di un terzo il numero complessivo dei parlamentari della Circoscrizione Estero che passano da 12 a 8 per la Camera e da 6 a 4 per il Senato, sulla cui esistenza il confronto politico non si è mai sopito: soprattutto a seguito dell’approvazione della riforma risulta evidente che la riduzione di numero aumenti ulteriormente la scarsa rappresentatività.

Da ultimo, l’articolo 4 del provvedimento prevede l’entrata in vigore della riforma già dalla prossima Legislatura, cioè a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale.

È doveroso sottolineare che il progetto di revisione costituzionale, salutato come un momento storico e di conclusione di un lungo iter anche di carattere storico e politico, rappresenta, invece, un punto di partenza che delinea problematiche e necessita dell’attuazione di idonei adeguamenti una volta esaurito il carico emotivo e il carattere contingente che hanno portato all’approvazione dello stesso.

Prima di analizzare gli effetti della riforma è fondamentale fare una riflessione preliminare sul rapporto cittadini/parlamentari in chiave comparata con gli altri Stati europei.

Limitiamoci alla comparazione tra le assemblee parlamentari dei Paesi che appartengono alla stessa “famiglia” di sistemi di governo e, laddove possibile, che adottano sistemi elettorali analoghi (sulla base dei dati forniti dal Servizio Studi della Camera dei Deputati): Italia, Germania, Francia e Regno Unito. La comparazione volge l’attenzione alle Camere “basse” che a differenza delle Camera “alte”, la cui composizione e funzione è disciplinata diversamente da ogni singolo Stato, sono assemblee elettive.

Con la conferma referendaria della riforma l’Italia, escludendo il Regno Unito uscito dall’Unione europea, passerebbe dall’essere il secondo Paese per numero di parlamentari all’ultimo di questa classifica[2].

Attualmente la nostra Camera dei Deputati costa per ogni giorno di seduta, sia dell’Aula sia delle Commissioni, 4.763.429,96 di euro, preceduta soltanto dal Bundestag tedesco (8.350.420,29 di euro). Di conseguenza c’è stata una grande enfasi sulla riduzione dei costi della politica sia in termini di indennità, diaria e vitalizi sia in termini di riduzioni dei costi del processo decisionale in sé considerato, sia sull’impatto macroeconomico/finanziario delle decisioni stesse.

Tuttavia una ricerca sui costi della democrazia non può soffermarsi sul dato meramente quantitativo, in quanto si rischierebbe di cadere nella demagogia. Bisogna, infatti, prendere in considerazione molteplici fattori tra i quali la qualità del lavoro svolto dai Parlamenti. 

Il nostro Parlamento, con l’evoluzione dei relativi regolamenti che hanno permesso lo sviluppo di funzioni nuove rispetto a quella legislativa (funzioni di indirizzo politico, di controllo, di garanzia costituzionale), si presenta come un organo fortemente “interventista” rispetto ad altri consessi europei come quello del Regno Unito (dove più incisiva è l’azione del Primo Ministro, che ormai è il capo del Governo e non un primus inter pares).

L’espletamento di queste funzioni spiega la presenza presso la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica di qualificati apparati di supporto tecnico e di documentazione (consiglieri parlamentari, archivisti), in posizione di imparzialità rispetto all’indirizzo politico.

Si pensi poi alla funzione delle strutture incaricate del controllo sulla qualità degli atti normativi, che ha visto la creazione di appositi servizi per la redazione degli atti normativi o, più sinteticamente drafting.

Questi apparati (amministrazioni parlamentari) sono costituiti da personale reclutato esclusivamente attraverso pubblici concorsi, diversamente dalle altre grandi democrazie europee dove i membri degli apparti parlamentari sono anche staff members dei politici. 

Alla luce di ciò la ricerca sui costi di funzionamento andrebbe fatta distinguendo attentamente le risorse impiegate per la qualità dei servizi prestati, da quelle che giustamente dovrebbero essere eliminate perché non essenziali per il “sostentamento della democrazia”.

Con il disegno di legge approvato l’8 ottobre 2019 e conclusi i passaggi del referendum costituzionale e della promulgazione il nostro Paese, inoltre, si avrebbe il più alto rapporto tra deputati e cittadini per quanto riguarda le Camere “basse”, risultando la meno rappresentativa anche rispetto a quelle dei Paesi fuori dall’Eurozona.

La maggiore distanza tra rappresentanti e rappresentati crea, dunque, una delicata problematica sociale e apre ad una serie di riflessioni sugli altri ambiti (costituzionali e ordinamentali) toccati dalla riforma. Problema questo che insieme alla costante sfiducia nei partiti mina sostanzialmente le basi della democrazia rappresentativa.

 

3. Aspetti problematici della riforma alla luce della legge 27 maggio 2019, n. 51: gli effetti di ordine sociale, costituzionale e regolamentare

La rappresentatività, il rapporto tra parlamentari e cittadini costituisce l’essenza stessa della nostra democrazia che, alla luce della riforma, risulta essere una questione della massima rilevanza in quanto oggetto della legge 27 maggio 2019 n. 51 (“Disposizioni per assicurare l’applicabilità delle leggi elettorali indipendentemente dal numero dei parlamentari”).

Tale legge evitando di modificare esplicitamente l’attuale legge elettorale n. 165 del 2017 (cd. Rosatellum), nonché il decreto legislativo n. 189 del 2017 contenente la disciplina relativa ai collegi uninominale e plurinominali, parte dal presupposto che la base numerico-dimensionale del rapporto tra eletti ed elettori, così come scaturito in concreto dalla legge elettorale, rappresenti un elemento che prescinda dalla legge elettorale stessa.

Attraverso un’operazione ragionieristica, la legge sostituisce al numero fisso di collegi uninominali della Camera e del Senato, un rapporto numerico, ossia i tre ottavi del totale dei seggi da eleggere nelle circoscrizioni elettorali, che corrisponde all’attuale percentuale, il 37%, del peso dei seggi uninominali, appunto, tra Camera e Senato, rispetto al numero totale dei seggi totali a disposizione.

In tal modo il sistema elettorale potrà trovare applicazione indipendentemente dal numero dei parlamentari in modo che non si rendano necessarie modifiche alla normativa elettorale qualora il numero degli stessi dovesse essere modificato con riforma costituzionale. Ma alla luce della riduzione dei seggi, quest’operazione altera il principio della rappresentanza e quindi la formazione del rapporto tra eletti ed elettori; formazione che avviene nelle fasi precedenti e successive alla campagna elettorale.

Prescindendo dal fatto che più basso è il numero dei possibili eletti più la distanza tra candidati e territori è destinata ad aumentare e con essa aumenterebbero anche i costi delle spese elettorali al fine di coprire la maggiore ampiezza delle circoscrizioni elettorali (inoltre i candidati avrebbero minori opportunità di raccogliere le istanze degli elettori, condividere con questi la propria visione della cosa pubblica), nella fase elettorale la principale criticità va ricercata nella necessità di unire all’interno di un’unica circoscrizione territori estremamente eterogenei o, al contrario, di dividere territori omogenei per integrarli in circoscrizioni più ampie.

Ne potrebbe seguire una minore o totale assenza di rappresentanza di realtà territoriali anche significative, con i centri più abitati che sarebbero maggiormente rappresentati rispetto alle aree interne del Paese, demograficamente meno popolate, e per questo impossibilitate ad avere collegamenti politici.

L’effetto a lungo termine potrebbe essere anche in questo caso la difficoltà per gli eletti di tener conto delle richieste degli elettori e di rendere conto a questi del proprio operato. Il Parlamento rischierebbe di essere nuovamente percepito come un’istituzione lontana dai cittadini, affievolendosi come simbolo della rappresentanza. Si impone, dunque, la necessità di ridurre il numero dei collegi elettorali e in modo tale da dispiegare i suoi effetti al momento di applicazione della nuova disciplina costituzionale di riduzione del numero dei parlamentari.

Con questa riduzione del numero dei parlamentari si dovrà procedere, necessariamente, ad un intervento sui regolamenti parlamentari[3]. Intervento che riguarderebbe la ridefinizione di tutti i quorum previsti dai regolamenti per ciascuna votazione e la formazione e strutturazione delle Commissioni permanenti e dei Gruppi parlamentari (la cui disciplina è stata resa più rigorosa dal Regolamento del Senato in materia di mobilità).

Una considerazione particolare merita il problema della ripartizione dei componenti di un Gruppo parlamentare con un numero esiguo di membri fra le Commissioni parlamentari permanenti: infatti se il numero attuale delle Commissioni, 14, rimanesse invariato, non tutti i gruppi (specie quelli piccoli quali ad esempio quelli “in deroga” o autorizzati e le componenti politiche del Gruppo misto) riuscirebbero ad essere rappresentati nelle Commissioni stesse.

Mentre al Senato è previsto dall’articolo 21, comma 2 del Regolamento che uno stesso senatore possa essere assegnato a tre Commissioni permanenti, cosicché la riduzione dei numeri parlamentari non comprometterà, potenzialmente, la presenza delle minoranze nelle Commissioni, alla Camera i deputati non possono essere designati per più di una Commissione (articolo 19, comma 3 Regolamento parlamentare) verificandosi così il rischio che le minoranze non possano partecipare a tutte le Commissioni permanenti, espletando le loro funzioni di caratteri ispettivo e di controllo.

Riducendo i seggi di entrambe le assemblee parlamentari bisognerà riscrivere anche la composizione del collegio dei “Grandi elettori” per l’elezione del Presidente della Repubblica.

L’attuale articolo 83 Cost. prevede un numero di votanti pari a 1.003 elettori (630 deputati, 315 senatori, i senatori a vita e ex-Presidenti della Repubblica, cui si aggiungono i tre delegati eletti da ciascun Consiglio regionale ad eccezione della Valle d’Aosta che ne esprime solo uno) ma con la composizione del nuovo collegio (658 grandi elettori) sia i delegati regionali sia i senatori a vita di nomina presidenziale che gli ex-Presidenti della Repubblica avranno un peso elettorale maggiore, creando inevitabili strascichi politici sulla necessità di considerare tali soggetti all’interno del collegio presidenziale, dal momento che i primi più che rappresentare i territori locali si adeguerebbero alle decisioni dei parlamentari colleghi di partito, mentre il peso politico dei secondi (soprattutto nei casi di questioni di fiducia) contribuirebbe ad alimentare le critiche nei confronti di un istituto osteggiato a causa della natura della sua legittimazione.

Non secondario sarebbe, infine, la questione dei portatori d’interesse (o lobbying). La riduzione del numero dei parlamentari, aumentandone la autorevolezza e la capacità di azione, può avere un effetto di contrasto alle manovre delle lobby e di aumento della trasparenza delle zone grigie della vita parlamentare e dei rapporti col Governo. Tale azione potrebbe risultare efficace soltanto se vi sarà una normazione sull’azione dei gruppi di pressione (Ronga U. (2018), La legislazione negoziata. Autonomia e regolazione nei processi di decisione politica, Editoriale Scientifica).

 

4. Conclusioni

Dall’analisi degli effetti della riforma è chiaro che la sola riduzione del numero dei parlamentari non è sufficiente a rendere l’ordinamento più efficiente nella sua struttura e nell’assunzione delle decisioni.

Essa, infatti, seppur non inserita in un’organica revisione della Costituzione, delinea l’inizio di nuovi dibattiti e confronti sulle altre proposte di modifica degli organi costituzionali, procedendo agli “adeguamenti” della Costituzione formale ai cambiamenti di quella materiale.

 

[1]  In tal senso la proposta mira a risolvere l’antico nodo interpretativo, innanzitutto, intorno ai senatori a vita ex articolo 59 della Costituzione, basato sul fatto se il numero di cinque senatori di nomina presidenziale sia chiuso, cioè il massimo dei senatori di nomina presidenziale, oppure, al contrario, se ciascun Presidente della Repubblica possa nominarne cinque, prassi peraltro seguita soltanto due Presidenti della Repubblica (Pertini e Cossiga). Peraltro, come sottolinea attentamente Salvatore Curreri, il ruolo che verrebbero ad assumere i cinque senatori a vita di nomina presidenziale, ad esempio, sarebbe tuttavia molto accresciuto tenuto conto del «peso che i senatori a vita hanno avuto in certe legislature ai fini del mantenimento della maggioranza di Governo».

[2] Repubblica Federale Tedesca 709 deputati; Repubblica Francese 577; Repubblica Italiana 400. Si ricordi che in Germania il numero dei parlamentari è una variabile libera che si applica a partire da un numero minimo prefissato di parlamentari e che dipende dall’esito elettorale, potendo determinare seggi c.d. “soprannumerari”.

[3] È doveroso ricordare che il regolamento del Senato è stato modificato organicamente alla fine della XVII Legislatura.  Atto Senato Doc. II, n. 38/XVII, d’iniziativa della Giunta per il Regolamento e recante «Riforma organica del Regolamento del Senato», comunicato alla Presidenza il 14 novembre 2017 ed approvato dal Senato, con modificazioni, il 20 dicembre 2017.