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La Corte costituzionale dichiara l’inammissibilità del referendum concernente la sostanziale abrogazione dell’art. 579 del Codice penale

Un cenno su nuove e vecchie illusioni, su vecchie e nuove contraddizioni
Referendum 2022
Referendum 2022

La Corte costituzionale dichiara l’inammissibilità del referendum concernente la sostanziale abrogazione dell’art. 579 del Codice penale


Come è noto il 2 Marzo scorso è stata depositata e pubblicata in Gazzetta ufficiale la Sentenza della Corte costituzionale № 50/2022. La relativa pronunzia – anticipata con un laconico comunicato stampa – è del 15 Febbraio, essendo Presidente Giuliano Amato e Giudice relatore Franco Modugno, poi redattore della Sentenza.

La decisione in parola mette capo, almeno sotto il profilo procedurale, alla dibattuta questione concernente l’ammissibilità del referendum sull’abrogazione del reato di omicidio del consenziente.

Ciò significa che il thema decidendum della Sentenza de qua non concerne, se non in forma del tutto indiretta e parziale, la legittimità costituzionale della norma che lo prevede, ovverosia la perfetta coerenza di questa norma coll’Ordinamento nel quale essa è inserita.

Che poi si possano pur arguire, dalla mentovata pronunzia, valutazioni anche in merito a siffatti aspetti sostanziali, esso è un discorso differente.

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La proposta referendaria, invero, avrebbe voluto espungere dall’Ordinamento vigente ogni forma di incriminazione dell’omicidio qualora esso fosse stato liberamente chiesto e voluto per sé dall’interessato, indifferente essendo il modo, il tempo, le condizioni soggettive dello stesso, le qualità o le competenze dell’agente. Cose che effettivamente sono indifferenti sotto il profilo logico e ontologico, anche se la Corte parrebb’essere di diverso avviso…

In altri termini, e più chiaramente, la proposta referendaria in parola perseguiva l’obiettivo di eliminare – stravolgendo in parte qua la ratio stessa del Codice penale, e anche alcuni aspetti applicativi che ne sono connessi – ogni forma di tutela (penale) indisponibile della vita umana: la vita umana, infatti, nella prospettiva del referendum, non avrebbe più dovuto essere considerata bene giuridico assoluto, bene giuridico in sé, bene, dunque, cui l’Ordinamento deve o dovrebbe accordare una tutela forte e indisponibile; quanto piuttosto essa stessa avrebbe dovuto essere relegata al rango di bene giuridico… relativo, vale a dire che essa stessa avrebbe dovuto essere relegata al rango di bene giuridico il quale sarebbe sì da considerarsi un bene meritevole di protezione giuridico-penale, ma solo nella misura nella quale il suo titolare lo consideri in tale guisa e intenda in tale guisa tutelarlo e chiederne tutela all’Ordinamento.

La vita umana, insomma – questo lo scopo del referendum in parola – dovrebb’essere considerata, come proponeva Locke, per esempio, uno dei «tanti» oggetti «di» proprietà, e come tale essa dovrebb’essere (secondo la concezione illuministica) assolutamente disponibile: eliminabile, rinunziabile, commerciabile, danneggiabile, risarcibile et similia.

Una chiosa. Il riferimento testé fatto al diritto di proprietà, invero, pur efficace per semplificare il discorso, sarebbe ancora improprio – diremo – per deficienza strutturale: legibus sic stantibus, infatti, non tutti gli oggetti di proprietà, non tutti i beni materiali e immateriali che rientrano nella dominicale titolarità d’un soggetto, sono essi assolutamente disponibili, né la di loro disponibilità è rimessa sic et simpliciter al libero volere (e al libero capriccio) del loro titolare. Il riferimento alla proprietà immobiliare, per esempio, e ai limiti che essa subisce anche per effetto dei Piani regolatori è illuminante sotto questo rispetto.

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La proposta referendaria, comunque – questo dev’essere subito chiarito, al di là di ogni possibile considerazione e illusione – si poneva e si pone in regime di perfetta coerenza e continuità rispetto alla rettorica dell’assoluta autodeterminazione di sé accolta, applicata, e propugnata dalla Giurisprudenza della stessa Corte costituzionale e dalla Legislazione repubblicana degli ultimi decenni, sovrattutto in materia biogiuridica, oltreché dalle copiose pronunzie della Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo relativamente all’art. 8 C.E.D.U..

Invero, oltre al grande tema del c.d. diritto all’autodeterminazione, se si voglia considerare, per esempio, la natura e la conformazione normativo-legale dei cc.dd. nuovi diritti – argomenti sui quali abbiamo già avuto modo di soffermarci a lungo (cfr. R. Di Marco, Diritto e “nuovi” diritti, Torino, Giappichelli, 2021) – si potrà agevolmente intendere, ictu oculi, la portata e la complessità dei problemi sottostanti.

Il tema dell’autodeterminazione, infatti, non può essere ridotto all’anarchia individuale, alla libertà negativa di agire a capriccio, libertà peraltro impossibile in e per qualsiasi tipologia di Sistema normativo. La libertà negativa che consentono i cc.dd. diritti di e alla autodeterminazione del velle, all’opposto, è anarco-istituzionale: essa, cioè, è sì libertà dalla norma e dalla regola, e in questo senso anarchica; ma essa stessa non è affatto superiorità o indipendenza rispetto alla norma medesima, cioè rispetto alla legge che la legalizza.

La libertà negativa che consentono i cc.dd. diritti di e alla autodeterminazione del velle, al contrario, è istituzionale e istituzionalizzata: la libertà negativa che i «diritti» in parola consentono, infatti, è sempre e necessariamente… libertà legale, cioè essa è sempre e necessariamente libertà che la legge consente attraverso un atto di rinunzia alla normazione interna e attraverso la conformazione estrinseca di confini invalicabili.

I diritti in parola, dunque, altro non sono, se non diritti soggettivi in senso «tecnico», vale a dire facultates agendi ex normis agendi, per quanto – ed è questo l’aspetto proprio del contesto liberale di riferimento – i diritti medesimi siano da considerarsi in realtà «spazii» nei quali operare secundum eventum voluntatis. Sul punto è chiarissima la lezione di Danilo Castellano (D. Castellano, Introduzione alla filosofia della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020).

Con terminologia più propria, potremmo dire che si tratta di una libertà estrinsecantesi nell’assenza di criterii, ma non affatto orba di limiti; di una libertà che pretende di asservire a sé l’Ordinamento, ma che non può (e non vuole) rinunziarvi.

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Un tanto, allora, evidentemente, consente e impone una actio finium regundorum in ordine alla portata concettuale della Sentenza stessa. Un tanto, cioè, richiede di «leggere» la chiusura della Corte rispetto al quesito referendario sotto una prospettiva ben definita… Il problema – absit iniuria verbis – è assai più amplio e assai più complesso di quanto il Giudice costituzionale faccia sbrigativamente emergere tra i righi della sua sentenza.

La proposta referendaria, in realtà, per quanto «ardita», e per quanto formulata in modo che appare «dilettantistico», senza una contezza neanche minima della grammatica legislativa – essa, come meglio vedremo in appresso, nemmeno risponde alle finalità dichiarate in atti dai medesimi promotori (e la cosa non è sfuggita nemmeno al Giudice…) –, non è affatto aliena alla Weltanschauung dell’Ordinamento costituzionale vigente, se mai essa stessa ne applica in modo radicale i postulati teorici, forse anticipando i tempi, o, come si dice, correndo troppo, ma non certo in una direzione opposta.

Amicus Plato, sed magis amica veritas

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Ritorniamo alla pronunzia del 15 Febbraio scorso: si tratta di una Sentenza, pur breve, ma dalla lettura non facile, a meno, ovviamente, di appiattirsi sul suo stesso disposto senza porre domande e questioni… politicamente scorrette.

La mentovata Sentenza, invero, ha due anime.

Da un lato, dal lato tecnico-formale, essa può considerarsi e deve considerarsi sostanzialmente autoreferenziale: essa, cioè, è costruita e si costruisce nel suo impianto argomentativo sulla precedente Giurisprudenza della medesima Corte, risultando non così aderente al dato normativo-oggettivo a presidio del quale la Corte stessa è istituita e sarebbe chiamata.

Viceversa, da un altro lato, dal lato sostanziale, essa stessa può considerarsi, oppostamente, limitativa rispetto alla radicale e compiuta realizzazione delle rationes che stanno alla base e della Costituzione, particolarmente dell’art. 2 cost., e del c.d. principio di autodeterminazione elaborato, consolidatosi e fatto proprio dalla stessa Giurisprudenza costituzionale precedente; poi condensato in molta parte della «nuova» legislazione, nei cc.dd. nuovi diritti di libertà, in primis nei cc.dd. diritti civili.

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In questa sede ci limitiamo a considerare brevemente tre soli aspetti, tralasceremo ogn’altra considerazione.

In primo luogo α giova vagliare la base formale sulla quale la Corte costruisce la tesi dell’inammissibilità referendaria.

In secondo luogo β giova considerare la lettura fatta dalla Corte in ordine alla norma considerata, ovverosia in ordine al citato art. 579 c.p., nonché, correlativamente, in ordine all’eventuale abrogazione della stessa, vale a dire in ordine agl’esiti cui l’Ordinamento sarebbe pervenuto qualora il referendum avesse determinato effettivamente l’abrogazione della norma in narrativa.

In terzo luogo γ giova esaminare la fisionomia proteiforme colla quale la Corte stessa disegna e delimita quelli che essa medesima richiama e definisce, punto riferendosi al bene della vita, (citando la propria Giurisprudenza…) come “valori di ordine costituzionale”.

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Poche parole sul primo punto, anche se si tratta di questione grave assai dacché essa involge lo stesso significato della democrazia, la stessa portata dei cc.dd. istituti di democrazia diretta, la stessa forza vincolante del Testo costituzionale per il suo proprio Giudice, ovverosia per colui il quale sarebbe chiamato a farlo rispettare (non a ri-scriverlo, non a integrarlo, quantomeno eccedendo i limiti della c.d. interpretazione estensiva…).

Perché il referendum sarebbe dunque inammissibile? Quale l’addentellato formale?

La Corte costituzionale è trasparente sul punto: la «ragione» non è affatto normativa (aggiungiamo noi: con buona pace di Kelsen e non solo…); il riferimento non è nel testo della Costituzione; esso non alberga, insomma, nella dizione dell’art. 75 co. II cost., il quale punto elenca le materie in ordine alle quali “non è ammesso il referendum”, e non vi alberga nemmeno in esito a una lettura amplia dello stesso, ovvero in esito all’applicazione di un plausibile meccanismo analogico (ubi eadem legis ratio ibi eadem legis dispositio).

Viceversa il riferimento è… ermeneutico: esso alligna nella Sentenza № 16 del 1978 – e successive conformi – a mente della quale “al di là della lettera dell’art. 75 secondo comma Cost.” hanno da ritenersi inammissibili i quesiti referendarii quand’essi possano negativamente incidere su “valori di ordine costituzionale”, e segnatamente quand’essi involgano “leggi ordinarie la cui eliminazione […] priverebbe totalmente di efficacia un principio o un organo costituzionale”, vale a dire leggi o norme – per quanto in questa sede interessa – “la cui eliminazione determinerebbe la soppressione di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione” (Sentenza № 35 del 1997).

Occorre prendere atto che la «norma» in parola, o per meglio dire il «criterio» fatto proprio dalla Sentenza in disamina e dalle molte precedenti che lo hanno elaborato, è quello del Giudice, non già quello del Legislatore; esso è quello della Giurisprudenza costituzionale, non quello del Costituente (ancora una volta: con buona pace di Kelsen e dei kelseniani).

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Un tanto impone due rilievi almeno.

In primis è da domandarsi – ma la domanda non è di oggi, evidentemente – fino a quale punto sia legittimato il Giudice a «modellarsi» le norme di riferimento secondo quelle che egli stesso erige a rationes delle sue stesse pronunzie.

In altri termini è da chiedersi su quali basi il Giudice costituzionale riscriva, o per meglio dire integri, l’art. 75 cost. – per rimanere al caso de quo – quand’invece esso sarebbe e dovrebb’essere termine di riferimento pel suo stesso giudizio.

La risposta secondo la quale lo scopo de quo albergherebbe nella necessità di preservare un non meglio precisato nucleo di «principii costituzionali» non convince affatto, anche perché ciò imporrebbe di sostenere la tesi secondo la quale il Giudice costituzionale sarebbe interprete e custode della Costituzione più di quanto non lo fosse o non lo potesse essere stato lo stesso Costituente, la sua stessa voce, lo stesso Testo che egli ha confezionato.

In questo caso particolare, peraltro, non si tratta di operare analogicamente laddove si rilevi un vacuum normativo, un ambito di per sé non coperto dalla norma posita, ma all’opposto si tratta di integrare arbitrariamente (rectius: autoreferenzialmente) una disposizione di per sé compiuta, quale punto è il citato art. 75 cost.. E questa, nei fatti, è una vera e propria «correzione» (una di quelle che al ginnasio si facevano col lapis blu) che il Giudice costituzionale fa al Testo della Costituzione.

Invero – lo precisiamo a scanso d’equivoci, consapevoli che la questione andrebbe approfondita e che per la Corte essa è «scomoda» – occorre domandarsi fino a che punto possa estendersi l’interpretazione e l’applicazione dell’art. 75 cost. oltre il dato testuale che esso stesso appalesa senza che intervenga allo scopo, a opera del Legislatore e con procedura c.d. rafforzata, la relativa modifica.

Ciò imporrebbe di capire – ed è materia complessa assai cui quivi solo facciamo un cenno – se la ratio sottostante al medesimo art. 75 cost. sia quella di guarentigiare in modo assoluto, rispetto all’esercizio della c.d. democrazia diretta, diritti e «valori» che una certa interpretazione della Costituzione – quale, poi? Quella dell’ultima sentenza della Corte? Quella di una precedente? Quella dell’ultimo periodo? – pone al vertice dell’Ordinamento… democratico; o se essa piuttosto si condensi nella valutazione operata da parte dei Costituenti di sottrarre alla procedura referendaria norme e discipline legislative specificamente legate ad aspetti concernenti il Governo dello Stato, i quali non attengono a «valori» fondamentali, ma piuttosto concernono strumenti per l’operatività dell’Amministrazione sotto il profilo lato sensu finanziario (tributi e bilancio), sotto il profilo legato alla gestione delle pene (amnistia e indulto), sotto il profilo dei rapporti internazionali (ratifica dei trattati).

Occorrebbe cioè dire se il citato art. 75 cost. sia posto a presidio dei cc.dd. principii fondamentali, e in questo caso occorrebbe dire perché essi non ne sono contemplati…, o se viceversa la norma in parola sia posta a presidio di una certa operatività del Governo, e dunque delle prerogative più specificamente proprie di questo.

Altro non aggiungiamo anche perché non è questa la sede opportuna; rileviamo e registriamo, però, gli effetti, sotto un certo profilo pericolosi, sotto un altro eccentrici, delle varie teorie ermeneutiche, anzi delle varie prassi ermeneutiche colle quali si è di fatto superato il giuspositivismo vecchio e nuovo, e si è entrati in una forma magmatica di giurisprudenzialismo, o per meglio dire di occasionalismo giurisprudenziale (con buona pace, questa volta, di Montesquieu). Con tanto rileviamo e registriamo anche la dimensione palesemente sovrastrutturale del c.d. equilibrio divisionale dei poteri dello Stato, così come la dimensione sostanzialmente «politica» (sotto un certo rispetto: politico-normativa), e non più giuridica, tantomeno tecnica, del Giudice...

Un tempo si insegnava: non de legibus, sed secundum leges iudicandum, ma questo appartiene, oramai, al ciarpame delle cose vecchie, passate, inutili…

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In merito al secondo aspetto, sostanziale, consideriamo invece questioni di altra natura.

L’art. 579 c.p., come è noto, appartiene al nucleo originario del c.d. Codice Rocco: esso, cioè, non rappresenta l’effetto di interventi successivi e/o di novellazioni estemporanee.

La questione – si badi – non è di poco momento: essa infatti consente di arguire la ratio cui il Legislatore fece originariamente riferimento e, alla luce di questa, essa consente di comprendere il sistema normativo, operativo e concettuale che ne è derivato e che, in regime di sostanziale coerenza coll’articolato del successivo Codice civile (la promulgazione di questo data dal 1942), ha rappresentato il punto di riferimento del e pel diritto positivo fino all’entrata in vigore della nuova Costituzione (la quale data dal 1948), e più significativamente fino all’affermarsi della relativa Giurisprudenza (la quale, a sua volta, data dal 1956).

Con la disposizione in parola, infatti, letta in combinato disposto col successivo art. 580 c.p. che incrimina l’istigazione o l’aiuto al suicidio, il Codice penale del 1930 indubbiamente concorre a sottrarre il diritto alla vita dal novero dei cc.dd. diritti disponibili; in ispecie concorre a sottrarlo dal novero dei diritti in ordine ai quali abbia agio di operare in funzione scriminante il c.d. consenso dell’offeso a’termini dell’art. 50 c.p.. L’art. 50 c.p., comunque, ha una sua struttura, una sua dimensione operativa, e una sua fisionomia tutt’affatto autonome... E i piani del ragionamento non possono confondersi!

A noi sembra che quest’aspetto rappresenti, sotto un certo profilo almeno, l’ubi consistam dell’intiero discorso.

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La vigenza del citato art. 579 c.p., infatti, e la necessità avvertita dal Legislatore di incriminare, come autonoma fattispecie di reato, e segnatamente come fattispecie attenuata di reato, l’omicidio del consenziente, dà conto di un ulteriore, significativo aspetto.

Per intendere i termini del problema, allora, poniamo la seguente questione: rispetto alla tutela del bene giuridico rappresentato dalla vita umana, l’operatività dell’art. 50 c.p. è ampliata o essa è ristretta dall’art. 579 c.p. relativo all’omicidio del consenziente? Quest’ultimo articolo, cioè, aggiunge al novero dei cc.dd. diritti indisponibili il diritto alla vita, il quale altrimenti ne sarebbe estraniato, o piuttosto esso sottrae all’applicabilità della scriminante in parola l’atto dispositivo che proprio concerne il diritto alla vita, al precipuo scopo di considerarlo, autonomamente, all’interno di un’apposita disposizione?

In altri termini, l’omicidio del consenziente sarebbe scriminato, ovviamente per effetto del citato art. 50 c.p., qualora esso non fosse esplicitamente contemplato dalla norma che lo tipicizza sub art. 579 c.p.? O viceversa esso stesso solo ricadrebbe nella disciplina generale del reato di omicidio, proprio per l’originaria, atavica, invalidità del consenso dell’offeso, e dunque per l’inoperatività in subiecta materia della relativa scriminante?

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È chiaro che l’art. 579 c.p. «restringe», non «amplia», lo spettro di applicabilità dell’art. 50 c.p. in merito alla tutela indisponibile del diritto alla vita: l’art. 579 c.p., cioè, non aggiunge al novero dei diritti indisponibili il citato diritto alla vita, quanto piuttosto lo sottrae dalla disciplina generale dei diritti indisponibili, i quali invero hanno guarentigia penale per effetto dell’art. 50 c.p., allo scopo di apprestarne una disciplina autonoma, punto quella concernente l’omicidio del consenziente.

E la tutela accordata al diritto alla vita dalla fattispecie sub art. 579 c.p. è tutt’affatto attenuata, non maggiorata, rispetto a quella che deriverebbe dall’applicazione in combinato disposto dell’art. 50 c.p. e dell’art. 575 c.p., minore o più mite essendo il relativo compendio sanzionatorio.

La fattispecie attenuata di reato, infatti, tipizza e contempla una condotta peculiare, speciale, rispetto a quella del reato nell’alveo concettuale del quale essa gravita in quanto ne concreta una modalità, una forma, una figura dal minor disvalore penale, o per meglio dire in quanto ne concreta una modalità dal disvalore penale ritenuto, in esito a una valutazione anche etico-morale dell’atto umano (poi condensatasi in una scelta di politica del diritto), minore o meno grave.

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Un tanto significa, quindi – qui val bene precisarlo immediatamente, anche pro futuro – che espungendo dall’Ordinamento il citato art. 579 c.p., come intendeva fare la proposta referendaria in disamina, senza un’adeguata actio finium regundorum in ordine al citato art. 50 c.p., il consenso dell’offeso, pel caso dell’omicidio, non avrebbe ex se valore assolutamente scriminante, e che dunque l’omicida, avendo agito secondo la volontà libera e cosciente della vittima, non sarebbe ex se esente da pena per deficienza di antigiuridicità del fatto compiuto, ma appunto colpevole pleno iure. Si tratta – evidentemente – di una «deduzione» che l’interprete difficilmente potrebbe omettere: egli potrebbe ometterla, infatti, solo considerando il bene della vita umana, alla luce dell’intiero Ordinamento vigente, come bene e come diritto effettivamente disponibile. E la cosa non risulta né immediata, né scontata per soverchie ragioni, non foss’altro che per la perseguibilità d’ufficio del delitto in parola...

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Ciò significa, comunque, e al netto di ogn’altra pur interessante considerazione, che in virtù di una lettura sistematica del Codice penale vigente, la quale ponga mente alle tre disposizioni citate – all’art. 579 c.p., all’art. 580 c.p. e all’art. 50 c.p. –, l’atto dispositivo del bene vita, o per meglio dire l’atto dispositivo del bene giuridico rappresentato dalla vita umana, qualunque contenuto esso abbia e qualunque forma esso assuma, è da considerarsi invalido qualora esso stesso si concreti nell’autorizzazione di una condotta lesiva.

La tutela della vita umana, in questo senso e sotto questo rispetto, dunque, è essa assolutamente piena e completa dal punto di vista della logica e della sintassi normativo-legislativa (ovviamente dal punto di vista dei Codici, altra è la «prospettiva costituzionale»).

I motivi che ne stanno a monte, e forse potremmo anche dire le intenzioni remote che ne stanno a monte, sono «politici» e non giuridici – se così possiamo esprimerci –, ed essi non incidono affatto sulla lettura delle norme in narrativa; la circostanza, cioè, che – come si premura di scrivere il Giudice – “il legislatore del 1930 […] intendeva tutelare la vita umana […] anche in funzione dell’interesse che lo Stato riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini”, è essa una questione sulla quale certamente potrebbe discutersi, ma la quale non rileva direttamente in questa sede, né essa stessa toglie «vigore» alle vedute disposizioni e alla tutela che esse apprestano ad appannaggio della vita umana.

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Non è da trascurarsi, allora, che secondo l’impianto originale del Codice, l’invalidità del consenso relativamente all’atto dispositivo avente per oggetto il diritto (veramente!) indisponibile – in questo caso la vita – copre e comprende non solo la c.d. condotta commissiva, ma anche quella omissiva propria e quella omissiva impropria, o, come la più raffinata Dottrina penalistica suole dire, quella commissiva mediante omissione.

Anche quest’aspetto – trascurato dal Giudice – ci sembra di particolare interesse.

La fattispecie incriminatrice rispetto all’omicidio del consenziente quale analogato concettuale e normativo dell’invalidità del consenso dell’offeso in ordine alla lesione del bene giuridico rappresentato dalla vita umana, infatti, rileva e si integra non solo quand’essa comporti la sussunzione d’una condotta commissiva, non solo, cioè, quando Primus cagioni la morte di Secundus, avendo il di lui consenso, mediante una «azione attiva», un facere, per esempio mediante la somministrazione di una veleno o l’esplosione di un colpo d’arma da fuoco; ma anche quando, trovandosi egli in posizione di garanzia a’termini dell’art. 40 c.p., e pur avendo avute istruzioni contrarie da parte dell’interessato, egli stesso non impedisca l’evento che ha l’obbligo giuridico di impedire, per esempio dovendogli prestare soccorso e prestandogli effettivamente soccorso egli non operi le manovre necessarie per salvarlo.

In altri termini, allora, e senza entrare più a fondo nel merito delle questioni che già abbiamo trattate in altra sede, l’incriminazione dell’omicidio del consenziente, sia come fattispecie autonoma, sia come conseguenza dell’invalidità del consenso ex art. 50 c.p., determina l’invalidità assoluta di ogni forma di consenso, di richiesta, di autorizzazione, la quale consenta al terzo di provocare la morte dell’interessato, tanto operando egli attivamente per procurargliela, quanto astenendosi egli dal fare ciò che è necessario e doveroso per evitarla, avendone l’obbligo giuridico. L’obbligo giuridico de quo, infatti, non cessa né si attenua per effetto dell’atto dispositivo normativamente e legalmente invalido (nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet).

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Nemmeno su questi aspetti, però, il Giudice si sofferma… egli si limita – e con tanto entriamo nel secondo punto, cui abbiamo fatto cenno supra – a considerare che “l’effetto di liceizzazione dell’omicidio del consenziente […] non risulterebbe affatto circoscritto alla causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili”.

La precisazione è doppiamente singolare.

Sotto un primo profilo essa mette in luce l’imbarazzante incapacità dei promotori del referendum di confezionare il quesito referendario secondo le loro stesse intenzioni, ammesso che esse coincidono veramente con quelle palesate negl’atti processuali…

Si tratta di una circostanza, per certi aspetti di difficile decifrazione, la quale però dice molto di più di quello che sembra: essa parrebbe suggerire, infatti, – ecco il secondo aspetto di singolarità – una via di costituzionalità percorribile proprio per il perseguimento degli scopi cui la proposta referendaria vorrebbe tendere.

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I promotori, invero – stando a quanto riporta il Giudice nella Sentenza – avrebbero voluto non già l’assoluta e incondizionata liberalizzazione dell’omicidio del consenziente, ma segnatamente una “normativa di risulta [… la quale], reinterpretata alla luce del quadro ordinamentale […], porterebbe a ritenere che, ai fini della non punibilità dell’omicidio del consenziente, il consenso dovrebbe essere espresso nelle forme previste dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 […] e in presenza delle condizioni alle quali questa Corte […] ha subordinato l’esclusione della punibilità per il finitimo reato di aiuto al suicidio”.

La Corte rileva, però, che la normativa di risulta avrebbe palesato un quadro tutt’affatto diverso: essa, cioè, avrebbe determinato una patente liberalizzazione di ogni condotta omicidiaria la quale fosse stata dall’interessato (rectius, dalla vittima) richiesta e voluta per sé con piena avvertenza e con deliberato consenso, se così possiamo dire mutuando i termini dalla teologia morale. Nessun limite e nessun condizionamento avrebbe dunque potuto trovare un addentellato normativo-positivo, qualora la citata disposizione sub art. 579 c.p. fosse stata abrogata all’esito della procedura referendaria.

Ma la considerazione del problema de quo può ridursi al rilievo, quasi autoptico, di questo dato epidermico?

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Il problema – si badi – è assai più complesso e assai più sottile. E con questo entriamo nel merito del secondo aspetto che conferisce singolarità alla pronunzia in disamina.

Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di questioni cui non sembra venga riconosciuto dal Giudice il rilievo loro proprio anche solo sul piano dello ius positum.

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Ebbene, come abbiamo di già cennato, vigente l’art. 50 c.p., non è possibile opinarsi la liberalizzazione dell’omicidio del consenziente, nemmeno qualora la relativa fattispecie incriminatrice fosse effettivamente espunta dall’Ordinamento, e ciò, a meno di considerare, sulla base dell’intiero contesto di riferimento, la stessa vita umana alla stregua di un bene pienamente disponibile, cosa che per ammissione dello medesimo Giudice costituzionale sarebbe scorretto e improprio sostenere.

Non con riferimento al Codice penale, infatti, ma segnatamente con riferimento al testo della Costituzione e alla sua concreta (vivente?) interpretazione, la Corte afferma che “il diritto alla vita, riconosciuto implicitamente dall’art. 2 Cost., è ‹da iscriversi tra i diritti inviolabili, cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono […] ʽall’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italianaʼ› [… giacché] esso ‹concorre a costituire la matrice prima di ogni altro diritto, costituzionalmente protetto, della persona›”.

Non con riferimento al Codice penale, poi, ma segnatamente con riferimento al testo della Costituzione e alla sua interpretazione, la Corte afferma che “quando viene in rilievo il bene della vita umana […] la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”.

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Che cosa significa tutto questo?

Ebbene, con un coup de théâtre dobbiamo rilevare che le osservazioni laconicamente proposte nei righi precedenti, suggeriscono esiti, scenarii e prospettive assai diversi, anzi opposti, rispetto a quelli prospettati dalla Corte costituzionale pel caso dell’intervenuta abrogazione referendaria del citato art. 579 c.p..

L’abrogazione di detta norma, infatti, lungi dal comportare un vulnus nella tutela del bene giuridico rappresentato dalla vita umana pel caso del c.d. omicidio del consenziente, avrebbe solamente determinata la caducazione d’una fattispecie attenuata di reato: quella, appunto, che incrimina in guisa autonoma l’omicidio del consenziente e che lo estrania dallo spettro applicativo e operativo dell’art. 575 c.p. sull’omicidio tout court, in virtù del minore disvalore (penale) che esso reca seco ed esprime.

Ciò significa, allora e conseguentemente, che l’abrogazione della norma sub art. 579 c.p. – omicidio del consenziente – avrebbe comportato la consentanea espansione alla subiecta materia dell’ordinaria e generale fattispecie sub art. 575 c.p., e cioè di quella relativa all’omicidio sic et simpliciter, con conseguente aggravamento delle conseguenze sanzionatorie.

Paradossalmente l’esito favorevole del referendum avrebbe comportata, pur indirettamente, una più forte tutela del bene giuridico rappresentato dalla vita umana. E ciò – ecco il punctum dolens – proprio in quanto una condotta eziologicamente idonea a provocare la morte di un uomo, ancorché posta in essere col di lui consenso o su sua richiesta, non avrebbe essa potuto essere scriminata in forza dell’invalidità del consenso o della richiesta medesima giusta il disposto del citato art. 50 c.p., avendo essi a oggetto un diritto del quale non può… validamente disporsi. La condotta de qua, pertanto, sarebbe e resterebbe pienamente sussumibile entro gl’estremi della norma incriminatrice che la contempla e che la tipicizza sub specie di omicidio tout court.

Per usare la nota teorica relativa alla costituzione tripartita del reato, invero, nel caso de quo il fatto sarebbe tipico, poiché tipica è la condotta che provochi la morte di un uomo; esso sarebbe, poi, coeteris paribus, colpevole, in quanto sorretto dallo stato soggettivo del dolo; e infine esso sarebbe… antigiuridico, giacché non avrebbe agio d’intervenire alcuna scriminante o esimente. In ispecie non avrebbe agio d’intervenire il c.d. consenso dell’offeso, poiché esso stesso sarebbe a monte invalido dacché concernente diritti dei quali il titolare non può disporre ad nutum.

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Il ragionamento della Corte, dunque, è paralogistico ed esso invera un’effettiva contradictio in adiecto: negando legittimità al quesito referendario, infatti, sul presupposto che il possibile effetto abrogativo avrebbe determinato un vacuum di tutela in materia grave, quale è quella che concerne il diritto alla vita, “poiché non verrebbe […] preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali”, la Corte stessa ha omesso di considerare che proprio in forza dell’art. 50 c.p., l’eventuale abrogazione della norma in parola ne avrebbe viceversa ampliato e rafforzato lo spettro di guarentigia, se non altro aggravando le conseguenze per il reo: essa avrebbe fatto rientrare, infatti, l’omicidio del consenziente nella disciplina generale dell’omicidio sub art. 575 c.p..

Molto altro potrebbe aggiungersi, ma il discorso ne uscirebbe inutilmente appesantito.

Una chiosa può finalmente farsi, però, ed essa concerne la strada che la Corte vuole surrettiziamente indicare sovrattutto al Legislatore: essa involge la ritenuta «opportunità» costituzionale di una norma la quale, lungi dal tutelare la vita umana e lungi ancora di più dal tutelare quella dei più deboli, operi un effettivo ridimensionamento del citato art. 579 c.p., onde escludere la punibilità dell’omicidio del consenziente qualora ricorrano le condizioni di infermità et coetera già fatte palesi nella nota Sentenza № 242 del 2019, così completando, se già non lo fosse, lo spettro operativo del diritto all’eutanasia.