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L'affaire Qatargate. Sulla “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale”: la centralità degli adeguati assetti

Qatargate
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L'affaire Qatargate. Sulla “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale”: la centralità degli adeguati assetti
 

Abstract: alcuni mesi dopo il “Qatargate”, la Commissione Europea ha presentato una “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale”. Secondo la stessa, gli strumenti normativi sinora adottati (la decisione quadro 2003/568/GAI sulla corruzione nel settore privato, la Convenzione del 1997 sulla lotta alla corruzione dei funzionari dell’UE o degli Stati membri dell’UE, la Direttiva sulla protezione degli interessi finanziari dell’UE) non sarebbero sufficientemente completi e le norme esistenti negli Stati Membri devono essere ulteriormente sviluppate per garantire una risposta più coerente ed efficace. La proposta legislativa aggiorna il quadro UE, fra l’altro incorporando gli standard internazionali vincolanti per l’UE, come quelli della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC). L’obiettivo è garantire che tutte le forme di corruzione siano considerate reato in tutti gli Stati Membri, che anche le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili e che i reati siano puniti con sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive. Inoltre, la proposta include misure pertinenti per prevenire la corruzione in conformità con gli standard internazionali e facilitare la cooperazione transfrontaliera, come richiesto dall’UNCAC.
 

L’Affaire Qatargate e le sue cause

Qatargate, questo il nome attribuito allo scandalo giudiziario che ha coinvolto l’Europa nel 2022, ed in particolar modo, il Parlamento europeo. Le indagini hanno riguardato asseritamente tangenti provenienti dall’emirato del Golfo, aventi lo scopo di influenzare e determinare a proprio favore la politica dell’Europarlamento, rideterminando, in cambio, l’immagine in positivo dello stesso Paese arabo.

La questione dell’etica pubblica non è nuova all’interno dell’UE; i responsabili politici hanno dovuto raffrontarsi col tema già nel 1999 quando la Commissione fu accusata di corruzione, accuse ripetutesi successivamente nel 2010 e l’ultima nel 2016.

La vicenda ha dimostrato chiaramente che le Istituzioni europee sono ancora troppo esposte alla piaga della corruzione e che gli attuali strumenti di autoregolamentazione e di trasparenza non sono sufficienti. Cosa c’è quindi di errato nei modi con i quali l’Europa ha affrontato la questione fino ad oggi?

La ragione più significativa è, probabilmente, la profonda sottovalutazione della portata del problema dell’integrità pubblica nel contesto UE, la quale vede minata la propria reputazione che si basa principalmente sulla qualità di custode del più vasto mercato interno al mondo.

Questa sottovalutazione del problema ha fatto sì che le misure messe in atto dall’Unione europea hanno sempre fallito. Si pensi, ad esempio, ai registri di trasparenza volontari o ai comitati etici consultivi, i quali si sono rivelati da subito carenti, poiché non sono stati contestualmente dotati di poteri investigativi o decisionali.

Proprio il “comitato etico ad hoc” della Commissione, ribattezzato in seguito “comitato etico indipendente”, istituito per regolare i codici di condotta dei membri della Commissione europea si è dimostrato poco efficiente, già solo a partire dalla sua composizione e organigramma nonché dalla “dipendenza” operativa all’iniziativa del segretariato generale della Commissione. Inevitabile, dunque, che il Comitato si sia trasformato in uno strumento per proteggere la reputazione dell’Istituzione piuttosto che un vero e proprio organo di controllo, venendo meno ai suoi obbiettivi originali per cui era stato preposto.

Un’altra causa da considerare potrebbe riscontrarsi nell’eccessivo e fiducioso ricorso alla trasparenza come (prevalente) misura di self regulation. Solo attraverso il ricorso ad un - pur utile -  “Registro di Trasparenza”, infatti, si è istituita la banca dati che elenca le organizzazioni che tentano di intervenire nel processo legislativo e di attuazione delle politiche delle istituzioni europee allo scopo di mettere in evidenza gli interessi perseguiti, i soggetti interessati, le risorse finanziarie impiegate, rendendo così attuabile un controllo pubblico, mettendo a disposizione dei cittadini e ad altri gruppi di interesse la possibilità di monitorare le attività dei lobbisti.
 

Il diritto penale come soluzione per contrastare la corruzione secondo l’Europa

A seguito dello scandalo di cui sopra, la reazione delle Istituzioni europee non si è fatta attendere: la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale [v. L. ROCCATAGLIA, La Commissione UE presenta una proposta di Direttiva sulla lotta contro la corruzione mediante il diritto penale, in Giurisprudenza Penale Web, maggio 2023].

L’obiettivo è garantire che tutte le forme di corruzione siano perseguibili penalmente in ciascun Stato Membro. Secondo la Commissione, infatti, gli strumenti normativi sinora adottati (la decisione quadro 2003/568/GAI sulla corruzione nel settore privato, la Convenzione del 1997 sulla lotta alla corruzione dei funzionari dell’UE o degli Stati membri dell’UE, la Direttiva sulla protezione degli interessi finanziari dell’UE) non sono sufficientemente completi e le norme esistenti negli Stati membri devono essere ulteriormente sviluppate per garantire una risposta più coerente ed efficace nell’Unione. Vi sono lacune nell’applicazione a livello nazionale e ostacoli nella cooperazione tra le autorità competenti dei diversi Stati membri. Le autorità degli Stati membri devono affrontare sfide legate all’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, alla brevità dei termini di prescrizione, alle norme sull’immunità e sui privilegi, alla limitata disponibilità di risorse, alla formazione e ai poteri investigativi. La proposta in oggetto mira ad aggiornare il quadro legislativo dell’UE, incorporando gli standard internazionali vincolanti per l’Unione europea, come per esempio quelli della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC), questo, l’unico trattato multilaterale internazionale giuridicamente vincolante contro la corruzione, entrato in vigore nel 2005. Il suddetto riconosce l’importanza delle misure sia preventive sia punitive, indirizzando la natura transfrontaliera della corruzione con interventi di cooperazione internazionale tra i Paesi, fornendo meccanismi legali efficaci.

L’atto legislativo proposto dall’UE vincola gli Stati membri all’adozione sia di norme di “armonizzazione minima” delle figure criminose (e delle sanzioni) riconducibili alla corruzione in senso ampio, sia di misure di prevenzione, nonché di strumenti per rafforzare la cooperazione nelle attività di contrasto di tale fenomeno.

In particolare, gli artt. da 7 a 13 della direttiva definiscono in maniera dettagliata la fattispecie della corruzione (sia in ambito pubblico sia privato), dell’abuso d’ufficio, dell’appropriazione indebita e di intralcio alla giustizia, imponendo per tali figure criminose obblighi di incriminazione.

Come tipico dello strumento legislativo europeo impiegato - direttiva - il provvedimento detta norme minime lasciando alla discrezionalità degli Stati di scegliere di adottare o meno disposizioni di diritto penale più severe o mantenere inalterate quelle già in vigore.

Nell’ambito del panorama delle fonti europee e delle materie di competenza vigono i ben noti principi di proporzionalità e sussidiarietà. In materia di corruzione, e più in generale in materia penale (sebbene si parli sempre più della creazione di un sistema penale europeo ovvero di un “diritto penale europeo minimo”), si tratta di competenza europea non esclusiva. L’art. 5 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), che disciplina il cd. “principio di attribuzione”, conferisce questa competenza anche all’UE, intendendo la corruzione “in senso ampio”, così come intesa anche nelle Convenzioni internazionali. La sussidiarietà richiede di intervenire solo se gli obiettivi previsti siano meglio realizzabili dall’UE rispetto ai singoli Stati. L’intervento dell’UE mediante questa direttiva creerebbe sicuramente un valore aggiunto, avvicinando il diritto penale degli Stati membri e contribuendo a creare una condizione di maggiore parità tra essi ed un maggior coordinamento, permettendo così di aggiungere ulteriori competenze all’UE.

Al contrario, è pacifico che un mancato intervento sul tema inasprirebbe le implicazioni transfrontaliere del fenomeno stante la graduale espansione negli ultimi anni del fenomeno della cosiddetta “corruzione transfrontaliera”, così difficile da perseguire e disciplinare da fornire agli autori di queste condotte illecite l’occasione di “forum shopping”, ovvero la possibilità di scegliere lo Stato membro con la giurisdizione più favorevole in materia.

Era stata la Procura belga, con ordinanza del 22 dicembre 2023, ad imporre agli indagati il divieto di parlare con la stampa con lo scopo di mantenere quanto più possibile un clima sereno. Il 14 febbraio 2024, la “Chambre des mises en accusation” - sezione della Corte d’Appello che si pronuncia sulle impugnazioni delle decisioni  della Camera di consiglio – a seguito dell’impulso ricevuto da uno degli avvocati di un ex parlamentare coinvolto nella vicenda ha dichiarato che la decisione di imporre un bavaglio agli indagati non è conforme ai requisiti legali e pertanto va annullata. Si trattava di una novità assoluta – in spregio alla libertà di espressione e alla presunzione di innocenza - piombata sui soggetti coinvolti a seguito di alcuni articoli che mettevano in seria discussione la tenuta delle indagini.

La “Chambre des mises en eccusation” ha sottolineato un principio tanto banale quanto non così scontato: per rimettere in libertà qualcuno non è necessario un controllo periodico di legalità, il giudice istruttore o il tribunale devono rispettare i requisiti dell’articolo 35, paragrafo 2, della legge del 20 luglio 1990 ed esporre le ragioni che giustificano questa nuova restrizione alla libertà di circolazione. L’ordinanza di dicembre, al contrario, ha imposto un bavaglio (diretto e indiretto) senza giustificarne la necessità, ammantando il tutto dietro l’esigenza di proseguire l’inchiesta «in un clima sereno».Clima, evidentemente, non intaccato dalla circolazione indiscriminata dei soli atti favorevoli all’accusa - e solo quelli - che continuano a circolare senza problemi su alcuni quotidiani, come Le Soir, i cui giornalisti, nelle scorse settimane, hanno presentato un libro sull’inchiesta, di fatto violando la presunzione d’innocenza degli indagati, sin da subito considerati colpevoli.

L’ordinanza, inoltre, violerebbe anche l’art. 57 paragrafo 8, comma 4 del codice di procedura penale belga il quale prevede che l’avvocato possa «quando l’interesse del suo cliente lo richiede, comunicare informazioni alla stampa», sempre nel rispetto della presunzione d’innocenza, dei diritti di difesa delle vittime e dei terzi coinvolti, della dignità personale e della privacy.

Tema, quello riguardante il “veto” imposto alla stampa, molto discusso in Italia negli ultimi mesi, a seguito dell’approvazione dell’emendamento Costa. Liquidato da molti opinionisti come una “norma-bavaglio”, il recente emendamento a nome del suo promotore, l’avvocato e Onorevole Costa, alla legge di delegazione europea, approvato alla Camera e in attesa di approvazione al Senato, ha già fatto molto discutere. La novità che si vorrebbe introdurre, cui fa da sfondo l’ormai noto “braccio di ferro” tra istanze di tutela del singolo (o di una cerchia di soggetti) e istanze di informazione dell’opinione pubblica, è quella che vieterebbe fino alla fine delle indagini preliminari la pubblicazione integrale o parziale da parte dei giornalisti dei testi (cioè delle motivazioni) delle ordinanze applicative di una misura cautelare - sino ad oggi consentita - che tuttavia contiene molto spesso anche i brani delle conversazioni intercettate, la cui pubblicazione, da Codice di rito, dovrebbe essere limitata ai soli “brani essenziali”.

La prassi giudiziaria ha testimoniato l’enorme abuso in fase cautelare, tanto da parte delle Procure quanto talvolta da parte dei gip, del ricorso ai brani intercettati come (unico, talvolta) contenuto della “parte motiva”, vuoi delle richieste di misure cautelari vuoi, appunto, delle ordinanze applicative, entrambe destinate alla successiva pubblicazione integrale da parte della stampa.

Fermo, dunque, ed è bene sottolinearlo, che l’emendamento Costa non vieta in alcun modo alla stampa la possibilità di informare l’opinione pubblica circa l’avvenuta applicazione di una misura cautelare nei confronti di un soggetto, né di renderne note le ragioni a sostegno e gli elementi di prova addotti, si richiede, tuttavia, d’ora in avanti un maggior sforzo argomentativo agli organi di informazione, a tutela delle garanzie del singolo, che - in ultima istanza - non sono altro che le garanzie della collettività.

Nessun attacco liberticida ad avviso di chi scrive, dunque, ma anzi il tentativo, soprattutto culturale, di riportare un equilibrio di garanzie, in particolare nelle fasi primigenie di inizio di un procedimento penale (le più delicate) degno dello Stato di diritto in cui viviamo. 
 

La risposta italiana alla proposta di direttiva richiamata

L’atto legislativo europeo è stato sottoposto all’esame del Parlamento italiano e la XIV Commissione della Camera dei Deputati ha redatto un parere motivato, dal quale si evince che la Direttiva UE non sia del tutto conforme al principio di sussidiarietà e proporzionalità [v. M. GAMBARDELLA, La “Proposta di Direttiva in materia di lotta alla corruzione” al vaglio del Parlamento: qualche riflessione sui reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze, in Sistema Penale, 27 luglio 2023].

Più nel dettaglio, ad avviso della Commissione Politiche dell’UE, insediata presso la Camera dei Deputati, la Proposta di Direttiva - così come si legge nel su richiamato parere - “esorbiterebbe dalla base giuridica richiamata a suo fondamento nella misura in cui essa disciplina reati ulteriori rispetto a quello di corruzione in senso stretto, privi peraltro del requisito della transnazionalità, relativamente ai quali l’UE non ha competenza ad adottare norme di armonizzazione”.

Dunque, il punto di maggior caduta della proposta di direttiva europea sembra essere quello inerente i principi di sussidiarietà e proporzionalità dell’intervento normativo euro-unitario sulla disciplina nazionale che mancherebbe, prima di tutto, di mostrare la necessità e il valore aggiunto dell’intervento a livello unionale.

Non solo. Un altro elemento che ha fatto discutere il Legislatore domestico concerne il tema della transnazionalità di cui alla proposta di direttiva: si è osservato negativamente che il carattere transnazionale del fenomeno criminale oggetto di disciplina non appare interamente dimostrato, quanto meno con particolare riferimento al reato di intralcio alla giustizia e a quello abuso di ufficio.

Sebbene le riserve espresse nel menzionato Parere, su di un differente orientamento si pone l’Autorità Nazionale Anticorruzione.

In particolare, necessitano di menzione le parole del Presidente dell’Autorità Anticorruzione Giuseppe Busìa nell'ambito dell'esame della direttiva europea anticorruzione, a mente delle quali “La proposta di direttiva europea sulla lotta alla corruzione è fondamentale e di estrema importanza. E’ interesse nazionale dell’Italia rafforzare tali strumenti, in particolare la prevenzione, anche perché il nostro Paese su questo è all’avanguardia disponendo di un’Autorità anticorruzione indipendente come Anac, di fatto il modello che l’Unione europea ha preso a riferimento”.

Nel suo intervento alla Camera, il Presidente Busìa ha sottolineato la perdurante attualità del bisogno di interventi normativi di contrasto al multiforme fenomeno corruttivo, quale portatore di ingentissimi danni economici al Paese e quale responsabile della compromissione della coesione sociale e della fiducia verso le Istituzioni, non solo e non più nazionali ma anche di quelle internazionali.

In tal senso, ha concluso sottolineando come “tale direttiva – ha aggiunto il Presidente di Anac - rafforza la leadership regolatoria dell’Europa a livello internazionale, garantendo maggiore attrazione agli investimenti esteri e più competitività”.

Occorre, in ogni caso, non dimenticare come l’Italia - a livello normativo e sanzionatorio in materia - non è seconda a nessuno sul tema della lotta alla corruzione. L’Italia è attualmente già in linea con le previsioni della proposta di direttiva, in considerazione della legge 3 agosto 2009, n. 116, relativa alla ratifica della citata Convenzione di Merida, e della legge 6 novembre 2012, n. 190 (c.d. Legge Severino), come modificata dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, che, tra l’altro, ha potenziato le funzioni di ANAC. L’Italia risulta, dunque, sostanzialmente adempiente rispetto alle previsioni della direttiva e appare addirittura all’avanguardia per quanto concerne il sistema di prevenzione della corruzione, in virtù della grande esperienza maturata nel settore, delle numerose e molteplici misure preventive già introdotte e collaudate, nonché del costante impegno profuso, nel campo della promozione dell’etica e dell’integrità pubblica, nelle sedi internazionali.
 

Uno sguardo all’Italia e all’ impegno concreto per contrastare il fenomeno: ISO 37001/2016 e d.lgs. 231/2001

Per far fronte a tale rischio d’impresa, così come ad esordio rappresentato e richiesto dalla norma UE, si rende indispensabile ed imprescindibile aver a riguardo l’art. 2086, II co., del Codice Civile relativo ai doveri di istituzione all’interno dell’Ente di adeguati assetti organizzativi.

Al fine di promuovere una cultura d’impresa etica, a partire dal 2016 con la norma UNI ISO 37001 “Sistemi di gestione per la prevenzione della corruzione”, è possibile disporre di uno standard volontario e certificabile di compliance alle prescrizioni anticorruzione, applicabile a qualsiasi organizzazione, pubblica o privata. L’ISO 37001 si pone il dichiarato intento di “costruire, implementare, mantenere, rivisitare e migliorare il sistema di gestione dell’anticorruzione” dell’azienda.

La suddetta norma ISO 37001 del 2016 rappresenta, infatti, una “best practice” internazionale, rivolta ad Organizzazioni pubbliche e private, per l’adozione di sistemi di prevenzione della corruzione. Il suo approccio operativo e la sua applicabilità multi-giurisdizionale lo rendono uno strumento agile ed efficace. E’, infatti, importante evidenziare come la norma ISO 37001/2016 ha come nucleo fondante la valutazione dei rischi di corruzione accomunandosi in tal senso, sebbene non esaurendosi in e con essi, ai modelli di organizzazione, gestione e controllo domestici di cui al D. Lgs. n. 231/01, condividendone l’approccio metodologico ed i contenuti.

Dunque, è innegabile come l’integrazione di un modello organizzativo secondo il D.lgs.231/01 con i requisiti di cui alla ISO 37001/2016 sia di fondamentale sostegno per l’azienda nell’ambito di una tutela e difesa globale in un procedimento penale, in particolare quale elemento aggiuntivo ai fini della dimostrazione della fraudolenza della condotta esercitata da chi ha commesso il reato e quale prova della completa estraneità dell’azienda al fatto corruttivo.

I reati quali il riciclaggio e la corruzione rappresentano, infatti, due rischi significativi per le aziende, data la loro grande diffusione e la portata dei danni che possono provocare. Questi due reati sono spesso correlati e possono alimentarsi a vicenda, creando un circolo vizioso di illegalità. La natura trasversale di questi fenomeni li rende particolarmente pericolosi per le aziende. Per contrastare tali minacce, è essenziale dunque che le stesse adottino misure preventive adeguate e, in questo senso, tra gli strumenti più efficaci vi sono senz’altro i modelli sopra citati.

Questi due strumenti possono agire in modo sinergico e complementare: il MOG va a definire i processi aziendali a rischio di commissione dei reati commessi volontariamente nell’interesse della Società e, al contempo, lo standard ISO 37001 introduce una serie di misure di controllo volte a ridurre specificamente il rischio di commissione di tali reati. Nonostante la fondamentale e comprovata sinergia che intercorre tra il modello 231 e la ISO 37001, quest’ultima si caratterizza per il possesso di un elemento distintivo che la differenzia dai primi. Nella prassi di applicazione dei modelli 231 si osserva come spesso risulti infatti carente l’analisi della causa delle anomalie riscontrate nel sistema di controllo.

La risposta che viene fornita si limita al trattamento della segnalazione o della carenza riscontrata. Il più̀ delle volte questo risulta insufficiente nell’ottica di perseguire un vero obiettivo di prevenzione.

Il sistema ISO 37001 prevede, invece, a fronte della rilevazione di una violazione o di una anomalia del sistema, la possibilità di definire un’azione correttiva adeguata al fine di impedirne il ripetersi. La certificazione 37001 è contraddistinta da un approccio che può essere definito “dinamico”, in quanto le procedure non sono considerate come il fine ultimo, ma il mezzo per assicurare la conformità̀ e la continua efficacia del sistema rispetto agli obiettivi di prevenzione, con un approccio orientato al miglioramento dei livelli di rischio di corruzione.

L’evoluzione criminologica del fenomeno corruttivo, in uno con quella tecnologica, impone di trattare tale sua nuova fisionomia con strumenti stratificati, preventivi e interdisciplinari, da un lato, sanzionatori e repressivi, dall’altro. Più di tutti e prima di tutto è indispensabile - a parere di chi scrive - che venga creato un “valore pubblico” condiviso da realizzare avvalendosi, anche, di strumenti tecnologicamente avanzati. Che l’attuale gruppo di lavoro in materia 231 affronti anche questo nodo, altrimenti non superabile.