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L’anatocismo bancario: diritti dei correntisti e tecniche processuali

Una corretta istruzione probatoria per la ripetizione dell’indebito dovuto al c.d. Anatocismo Bancario
L’istituto dell’anatocismo Bancario ha subito una vera e propria rivoluzione copernicana a seguito delle sentenze n. 2374 del 16/3/99 e  n. 3096 del 30/3/99, emesse dal Supremo Collegio, nonché della sentenza n. 21095 del 4/11/2004, la quale ha stabilito che: Le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista devono considerarsi nulle anche se contratte prima delle pronunce della giurisprudenza del 1999”.

A seguito di ciò, si sono instaurate presso i tribunali d’Italia un numero considerevole di giudizi restitutori il cui petitum può essere generalizzato nel seguente abstract: “premesso che l’attore è titolare del c/c numero XX presso la Banca YY, considerato il mutato orientamento del Supremo Collegio in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici, voglia l’On. Tribunale adito condannare l’istituto di credito alla restituzione di quanto indebitamente percepito a causa della capitalizzazione trimestrale degli interessi, somma, da accertare in corso di causa, attraverso disponenda CTU, previo ordine di esibizione ex. art. 210 cpc di tutti gli estratti di conto corrente relativi al rapporto”.

Oggetto del presente contributo è un analisi tecnico-giuridica del corretto procedimento giudiziario attraverso cui giungere alla condanna dell’Istituto di credito alla refusione in favore del correntista di quanto indebitamente percepito a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici passivi.

Infatti, forse a seguito dell’entusiasmo con cui sono state accolte le pronunzie della Cassazione del ‘99, l’attenzione si è focalizzata più sulla quantità materiale dei giudizi che sulla qualità giuridica degli stessi.

Qualora l’atto introduttivo del giudizio sia riconducibile all’abstract sopra riportato, esso va incontro ad una serie di censure che possono essere così qualificate: la prima, violazione delle norme in materia di onore della prova; la seconda, violazione dell’art. 210 codice procedura civile.

1) Violazione delle norme in tema di onore della Prova

L’art. 2697, I comma del codice civile dispone che: “Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

L’art. 61 del codice di procedura civile dispone che: “Quando necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento dei singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica”; non è un caso che tale articolo sia situato nel Libro I (disposizioni generali), Titolo I (degli organi giudiziari), Capo III (del consulente  tecnico, del custode e degli altri ausiliari del giudice).

Pertanto, il C.T.U. è investito della qualità di ausiliare di giustizia e viene accostato al ruolo e alle prerogative del giudice, del quale finisce per condividere parzialmente – anche per l’operatività dei meccanismi di astensione e ricusazione – le stesse garanzie di imparzialità (Monteleone, Diritto processuale civile, 3a ed., Milano, 2002, 419).

La consulenza tecnica d’ufficio, quindi, non è mezzo di prova e, pertanto, non può essere disposta per sopperire alla carenza di elementi probatori che, al contrario, in base a quanto disposto dall’art. 2697 codice civile, devono essere puntualmente, e rigorosamente, indicati  nell’atto di citazione.

Infatti, come precisato anche dal TAR Puglia, con sentenza n.1708/02:"Il ricorrente deve fornire un idoneo principio di prova per il modo di consentire al giudicante (che non può sostituirsi alla parte nella ricerca di elementi da introdurre in giudizio - e ciò per la peculiarità del giudizio amministrativo che si caratterizza per il sistema dispositivo con metodo acquisitivo) di esercitare i propri poteri istruttori. La consulenza tecnica costituisce non già mezzo di prova, bensì mezzo di valutazione tecnica di fatti già probatoriamente acquisiti; la richiesta di CTU cui parte ricorrente affidi l’assolvimento di oneri probatori (che invece direttamente le incombevano) non può trovare accoglimento".

Pertanto, la richiesta di CTU contabile che abbia ad oggetto lo scorporo degli interessi passivi capitalizzati trimestralmente e, di conseguenza, la rideterminazione del saldo debitorio, così come formulata nella maggior parte degli atti di citazione, ha l’unico scopo di eludere e violare il principio dell’onere della prova.

Quindi, di fatto, con questo comportamento processuale, spesso non censurato dai Giudici, parte attrice delega ad una consulenza tecnica d’ufficio, che per come ribadito in precedenza, non può essere un mezzo di prova di parte, l’assolvimento di oneri probatori che invece incombono direttamente su di sè.

In tutti i casi in cui l’attore delega alla Consulenza Tecnica d’ufficio la “prova” delle domande avanzate nel processo instaurato le proprie richieste dovrebbero essere rigettate per mancato assolvimento degli oneri probatori e, quindi, per violazione delle norme sull’onere della prova, in quanto la consulenza tecnica non è mezzo di prova né di ricerca della prova, essendo, piuttosto, strumento di ausilio per il Giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze tecniche (Cassazione, Sentenze nn. 6479/02, 3343/01, 5422/02, 13686/01).

Sul punto si può vedere la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme, 19/2/2004.

2) Violazione dell’art. 210 c.p.c.

Un secondo possibile vizio processuale è costituito dalla violazione delle disposizioni in tema di ordine di esibizione ex art. 210 del codice di procedura civile.

L’art 210 c.p.c. dispone che: “Negli stessi limiti in cui può essere ordinata a norma dell’art. 118 c.p.c. l’ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo(cioè quando ciò appare indispensabile per conoscere i fatti di causa, senza che ciò comporti un grave danno per la persona o per il terzo), il Giudice Istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione in processo”.

Pertanto, l’esibizione costituisce una modalità di acquisizione al processo delle prove documentali. In particolare, si parla di produzione quando la parte che è in possesso del documento ed intende valersene in giudizio, lo mette spontaneamente a disposizione del giudice mediante deposito in cancelleria o produzione in udienza; si parla di esibizione quando la parte che intende utilizzare il documento come prova non ne ha la disponibilità in quanto esso è in possesso di un terzo o della controparte ai quali l’attività di produzione del documento viene imposta attraverso un ordine del giudice (Cavallone, Esibizione delle prove nel diritto processuale civile, in Digesto civ., VII, Torino, 1991, 664).

Tale strumento probatorio viene normalmente, ma illegittimamente, richiesto da parte attrice per sopperire alla mancanza di idonea documentazione contabile, che, invero, dovrebbe essere in suo possesso, in quanto l’istituto di credito provvede, secondo quando disposto nel contratto di apertura di conto corrente, ad inviare presso il domicilio eletto dal correntista-attore, con cadenza mensile, l’estratto di conto corrente con tutti i movimenti contabili del periodo di riferimento.

Pertanto, qualora il correntista abbia smarrito gli estratti conto inviati presso il proprio domicilio si configura una negligenza da parte sua che non può essere alleviata ricorrendo allo strumento dell’art. 210 c.p.c., imponendo, per effetto di ciò, all’istituto di credito la produzione in giudizio di tutti gli estratti di conto corrente.

Ciò comporta una gravissima violazione dell’onere della prova, in quanto il convenuto deve produrre in giudizio prove documentali a sostegno della domanda dell’attore.

L’orientamento giurisprudenziale del Supremo Collegio in merito all’istituto di cui all’art. 210 c.p.c. precisa che:"L’ordine di esibizione di documenti previsto dall’art. 210 c.p.c., provvedimento tipicamente discrezionale del giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per vizio di motivazione, deve riguardare documenti che siano specificamente indicati dalla parte che ne abbia fatto istanza e che risultino indispensabili al fine della prova dei fatti controversi; non può quindi in alcun caso supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova a carico della parte istante" (Cassazione, Sentenza n.10043/04).

In modo più specifico è stato stabilito che: “Il potere officioso del giudice di ordinare, ai sensi degli art. 210 e 421 c.p.c., alla parte l’esibizione di documenti sufficientemente individuati, ha carattere discrezionale e, non potendo sopperire all’inerzia della parte nel dedurre mezzi di prova, può essere esercitato solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile aliunde, non anche per fini meramente esplorativi. Il mancato esercizio da parte del giudice del relativo potere, anche se sollecitato, non è censurabile in sede di legittimità neppure se il giudice abbia omesso di motivare al riguardo” (Cassazione, Sentenza n.5908/04).

Pertanto, qualora l’Istituto di Credito abbia proceduto al regolare invio  presso il domicilio eletto dal correntista-attore, quest’ultimo, in caso di smarrimento, deve, preventivamente, proporre apposita istanza di richiesta copia alla Banca ex art. 119 TUB. Solo qualora tale richiesta sia stata inevasa dall’istituto di credito, l’attore può legittimamente ricorrere all’ausilio dello strumento di cui all’art. 210 c.p.c., in caso contrario difetta il presupposto della inacquisibilità aliunde della documentazione, ed è pertanto illegittima la richiesta di esibizione dei medesimi estratti conto.

Infatti, l’ordine di esibizione ex art. 210 cpc riguarda documenti che sono nell’esclusivo possesso della controparte o di un terzo, e che, quindi, la parte richiedente non è in grado di produrre, perché materialmente impossibilitata a ciò.

Sul punto si è pronunziato il Tribunale di Ivrea, 7/7/2003, secondo cui: "Presupposto per l’emanazione dell’ordine di esibizione ex art. 210 cpc è che la parte si trovi nell’impossibilità di produrre essa stessa in giudizio i documenti".

Pertanto, ferma restando l’illegittimità della prassi bancaria in merito alla capitalizzazione trimestrale anatocistica degli interessi passivi, maggiore attenzione deve essere rivolta alla corretta articolazione del procedimento volto ad ottenere la restituzione di quanto ingiustamente versato dal correntista-attore al proprio istituto bancario.

L’istituto dell’anatocismo Bancario ha subito una vera e propria rivoluzione copernicana a seguito delle sentenze n. 2374 del 16/3/99 e  n. 3096 del 30/3/99, emesse dal Supremo Collegio, nonché della sentenza n. 21095 del 4/11/2004, la quale ha stabilito che: Le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal correntista devono considerarsi nulle anche se contratte prima delle pronunce della giurisprudenza del 1999”.

A seguito di ciò, si sono instaurate presso i tribunali d’Italia un numero considerevole di giudizi restitutori il cui petitum può essere generalizzato nel seguente abstract: “premesso che l’attore è titolare del c/c numero XX presso la Banca YY, considerato il mutato orientamento del Supremo Collegio in tema di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici, voglia l’On. Tribunale adito condannare l’istituto di credito alla restituzione di quanto indebitamente percepito a causa della capitalizzazione trimestrale degli interessi, somma, da accertare in corso di causa, attraverso disponenda CTU, previo ordine di esibizione ex. art. 210 cpc di tutti gli estratti di conto corrente relativi al rapporto”.

Oggetto del presente contributo è un analisi tecnico-giuridica del corretto procedimento giudiziario attraverso cui giungere alla condanna dell’Istituto di credito alla refusione in favore del correntista di quanto indebitamente percepito a titolo di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici passivi.

Infatti, forse a seguito dell’entusiasmo con cui sono state accolte le pronunzie della Cassazione del ‘99, l’attenzione si è focalizzata più sulla quantità materiale dei giudizi che sulla qualità giuridica degli stessi.

Qualora l’atto introduttivo del giudizio sia riconducibile all’abstract sopra riportato, esso va incontro ad una serie di censure che possono essere così qualificate: la prima, violazione delle norme in materia di onore della prova; la seconda, violazione dell’art. 210 codice procedura civile.

1) Violazione delle norme in tema di onore della Prova

L’art. 2697, I comma del codice civile dispone che: “Chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.

L’art. 61 del codice di procedura civile dispone che: “Quando necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento dei singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica”; non è un caso che tale articolo sia situato nel Libro I (disposizioni generali), Titolo I (degli organi giudiziari), Capo III (del consulente  tecnico, del custode e degli altri ausiliari del giudice).

Pertanto, il C.T.U. è investito della qualità di ausiliare di giustizia e viene accostato al ruolo e alle prerogative del giudice, del quale finisce per condividere parzialmente – anche per l’operatività dei meccanismi di astensione e ricusazione – le stesse garanzie di imparzialità (Monteleone, Diritto processuale civile, 3a ed., Milano, 2002, 419).

La consulenza tecnica d’ufficio, quindi, non è mezzo di prova e, pertanto, non può essere disposta per sopperire alla carenza di elementi probatori che, al contrario, in base a quanto disposto dall’art. 2697 codice civile, devono essere puntualmente, e rigorosamente, indicati  nell’atto di citazione.

Infatti, come precisato anche dal TAR Puglia, con sentenza n.1708/02:"Il ricorrente deve fornire un idoneo principio di prova per il modo di consentire al giudicante (che non può sostituirsi alla parte nella ricerca di elementi da introdurre in giudizio - e ciò per la peculiarità del giudizio amministrativo che si caratterizza per il sistema dispositivo con metodo acquisitivo) di esercitare i propri poteri istruttori. La consulenza tecnica costituisce non già mezzo di prova, bensì mezzo di valutazione tecnica di fatti già probatoriamente acquisiti; la richiesta di CTU cui parte ricorrente affidi l’assolvimento di oneri probatori (che invece direttamente le incombevano) non può trovare accoglimento".

Pertanto, la richiesta di CTU contabile che abbia ad oggetto lo scorporo degli interessi passivi capitalizzati trimestralmente e, di conseguenza, la rideterminazione del saldo debitorio, così come formulata nella maggior parte degli atti di citazione, ha l’unico scopo di eludere e violare il principio dell’onere della prova.

Quindi, di fatto, con questo comportamento processuale, spesso non censurato dai Giudici, parte attrice delega ad una consulenza tecnica d’ufficio, che per come ribadito in precedenza, non può essere un mezzo di prova di parte, l’assolvimento di oneri probatori che invece incombono direttamente su di sè.

In tutti i casi in cui l’attore delega alla Consulenza Tecnica d’ufficio la “prova” delle domande avanzate nel processo instaurato le proprie richieste dovrebbero essere rigettate per mancato assolvimento degli oneri probatori e, quindi, per violazione delle norme sull’onere della prova, in quanto la consulenza tecnica non è mezzo di prova né di ricerca della prova, essendo, piuttosto, strumento di ausilio per il Giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze tecniche (Cassazione, Sentenze nn. 6479/02, 3343/01, 5422/02, 13686/01).

Sul punto si può vedere la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme, 19/2/2004.

2) Violazione dell’art. 210 c.p.c.

Un secondo possibile vizio processuale è costituito dalla violazione delle disposizioni in tema di ordine di esibizione ex art. 210 del codice di procedura civile.

L’art 210 c.p.c. dispone che: “Negli stessi limiti in cui può essere ordinata a norma dell’art. 118 c.p.c. l’ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo(cioè quando ciò appare indispensabile per conoscere i fatti di causa, senza che ciò comporti un grave danno per la persona o per il terzo), il Giudice Istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o a un terzo di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione in processo”.

Pertanto, l’esibizione costituisce una modalità di acquisizione al processo delle prove documentali. In particolare, si parla di produzione quando la parte che è in possesso del documento ed intende valersene in giudizio, lo mette spontaneamente a disposizione del giudice mediante deposito in cancelleria o produzione in udienza; si parla di esibizione quando la parte che intende utilizzare il documento come prova non ne ha la disponibilità in quanto esso è in possesso di un terzo o della controparte ai quali l’attività di produzione del documento viene imposta attraverso un ordine del giudice (Cavallone, Esibizione delle prove nel diritto processuale civile, in Digesto civ., VII, Torino, 1991, 664).

Tale strumento probatorio viene normalmente, ma illegittimamente, richiesto da parte attrice per sopperire alla mancanza di idonea documentazione contabile, che, invero, dovrebbe essere in suo possesso, in quanto l’istituto di credito provvede, secondo quando disposto nel contratto di apertura di conto corrente, ad inviare presso il domicilio eletto dal correntista-attore, con cadenza mensile, l’estratto di conto corrente con tutti i movimenti contabili del periodo di riferimento.

Pertanto, qualora il correntista abbia smarrito gli estratti conto inviati presso il proprio domicilio si configura una negligenza da parte sua che non può essere alleviata ricorrendo allo strumento dell’art. 210 c.p.c., imponendo, per effetto di ciò, all’istituto di credito la produzione in giudizio di tutti gli estratti di conto corrente.

Ciò comporta una gravissima violazione dell’onere della prova, in quanto il convenuto deve produrre in giudizio prove documentali a sostegno della domanda dell’attore.

L’orientamento giurisprudenziale del Supremo Collegio in merito all’istituto di cui all’art. 210 c.p.c. precisa che:"L’ordine di esibizione di documenti previsto dall’art. 210 c.p.c., provvedimento tipicamente discrezionale del giudice di merito, censurabile in sede di legittimità solo per vizio di motivazione, deve riguardare documenti che siano specificamente indicati dalla parte che ne abbia fatto istanza e che risultino indispensabili al fine della prova dei fatti controversi; non può quindi in alcun caso supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova a carico della parte istante" (Cassazione, Sentenza n.10043/04).

In modo più specifico è stato stabilito che: “Il potere officioso del giudice di ordinare, ai sensi degli art. 210 e 421 c.p.c., alla parte l’esibizione di documenti sufficientemente individuati, ha carattere discrezionale e, non potendo sopperire all’inerzia della parte nel dedurre mezzi di prova, può essere esercitato solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile aliunde, non anche per fini meramente esplorativi. Il mancato esercizio da parte del giudice del relativo potere, anche se sollecitato, non è censurabile in sede di legittimità neppure se il giudice abbia omesso di motivare al riguardo” (Cassazione, Sentenza n.5908/04).

Pertanto, qualora l’Istituto di Credito abbia proceduto al regolare invio  presso il domicilio eletto dal correntista-attore, quest’ultimo, in caso di smarrimento, deve, preventivamente, proporre apposita istanza di richiesta copia alla Banca ex art. 119 TUB. Solo qualora tale richiesta sia stata inevasa dall’istituto di credito, l’attore può legittimamente ricorrere all’ausilio dello strumento di cui all’art. 210 c.p.c., in caso contrario difetta il presupposto della inacquisibilità aliunde della documentazione, ed è pertanto illegittima la richiesta di esibizione dei medesimi estratti conto.

Infatti, l’ordine di esibizione ex art. 210 cpc riguarda documenti che sono nell’esclusivo possesso della controparte o di un terzo, e che, quindi, la parte richiedente non è in grado di produrre, perché materialmente impossibilitata a ciò.

Sul punto si è pronunziato il Tribunale di Ivrea, 7/7/2003, secondo cui: "Presupposto per l’emanazione dell’ordine di esibizione ex art. 210 cpc è che la parte si trovi nell’impossibilità di produrre essa stessa in giudizio i documenti".

Pertanto, ferma restando l’illegittimità della prassi bancaria in merito alla capitalizzazione trimestrale anatocistica degli interessi passivi, maggiore attenzione deve essere rivolta alla corretta articolazione del procedimento volto ad ottenere la restituzione di quanto ingiustamente versato dal correntista-attore al proprio istituto bancario.