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L’emergenza economica non può giustificare la violazione dei principi costituzionali

“Il principio salus rei publicae suprema lex est non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale”.

E’ questo il monito inequivocabile per il Governo contenuto nelle recenti sentenze della Corte Costituzionale, n. 148/2012, depositata il 7 giugno 2012, e n. 151/2012, depositata il 14 giugno 2012.

E’ un principio netto e chiarissimo, in risposta alla difesa dello Stato che sosteneva che le recenti misure finanziarie “trovano giustificazione nell’esigenza di far fronte con urgenza ad una gravissima crisi finanziaria che mette in pericolo la stessa salus rei publicae. La gravità della situazione consentirebbe allo Stato di derogare alle regole costituzionali di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e di «intervenire legislativamente in ogni materia», in ottemperanza ai doveri espressi dalla Costituzione ed in applicazione dei princípi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), dell’uguaglianza economica e sociale (art. 3, secondo comma, Cost.), dell’unità della Repubblica (art. 5 Cost.), della responsabilità internazionale dello Stato (art. 10 Cost., dell’appartenenza all’Unione europea (art. 11 Cost.), del concorso di tutti alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), di sussidiarietà (art. 118 Cost.), della responsabilità finanziaria (art. 119 Cost.) e della tutela dell’unità giuridica ed economica (art. 120 Cost.)”.

“Tale assunto – afferma la Corte - non può essere condiviso. Le norme costituzionali menzionate dalla difesa dello Stato, infatti, non attribuiscono allo Stato il potere di derogare al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte II della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali”.

E’ patrimonio comune della nostra cultura giuridica l’assunto per cui anche il principio autonomista, sancito dall’art. 5 Cost. “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”, concorre a realizzare il principio democratico che informa, nel suo complesso, l’ordinamento repubblicano.

Il concetto di autonomia locale è chiaramente ribadito dalla Carta europea delle autonomie locali, recepita in Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439, che, dopo aver sancito all’art. 2 che “Il principio dell’autonomia locale deve essere riconosciuto dalla legislazione interna, e per quanto possibile, dalla Costituzione” all’art. 3 precisa: “Per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici. Tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti”.

Un percorso culminato nella riforma del Titolo V della Costituzione che ha introdotto il principio di pariordinazione tra diversi livelli di governo, un elemento profondamente innovativo ed in grado di definire le concrete relazioni tra Enti locali, Regioni e Stato.

Il principio così chiaramente espresso dalla Corte nelle due sentenze n. 148/2012 e n. 151/2012 non può non avere effetti anche nella trattazione dei ricorsi, fissata per il 6 novembre prossimo, in udienza pubblica, presentati alla Corte Costituzionale da sei Regioni – Piemonte, Lombardia, Veneto, Molise, Lazio e Campania – per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 23 commi 14-21, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in Legge 22 dicembre 2011, n. 214.

Il relatore in udienza sarà il giudice costituzionale prof. Gaetano Silvestri, professore ordinario di diritto costituzionale.

I ricorsi presentati dalle Regioni, seppure con sfumature ed approfondimenti diversi, com’è noto, lamentano che le disposizioni approvate con il decreto “salva Italia” sono palesemente in contrasto con i principi e le disposizioni costituzionali che disciplinano i rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali ed, in particolare, gli articoli 5, 114, 117 (comma 2, lettera p) e comma 6), 118 e 119 della Costituzione e sono, altresì, incongruenti con i principi generali della disciplina degli enti locali del nostro ordinamento.

Farà tesoro il Governo di tale precisa indicazione della Corte Costituzionale, anche per evitare il determinarsi ulteriore di incertezza e caos istituzionale?

Ancora una volta, da un primo esame del Decreto Legge 6 luglio 2012 n. 95 sulla “spending review”, sembra proprio di no.

Affrontiamo brevemente i profili di evidente incostituzionalità delle norme relative alla soppressione ed accorpamento delle Province e all’istituzione delle Città metropolitane.

Dal dossier del servizio studi del Senato emergono già numerose ed evidenti criticità nei contenuti degli art. 17 e 18 http://www.senato.it/documenti/repository/dossier/studi/2012/Dossier_374_2.pdf

L’iter previsto dall’art. 17, commi da 1 a 4, del D. L. 95/2012 per la riduzione del numero delle Province non risulta coerente con l’art. 133 della Costituzione e rischia di essere dichiarato incostituzionale dalla Corte unitamente a tutti gli atti di attuazione previsti in tempi stretti dalla norma.

L’art. 133 della Costituzione prevede infatti: “Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione sono stabilite con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”.

La Costituzione dunque prevede un iter preciso:

1) L’iniziativa dei Comuni

2) Il parere della Regione

3) Una legge dello Stato.

L’art. 17 del D. L. 95/2012 invece prevede un iter ampiamente difforme:

a) Entro il 17 luglio 2012 il Consiglio dei ministri determina, con apposita deliberazione, i criteri per la riduzione e l’accorpamento delle province, da individuarsi nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia, tenendo conto dei dati dell’ultimo censimento. Sono fatte salve le province nel cui territorio si trova il comune capoluogo di regione e le province confinanti solo con province di regioni diverse da quella di appartenenza e con una delle province interessate dall’istituzione delle Città metropolitane;

b) La deliberazione del Consiglio dei Ministri è trasmessa al Consiglio delle autonomie locali di ogni regione a Statuto ordinario o, in mancanza, all’organo regionale di raccordo tra regione ed enti locali;

c) Entro quaranta giorni i Consigli delle autonomie locali deliberano un piano di riduzioni e accorpamenti relativo alle province ubicate nel territorio della rispettiva regione

d) Entro cinque giorni dall’adozione, la delibera è trasmessa al Governo;

e) Nei dieci giorni successivi il Governo acquisisce il parere di ciascuna Regione interessata.

Dopo aver delineato quest’iter, l’art. 17 comma 4 chiude: “entro venti giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del D. L. 95/2012, con atto legislativo di iniziativa governativa sono soppresse o accorpate le province sulla base delle deliberazioni e intese sopra indicate. Se a tale data tali deliberazioni in una o più regioni non risultano assunte, il provvedimento legislativo è assunto previo parere della Conferenza unificata, che si esprime entro dieci giorni esclusivamente in ordine alla riduzione ed all’accorpamento delle province ubicate nei territori delle regioni medesime”.

Cosa si intende per “atto legislativo di iniziativa governativa”? Un disegno di legge di iniziativa governativa? Un decreto legge?

Oppure una delega legislativa attribuita dal governo a se stesso tramite decreto d’urgenza?

Ma sappiamo che l’art. 15, comma 2, della Legge 400/1988 dispone:

“Il Governo non può, mediante decreto-legge:

a) conferire deleghe legislative ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione;

b) provvedere nelle materie indicate nell’articolo 72, quarto comma, della Costituzione;

(…)”

Il comma 6 dell’art. 17 prevede “Sono trasferite ai comuni le funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato e rientranti nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, della Costituzione”.

E il comma 7 aggiunge: “Tali funzioni amministrative sono individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro sessanta giorni, previa intesa con la Conferenza Stato–Città ed autonomie locali”.

Come già avvenuto con l’art. 23 del decreto “salva Italia” si ravvisa una violazione degli articoli 1, 5 e 114 della Costituzione poiché, con lo svuotamento delle funzioni, il Governo lede l’autonomia delle Province che, nel diritto costituzionale italiano, sono qualificate come enti esponenziali di una comunità territoriale che si organizza democraticamente, secondo l’art. 1, con organi elettivi di diretta emanazione del corpo elettorale e in base al principio fondamentale dell’art. 5 della Costituzione “la Repubblica, una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, il legislatore non può quindi abolirle, limitarle, diminuirne l’autonomia politica o incidere sul carattere democratico dell’ente, se non nelle forme e con i modi previsti dalla stessa Costituzione.

La Costituzione individua le Province come un ente territoriale e autonomo (art. 114, comma 1 e 2) e fa rifermento espresso ad esse nell’art. 117, comma 2, lett. p, prevedendo che la legge statale possa disciplinare 3 oggetti: la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali.

Allo stesso modo, l’art. 118, comma 2, statuisce che le Province siano titolari di funzioni proprie e di funzioni conferite dalla legge statale e da quella regionale.

Il sistema costituzionale dispone che le Province siano enti titolari di funzioni proprie, e cioè di quelle funzioni storicamente e in atto svolte dalle Province sulla base della legislazione esistente alla data dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 e per le quali la garanzia discende direttamente dalla previsione costituzionale, senza che sia dato alla legge statale (e, tanto meno, a quella regionale) la possibilità di incidere su quei poteri.

La Costituzione vuole che il legislatore statale individui le funzioni fondamentali delle Province e questo compito è stato assolto, sia pure a titolo provvisorio, dall’art. 21, comma 4, della legge n. 42 del 2009 e adesso con il comma 10 che le riduce sostanzialmente “all’esito delle procedura di accorpamento”.

Ma soffermandoci sul comma 7 è da chiedersi: il D.P.C.M. che deve individuare le funzioni amministrative ha valore dispositivo o ricognitivo?

L’efficacia del trasferimento delle funzioni è già attuale con la disposizione del comma 6?

Al contrario se il D.P.C.M. ha valore costitutivo del trasferimento, nel senso che l’efficacia del trasferimento discende dal decreto stesso, si appalesa un’evidente violazione dell’art. 118 che sancisce la riserva di legge, statale o regionale, per l’attribuzione delle funzioni amministrative a Comuni e Province non ammettendo possibile un provvedimento amministrativo quale il D.P.C.M.

Ma è nel merito che la scelta del Governo appare incomprensibile.

Se appare ormai acquisito, anche dal Governo, il principio della necessità di un Ente intermedio, con adeguate dimensioni, tra Regioni e Comuni, cui assegnate le funzioni di area vasta va sicuramente integrato quanto previsto dai commi da 6 a 10 dell’art. 17.

Un chiaro riferimento normativo e riscontrabile nell’art. 21 della Legge 5 maggio 2009 n. 42, che prevede:

“Per le province, le funzioni, e i relativi servizi, da considerare ai fini della determinazione dell’entità e del riparto dei fondi perequativi in base al fabbisogno standard o alla capacità fiscale sono individuate nelle seguenti:

a) funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo

b) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica;

c) funzioni nel campo dei trasporti;

d) funzioni riguardanti la gestione del territorio (viabilità e pianificazione territoriale);

e) funzioni nel campo della tutela ambientale;

f) funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi del mercato del lavoro”.

Il comma 10 dell’art. 17 del D. L. 95/2012 trascura in particolare:

- L’edilizia scolastica, in particolare per l’istruzione secondaria superiore

- La formazione professionale

- Le funzioni in materia di mercato del lavoro e in particolare la gestione dei Centri per l’Impiego.

Per il mercato del lavoro, in particolare, è stato recentemente predisposto ed ultimato e quindi esaminato dalla CoPAFF, Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, nella seduta del 28 giugno scorso, il documento tecnico metodologico relativo ai fabbisogni standard per la funzione Sviluppo economico – centri per l’impiego – delle Province, che rappresenta il punto di riferimento, previsto dalla legge, per valutare l’efficienza dei servi resi.

Sul mercato del lavoro si rischia inoltre ulteriore confusione ordinamentale sulle competenze, del tutto non auspicabile in un momento di crisi, nel quale le politiche attive del lavoro messe in atto dalle Province e le attività dei Centri per l’Impiego sul territorio risultano fondamentali.

La confusione deriva dall’incertezza nel far rientrare tali competenze oggi svolte dalle Province tra “le funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato” e, pertanto, da trasferire ai Comuni ai sensi dell’art. 17, comma 6 e segg., del D. L. 95/2012 oppure tra le funzioni delegate alle Province dalle Regioni.

Il D. Lgs. 469/1997 da cui discende il decentramento delle funzioni di cui trattasi, infatti, da un lato ha “conferito alle regioni le funzioni e i compiti relativi al collocamento” ma dall’altro ha espressamente indicato alle Regioni di procedere alla “attribuzione alle Province delle funzioni e dei compiti relativi al collocamento”.

Inoltre la riforma Fornero approvata con Legge 92/2012 cita espressamente ancora le Province come enti competenti a gestire le politiche del lavoro.

Occorre pertanto fare chiarezza al più presto, rilevando sin d’ora l’impraticabilità concreta di un’attribuzione di tali competenze ai singoli Comuni.

Risulta fondamentale, dunque, per dare senso alla riforma delle Province, integrare le funzioni fondamentali, riproponendo quanto meno quanto già previsto dalla Legge 42/2009.

Altrettanto rilevante potrebbe essere la scelta di attribuire alle Province l’organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali in armonia con la vigente normativa, da ultimo modificata dall’art. 53 del D. L. 22 giugno 2012 n. 83 “Misure urgenti per la crescita del Paese”, il cosiddetto decreto sviluppo.

L’organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali infatti deve essere attuata in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio.

La dimensione degli ambiti o bacini territoriali ottimali di norma deve essere non inferiore almeno a quella del territorio provinciale.

Le regioni possono individuare specifici bacini territoriali di dimensione diversa da quella provinciale, motivando la scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica e in base a principi di proporzionalità, adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio, anche su proposta dei comuni presentata entro il 31 maggio 2012 previa lettera di adesione dei sindaci interessati o delibera di un organismo associato e già costituito ai sensi dell’articolo 30 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

Perché la riforma abbia un senso e dia risposte adeguate in termini di efficienza ed efficacia della gestione dei servizi sul territorio, le funzioni fondamentali da attribuire alle “nuove” Province, quali Enti con funzioni di area vasta, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione dovrebbero essere almeno le seguenti:

a) funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo

b) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento

c) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica per l’istruzione secondaria superiore;

d) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale;

e) costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;

f) funzioni riguardanti la gestione del territorio, la tutela della fauna, parchi e riserve naturali di in ambito sovracomunale;

g) funzioni nel campo della tutela ambientale, della programmazione e gestione dei rifiuti, della tutela della qualità dell’aria e delle acque, di valutazione di impatto ambientale e di valutazione ambientale strategica per interventi di valenza provinciale;

h) funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi del mercato del lavoro;

i) formazione professionale;

j) Organizzazione dei servizi pubblici locali su base provinciale.

L’art. 18, comma 4, del D. L. 95/2012, per le Città metropolitane, stabilisce che, “in sede di prima applicazione è di diritto sindaco metropolitano il sindaco del comune capoluogo”.

Ciò in violazione dei principi costituzionali di democraticità degli enti territoriali locali e di autogoverno, oltre che di uguaglianza dei cittadini e del loro voto ex artt. 1, 3, 48, 49, 114 e 117 Cost.; i cittadini dei Comuni compresi nella Provincia soppressa per far posto alla città metropolitana si troveranno, ope legis, ad essere amministrati dal Sindaco del Comune capoluogo che diviene automaticamente Sindaco metropolitano, cioè presidente della città metropolitana, con tutte le funzioni della Provincia soppressa integrate da quelle indicate al comma 7 dell’art. 18.

Questa disposizione incostituzionale può addirittura valere anche per le consigliature successive alla luce di quanto sancito dall’art. 18 comma 4, che rimette allo statuto della città metropolitana, fra le varie ipotesi, anche quella che il sindaco metropolitano sia sempre di diritto il sindaco del comune capoluogo.

Inoltre, in violazione della riserva di legge in materia di sistema elettorale delle Città Metropolitane di cui agli artt. 48 e 117 Cost.. l’art. 18 comma demanda allo Statuto della Città Metropolitana la scelta del metodo di elezione del Sindaco metropolitano, che può prevedere anche l’elezione a suffragio universale.

Dovremmo dunque finalmente liberarci, nell’individuazione del migliore assetto istituzionale, dalla decretazione d’urgenza.

Solo così si potrà avviare una riflessione seria e approfondita e giungere a decisioni razionali e praticabili.

“Il principio salus rei publicae suprema lex est non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale”.

E’ questo il monito inequivocabile per il Governo contenuto nelle recenti sentenze della Corte Costituzionale, n. 148/2012, depositata il 7 giugno 2012, e n. 151/2012, depositata il 14 giugno 2012.

E’ un principio netto e chiarissimo, in risposta alla difesa dello Stato che sosteneva che le recenti misure finanziarie “trovano giustificazione nell’esigenza di far fronte con urgenza ad una gravissima crisi finanziaria che mette in pericolo la stessa salus rei publicae. La gravità della situazione consentirebbe allo Stato di derogare alle regole costituzionali di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni e di «intervenire legislativamente in ogni materia», in ottemperanza ai doveri espressi dalla Costituzione ed in applicazione dei princípi costituzionali fondamentali della solidarietà economica e sociale (art. 2 Cost.), dell’uguaglianza economica e sociale (art. 3, secondo comma, Cost.), dell’unità della Repubblica (art. 5 Cost.), della responsabilità internazionale dello Stato (art. 10 Cost., dell’appartenenza all’Unione europea (art. 11 Cost.), del concorso di tutti alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), di sussidiarietà (art. 118 Cost.), della responsabilità finanziaria (art. 119 Cost.) e della tutela dell’unità giuridica ed economica (art. 120 Cost.)”.

“Tale assunto – afferma la Corte - non può essere condiviso. Le norme costituzionali menzionate dalla difesa dello Stato, infatti, non attribuiscono allo Stato il potere di derogare al riparto delle competenze fissato dal Titolo V della Parte II della Costituzione, neppure in situazioni eccezionali”.

E’ patrimonio comune della nostra cultura giuridica l’assunto per cui anche il principio autonomista, sancito dall’art. 5 Cost. “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”, concorre a realizzare il principio democratico che informa, nel suo complesso, l’ordinamento repubblicano.

Il concetto di autonomia locale è chiaramente ribadito dalla Carta europea delle autonomie locali, recepita in Italia con la legge 30 dicembre 1989, n. 439, che, dopo aver sancito all’art. 2 che “Il principio dell’autonomia locale deve essere riconosciuto dalla legislazione interna, e per quanto possibile, dalla Costituzione” all’art. 3 precisa: “Per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare nell’ambito della legge, sotto la loro responsabilità, e a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici. Tale diritto è esercitato da Consigli e Assemblee costituiti da membri eletti a suffragio libero, segreto, paritario, diretto ed universale, in grado di disporre di organi esecutivi responsabili nei loro confronti”.

Un percorso culminato nella riforma del Titolo V della Costituzione che ha introdotto il principio di pariordinazione tra diversi livelli di governo, un elemento profondamente innovativo ed in grado di definire le concrete relazioni tra Enti locali, Regioni e Stato.

Il principio così chiaramente espresso dalla Corte nelle due sentenze n. 148/2012 e n. 151/2012 non può non avere effetti anche nella trattazione dei ricorsi, fissata per il 6 novembre prossimo, in udienza pubblica, presentati alla Corte Costituzionale da sei Regioni – Piemonte, Lombardia, Veneto, Molise, Lazio e Campania – per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 23 commi 14-21, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in Legge 22 dicembre 2011, n. 214.

Il relatore in udienza sarà il giudice costituzionale prof. Gaetano Silvestri, professore ordinario di diritto costituzionale.

I ricorsi presentati dalle Regioni, seppure con sfumature ed approfondimenti diversi, com’è noto, lamentano che le disposizioni approvate con il decreto “salva Italia” sono palesemente in contrasto con i principi e le disposizioni costituzionali che disciplinano i rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali ed, in particolare, gli articoli 5, 114, 117 (comma 2, lettera p) e comma 6), 118 e 119 della Costituzione e sono, altresì, incongruenti con i principi generali della disciplina degli enti locali del nostro ordinamento.

Farà tesoro il Governo di tale precisa indicazione della Corte Costituzionale, anche per evitare il determinarsi ulteriore di incertezza e caos istituzionale?

Ancora una volta, da un primo esame del Decreto Legge 6 luglio 2012 n. 95 sulla “spending review”, sembra proprio di no.

Affrontiamo brevemente i profili di evidente incostituzionalità delle norme relative alla soppressione ed accorpamento delle Province e all’istituzione delle Città metropolitane.

Dal dossier del servizio studi del Senato emergono già numerose ed evidenti criticità nei contenuti degli art. 17 e 18 http://www.senato.it/documenti/repository/dossier/studi/2012/Dossier_374_2.pdf

L’iter previsto dall’art. 17, commi da 1 a 4, del D. L. 95/2012 per la riduzione del numero delle Province non risulta coerente con l’art. 133 della Costituzione e rischia di essere dichiarato incostituzionale dalla Corte unitamente a tutti gli atti di attuazione previsti in tempi stretti dalla norma.

L’art. 133 della Costituzione prevede infatti: “Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione sono stabilite con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”.

La Costituzione dunque prevede un iter preciso:

1) L’iniziativa dei Comuni

2) Il parere della Regione

3) Una legge dello Stato.

L’art. 17 del D. L. 95/2012 invece prevede un iter ampiamente difforme:

a) Entro il 17 luglio 2012 il Consiglio dei ministri determina, con apposita deliberazione, i criteri per la riduzione e l’accorpamento delle province, da individuarsi nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia, tenendo conto dei dati dell’ultimo censimento. Sono fatte salve le province nel cui territorio si trova il comune capoluogo di regione e le province confinanti solo con province di regioni diverse da quella di appartenenza e con una delle province interessate dall’istituzione delle Città metropolitane;

b) La deliberazione del Consiglio dei Ministri è trasmessa al Consiglio delle autonomie locali di ogni regione a Statuto ordinario o, in mancanza, all’organo regionale di raccordo tra regione ed enti locali;

c) Entro quaranta giorni i Consigli delle autonomie locali deliberano un piano di riduzioni e accorpamenti relativo alle province ubicate nel territorio della rispettiva regione

d) Entro cinque giorni dall’adozione, la delibera è trasmessa al Governo;

e) Nei dieci giorni successivi il Governo acquisisce il parere di ciascuna Regione interessata.

Dopo aver delineato quest’iter, l’art. 17 comma 4 chiude: “entro venti giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del D. L. 95/2012, con atto legislativo di iniziativa governativa sono soppresse o accorpate le province sulla base delle deliberazioni e intese sopra indicate. Se a tale data tali deliberazioni in una o più regioni non risultano assunte, il provvedimento legislativo è assunto previo parere della Conferenza unificata, che si esprime entro dieci giorni esclusivamente in ordine alla riduzione ed all’accorpamento delle province ubicate nei territori delle regioni medesime”.

Cosa si intende per “atto legislativo di iniziativa governativa”? Un disegno di legge di iniziativa governativa? Un decreto legge?

Oppure una delega legislativa attribuita dal governo a se stesso tramite decreto d’urgenza?

Ma sappiamo che l’art. 15, comma 2, della Legge 400/1988 dispone:

“Il Governo non può, mediante decreto-legge:

a) conferire deleghe legislative ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione;

b) provvedere nelle materie indicate nell’articolo 72, quarto comma, della Costituzione;

(…)”

Il comma 6 dell’art. 17 prevede “Sono trasferite ai comuni le funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato e rientranti nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, della Costituzione”.

E il comma 7 aggiunge: “Tali funzioni amministrative sono individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro sessanta giorni, previa intesa con la Conferenza Stato–Città ed autonomie locali”.

Come già avvenuto con l’art. 23 del decreto “salva Italia” si ravvisa una violazione degli articoli 1, 5 e 114 della Costituzione poiché, con lo svuotamento delle funzioni, il Governo lede l’autonomia delle Province che, nel diritto costituzionale italiano, sono qualificate come enti esponenziali di una comunità territoriale che si organizza democraticamente, secondo l’art. 1, con organi elettivi di diretta emanazione del corpo elettorale e in base al principio fondamentale dell’art. 5 della Costituzione “la Repubblica, una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, il legislatore non può quindi abolirle, limitarle, diminuirne l’autonomia politica o incidere sul carattere democratico dell’ente, se non nelle forme e con i modi previsti dalla stessa Costituzione.

La Costituzione individua le Province come un ente territoriale e autonomo (art. 114, comma 1 e 2) e fa rifermento espresso ad esse nell’art. 117, comma 2, lett. p, prevedendo che la legge statale possa disciplinare 3 oggetti: la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali.

Allo stesso modo, l’art. 118, comma 2, statuisce che le Province siano titolari di funzioni proprie e di funzioni conferite dalla legge statale e da quella regionale.

Il sistema costituzionale dispone che le Province siano enti titolari di funzioni proprie, e cioè di quelle funzioni storicamente e in atto svolte dalle Province sulla base della legislazione esistente alla data dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 e per le quali la garanzia discende direttamente dalla previsione costituzionale, senza che sia dato alla legge statale (e, tanto meno, a quella regionale) la possibilità di incidere su quei poteri.

La Costituzione vuole che il legislatore statale individui le funzioni fondamentali delle Province e questo compito è stato assolto, sia pure a titolo provvisorio, dall’art. 21, comma 4, della legge n. 42 del 2009 e adesso con il comma 10 che le riduce sostanzialmente “all’esito delle procedura di accorpamento”.

Ma soffermandoci sul comma 7 è da chiedersi: il D.P.C.M. che deve individuare le funzioni amministrative ha valore dispositivo o ricognitivo?

L’efficacia del trasferimento delle funzioni è già attuale con la disposizione del comma 6?

Al contrario se il D.P.C.M. ha valore costitutivo del trasferimento, nel senso che l’efficacia del trasferimento discende dal decreto stesso, si appalesa un’evidente violazione dell’art. 118 che sancisce la riserva di legge, statale o regionale, per l’attribuzione delle funzioni amministrative a Comuni e Province non ammettendo possibile un provvedimento amministrativo quale il D.P.C.M.

Ma è nel merito che la scelta del Governo appare incomprensibile.

Se appare ormai acquisito, anche dal Governo, il principio della necessità di un Ente intermedio, con adeguate dimensioni, tra Regioni e Comuni, cui assegnate le funzioni di area vasta va sicuramente integrato quanto previsto dai commi da 6 a 10 dell’art. 17.

Un chiaro riferimento normativo e riscontrabile nell’art. 21 della Legge 5 maggio 2009 n. 42, che prevede:

“Per le province, le funzioni, e i relativi servizi, da considerare ai fini della determinazione dell’entità e del riparto dei fondi perequativi in base al fabbisogno standard o alla capacità fiscale sono individuate nelle seguenti:

a) funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo

b) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica;

c) funzioni nel campo dei trasporti;

d) funzioni riguardanti la gestione del territorio (viabilità e pianificazione territoriale);

e) funzioni nel campo della tutela ambientale;

f) funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi del mercato del lavoro”.

Il comma 10 dell’art. 17 del D. L. 95/2012 trascura in particolare:

- L’edilizia scolastica, in particolare per l’istruzione secondaria superiore

- La formazione professionale

- Le funzioni in materia di mercato del lavoro e in particolare la gestione dei Centri per l’Impiego.

Per il mercato del lavoro, in particolare, è stato recentemente predisposto ed ultimato e quindi esaminato dalla CoPAFF, Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, nella seduta del 28 giugno scorso, il documento tecnico metodologico relativo ai fabbisogni standard per la funzione Sviluppo economico – centri per l’impiego – delle Province, che rappresenta il punto di riferimento, previsto dalla legge, per valutare l’efficienza dei servi resi.

Sul mercato del lavoro si rischia inoltre ulteriore confusione ordinamentale sulle competenze, del tutto non auspicabile in un momento di crisi, nel quale le politiche attive del lavoro messe in atto dalle Province e le attività dei Centri per l’Impiego sul territorio risultano fondamentali.

La confusione deriva dall’incertezza nel far rientrare tali competenze oggi svolte dalle Province tra “le funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato” e, pertanto, da trasferire ai Comuni ai sensi dell’art. 17, comma 6 e segg., del D. L. 95/2012 oppure tra le funzioni delegate alle Province dalle Regioni.

Il D. Lgs. 469/1997 da cui discende il decentramento delle funzioni di cui trattasi, infatti, da un lato ha “conferito alle regioni le funzioni e i compiti relativi al collocamento” ma dall’altro ha espressamente indicato alle Regioni di procedere alla “attribuzione alle Province delle funzioni e dei compiti relativi al collocamento”.

Inoltre la riforma Fornero approvata con Legge 92/2012 cita espressamente ancora le Province come enti competenti a gestire le politiche del lavoro.

Occorre pertanto fare chiarezza al più presto, rilevando sin d’ora l’impraticabilità concreta di un’attribuzione di tali competenze ai singoli Comuni.

Risulta fondamentale, dunque, per dare senso alla riforma delle Province, integrare le funzioni fondamentali, riproponendo quanto meno quanto già previsto dalla Legge 42/2009.

Altrettanto rilevante potrebbe essere la scelta di attribuire alle Province l’organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali in armonia con la vigente normativa, da ultimo modificata dall’art. 53 del D. L. 22 giugno 2012 n. 83 “Misure urgenti per la crescita del Paese”, il cosiddetto decreto sviluppo.

L’organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali infatti deve essere attuata in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio.

La dimensione degli ambiti o bacini territoriali ottimali di norma deve essere non inferiore almeno a quella del territorio provinciale.

Le regioni possono individuare specifici bacini territoriali di dimensione diversa da quella provinciale, motivando la scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica e in base a principi di proporzionalità, adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio, anche su proposta dei comuni presentata entro il 31 maggio 2012 previa lettera di adesione dei sindaci interessati o delibera di un organismo associato e già costituito ai sensi dell’articolo 30 del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267.

Perché la riforma abbia un senso e dia risposte adeguate in termini di efficienza ed efficacia della gestione dei servizi sul territorio, le funzioni fondamentali da attribuire alle “nuove” Province, quali Enti con funzioni di area vasta, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione dovrebbero essere almeno le seguenti:

a) funzioni generali di amministrazione, di gestione e di controllo

b) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento

c) funzioni di istruzione pubblica, ivi compresa l’edilizia scolastica per l’istruzione secondaria superiore;

d) pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale;

e) costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;

f) funzioni riguardanti la gestione del territorio, la tutela della fauna, parchi e riserve naturali di in ambito sovracomunale;

g) funzioni nel campo della tutela ambientale, della programmazione e gestione dei rifiuti, della tutela della qualità dell’aria e delle acque, di valutazione di impatto ambientale e di valutazione ambientale strategica per interventi di valenza provinciale;

h) funzioni nel campo dello sviluppo economico relative ai servizi del mercato del lavoro;

i) formazione professionale;

j) Organizzazione dei servizi pubblici locali su base provinciale.

L’art. 18, comma 4, del D. L. 95/2012, per le Città metropolitane, stabilisce che, “in sede di prima applicazione è di diritto sindaco metropolitano il sindaco del comune capoluogo”.

Ciò in violazione dei principi costituzionali di democraticità degli enti territoriali locali e di autogoverno, oltre che di uguaglianza dei cittadini e del loro voto ex artt. 1, 3, 48, 49, 114 e 117 Cost.; i cittadini dei Comuni compresi nella Provincia soppressa per far posto alla città metropolitana si troveranno, ope legis, ad essere amministrati dal Sindaco del Comune capoluogo che diviene automaticamente Sindaco metropolitano, cioè presidente della città metropolitana, con tutte le funzioni della Provincia soppressa integrate da quelle indicate al comma 7 dell’art. 18.

Questa disposizione incostituzionale può addirittura valere anche per le consigliature successive alla luce di quanto sancito dall’art. 18 comma 4, che rimette allo statuto della città metropolitana, fra le varie ipotesi, anche quella che il sindaco metropolitano sia sempre di diritto il sindaco del comune capoluogo.

Inoltre, in violazione della riserva di legge in materia di sistema elettorale delle Città Metropolitane di cui agli artt. 48 e 117 Cost.. l’art. 18 comma demanda allo Statuto della Città Metropolitana la scelta del metodo di elezione del Sindaco metropolitano, che può prevedere anche l’elezione a suffragio universale.

Dovremmo dunque finalmente liberarci, nell’individuazione del migliore assetto istituzionale, dalla decretazione d’urgenza.

Solo così si potrà avviare una riflessione seria e approfondita e giungere a decisioni razionali e praticabili.