Linee guida per formare un elettorato sensibile alle tematiche del cambiamento climatico
Il recente rapporto OECD, dal titolo The Political Economy of Climate Change Mitigation Policies: How To Build a Costituency to Address Global Warming?, affronta un tema di scottante attualità, soprattutto in tempi di crisi economica, che può essere facilmente traslato dal piano della politica ambientale a quello di altri settori dove è richiesto un intervento pubblico di riforma strutturale. Il documento contiene, infatti, una serie di proposte per i policy makers in grado di orientare efficacemente il collegio elettorale di riferimento.
La ricetta è elaborata non per “manipolare” il consenso degli elettori quanto piuttosto per insegnare ai politici l’assertività e per favorire la condivisibilità di scelte politiche spesso difficili.
Tuttavia non possono essere sottovalutate alcune delicate implicazioni: i “suggerimenti” formulati, nel caso di specie, rispondono all’intento di mitigare il cambiamento climatico, ma potrebbero comunque rivelarsi un utile passepartout per perseguire obiettivi politici prescindendo dai rispettivi contenuti.
Aspetti generali
Il Rapporto OCDE sulle politiche di mitigazione del cambiamento climatico spiega come formare un elettorato in grado di affrontare il tema del riscaldamento globale. Il rapporto analizza in primo luogo le difficoltà che solitamente le autorità incontrano per risolvere le tematiche in questione. Infatti quando si tratta di beni pubblici, come il clima, le sfide politiche diventano più complicate, in quanto è difficile convincere gli elettori del valore di un’azione di politica interna finalizzata a ridurre le emissioni di gas serra (GHG greenhouse gas) mentre c’è incertezza sugli impegni assunti da altri Stati in merito allo stesso problema.
L’unica soluzione consiste nel formare un elettorato consapevole dell’importanza della riduzione di emissioni nocive nell’atmosfera, assicurando la credibilità dell’obiettivo finale oltre che delle tappe intermedie da perseguire. D’altra parte il cambiamento climatico rappresenta una sfida difficile, sia perché è un problema di portata generale che va ben oltre i confini nazionali, sia perché le relative politiche economiche una volta avviate produrranno effetti solo a lungo termine. Tuttavia si è ormai consolidato il consenso generale intorno all’idea di quello che può essere definito un livello accettabile di rischio, cioè limitare l’aumento globale della temperatura media della terra entro i 2°. Questo è infatti il risultato dell’accordo di Copenaghen, successivamente ratificato dalla Conferenza di Cancun, in Messico, nel 2010.
Si è stabilito in quella sede di ridurre le emissioni di gas serra in misura differenziata ma consistente entro il 2020 al fine di limitare al 50% le probabilità di aumento della temperatura entro i 2°: per esempio, la UE le ridurrà del 20% rispetto ai livelli del 1990, gli USA del 17% rispetto ai livelli del 2005, il Giappone del 25% rispetto ai livelli del 1990, l’Australia del 5-25% rispetto ai livelli del 2000. Si ipotizza un’ulteriore riduzione nel 2050 e nel 2100. Circa 80 Stati (quelli che contano le maggiori emissioni di gas serra) hanno approvato sia la riduzione delle attuali emissioni (Paesi industrializzati), sia il contenimento delle future emissioni (Paesi in via di sviluppo). E’ ormai acclarato quindi che gli Stati devono assumere responsabilità comuni, seppure diversificate a seconda del livello di sviluppo.
Certo è che la riduzione delle emissioni presuppone una riforma strutturale e un notevole cambiamento economico.
Strumenti della riforma strutturale per il controllo delle esternalità ambientali:
* il sistema dei permessi negoziabili
Lo sviluppo economico sostenibile e una società rispettosa dell’ambiente rappresentano sì delle opportunità, ma sono soprattutto la futura sfida politica ed economica.
Il primo passo dovrebbe consistere nel coordinare le politiche energetiche degli Stati uniformando il prezzo dell’anidride carbonica e degli altri gas serra attraverso l’implementazione e l’eventuale collegamento tra i mercati del sistema dei permessi commerciali delle emissioni. Questo, tra l’altro, era uno degli obiettivi del protocollo di Kioto, vale a dire l’istituzione di un mercato internazionale dei titoli ambientali, tra i quali l’Emission Trading System (ETS). Il meccanismo si fonda sul presupposto che ciascuno Stato riceva un numero di permessi corrispondente all’ammontare complessivo di emissioni compatibile con l’obbligo di riduzione delle medesime emissioni che gli è stato assegnato nel periodo di riferimento. Decorso tale termine il Paese dovrà riconsegnare un numero di permessi corrispondente alle emissioni effettivamente prodotte. Tuttavia il sistema consente la negoziazione dei permessi e, quindi, i Paesi chiamati ad una drastica riduzione delle emissioni e ad assumere conseguenti elevati costi di abbattimento delle stesse potrebbero trovare conveniente l’acquisto dei permessi. Specularmente gli Stati che adottano tecnologie energetiche più efficienti potrebbero trarre profitti dalla vendita del surplus di permessi rispetto a quelli distribuiti, in quanto hanno deciso di ridurre le emissioni al di sotto della soglia convenuta. In sostanza il meccanismo, che è stato attivato per pochi anni (solo in Europa è in fase di sperimentazione), punta sulla libera circolazione dei permessi in un mercato internazionale “in condizioni di perfetta concorrenza”, dove ciascun Paese tenderà a minimizzare i propri costi complessivi finché non raggiungerà la condizione di equilibrio per la quale i costi marginali di abbattimento delle emissioni eguagliano il prezzo dei relativi permessi. Ciò sul noto assunto che “la condizione economica necessaria per la minimizzazione dei costi complessivi per il raggiungimento di un determinato obiettivo è l’uguaglianza dei costi marginali di abbattimento per tutte le attività interessate”.1
Il sistema auspicato dal rapporto tende dunque ad ampliare il mercato di scambio dei permessi negoziabili fino al punto di equilibrio in cui il prezzo degli stessi corrisponde ai costi marginali di abbattimento delle emissioni cosicché tutti i Paesi coinvolti vedono soddisfatta la condizione di minimizzazione dei costi complessivi.
Questa scelta del trasferimento finanziario previsto dai permessi negoziabili è ritenuta più praticabile, in quanto consente di separare il luogo dove si realizza l’abbattimento delle emissioni dal soggetto che paga per esse. I sussidi per l’adozione di tecnologie pulite o per la regolazione amministrativa sono, invece, ritenute utili come strumento complementare rispetto alla negoziazione dei permessi, soprattutto in quelle aree dove la negoziazione ha fallito l’obiettivo.
1. il sistema dei prezzi
Altra soluzione ipotizzata è quella di un meccanismo chiaro di formazione dei prezzi che considera il prezzo del carbone come un costo sociale. Il sistema dei prezzi deve consentire l’equalizzazione dei costi marginali di abbattimento tra settori sia eguagliato tra le diverse fonti e la massimizzazione delle entrate fiscali.
La connessa riduzione dei costi presuppone una corretta analisi del sistema dei costi – benefici e l’adozione di politiche complementari. Gli strumenti di regolazione devono essere applicati in sinergia con la tassazione ambientale sebbene ci può essere il rischio di restringere i margini di flessibilità offerti dalla tassazione agli inquinatori che cercano di abbattere i costi effettivi delle attività inquinanti.
Inoltre vanno rimosse le politiche che introducono incentivi diversi e distorsioni nel mercato. Tutte le politiche che favoriscono le emissioni nocive sia mediante esenzioni e sussidi, incrementano anche il costo della mitigazione, ribaltando il principio che chi paga inquina.
In proposito l’OECD ha calcolato che la sola rimozione dei sussidi per combustibili fossili porterebbe a tagliare le emissioni di gas serra di circa il 10% entro il 2050.
* la tassazione ambientale
Il rapporto osserva che il decollo di questo tipo di politiche economiche è reso ancor più difficile dalla crisi economica e la maggior parte dei Paesi OECD si dimostra riluttante ad adottare riforme che gravano sulla spesa pubblica,2 preferendo operare sul lato delle entrate pubbliche.
Anche l’implementazione della carbon tax, soprattutto se a livello substatale, rischia di risultare inefficace; così pure meccanismi di regolamentazione e sovvenzioni che sono accettabili solo a breve termine. Nel primo caso i costi tendono ad essere più distribuiti (in genere ricadono sui contribuenti o sui consumatori finali), nel secondo caso i benefici sono più concentrati (nei beneficiari).
La tassazione ambientale tra l’altro presenta – in particolare la tassazione dei prodotti energetici - caratteri di regressività, considerato che i segmenti più poveri della società tendono a spendere gran parte del proprio reddito in prodotti fossili per il riscaldamento; inoltre i meno abbienti attribuiscono più importanza al cibo ed ai beni rifugio piuttosto che al miglioramento ambientale. Inoltre tale categoria reddituale vive in aree più esposte all’inquinamento e si aspetta dunque di ricevere maggiori benefici dalla green economy.
Da non sottovalutare poi i costi delle tecnologie innovative che possono essere proibitivi per i più poveri, in quanto richiedono alti investimenti di capitale che incidono eccessivamente sui redditi più bassi. Valga per tutte la considerazione che i benefici degli investimenti sulle abitazioni per le energie rinnovabili ricadono sul proprietario dell’immobile che le ha realizzate piuttosto che sul locatario.
Non è comunque facile calcolare il grado di regressività delle imposte che dipende spesso più dalle condizioni di mercato dei prodotti energetici che dal tipo di fonte energetica considerata. Influiscono peraltro i metodi di calcolo, in quanto il riferimento al reddito personale è più regressivo rispetto a quello sul nucleo familiare. Talvolta anche i presupposti della tassazione non sono realistici: si presume ad esempio che i costi siano traslati sul consumatore e che l’aumento di prezzo non alteri la scelta tra consumatore e produttore, cioè non si verifichi l’effetto sostituzione. Ma studi recenti hanno dimostrato che la traslazione in avanti (con prezzi più alti al consumo) o all’indietro (con inferiore remunerazione dei fattori della produzione) incide in misura differenziata sulla regressività della tassazione3.
La Governance ambientale:
Il rapporto sottolinea come la soluzione migliore nel campo del cambiamento climatico resti, oltre alle riforme strutturali, il perseguimento di politiche economiche di carattere internazionale, considerata la natura globale delle emissioni di CO2.
Anzi a livello nazionale si verificano spesso solo resistenze, sia perché i benefici non sono immediati, sia per l’impatto limitato delle politiche interne. Si impone quindi una visione d’insieme, una corretta ed integrata governance ambientale che coinvolge numerosi stakeholders (governi, imprenditori, lavoratori dipendenti, consumatori e più in generale la popolazione) ed è in grado di formare un elettorato favorevole alle riforme ambientali.
* elementi pro e contro
Quali sono i fattori che consentono riforme strutturali in questo settore?
Innanzitutto una forte leadership, responsabile, coesa ed assertiva. Perché gli elettori devono avere fiducia in chi chiede loro sacrifici per riforme con effetti a lungo termine. La stessa credibilità e fermezza deve riguardare le istituzioni del Paese (parlamentari, pubblica amministrazione, mezzi di informazione). In questo contesto gioca un ruolo fondamentale il Ministro dell’economia e delle finanze che deve assumere decisioni di cambiamento con tempestività, altrimenti rischia di danneggiare il processo di riforma.
Tra l’altro i casi pratici riportati dimostrano come i politici che abbiano introdotto o implementato con successo riforme nel Paese in genere sono stati premiati dall’elettorato con la rielezione.
Altro elemento a supporto delle iniziative riformatrici è la condivisione del progetto e la possibilità di poter contare sulla sua attuazione con una serie di figure di riferimento trasversali (c.d. points of light). Le esperienze pregresse hanno dimostrato inoltre che le riforme più efficaci sono quelle studiate a tavolino, che hanno avuto un periodo di “gestazione” sufficientemente ampio, a tutto scapito delle soluzioni frettolose. Le proposte innovative e di ampio respiro rifuggono perciò sia dagli stereotipi del facile vincitore che da quelli delle strategie a portata di mano (low hanging fruit). Anzi in molti casi il periodo migliore nel quale avviare riforme è quello che segue una recessione economica o le elezioni.
L’ostacolo maggiore all’adozione di politiche contro il surriscaldamento del pianeta è proprio nella circostanza che i benefici, a fronte di costi immediati, si realizzeranno in tempi lunghi e soprattutto si distribuiranno tra tutti gli Stati (distribuzione dei benefici indipendente dai costi sostenuti), coinvolgendo in qualche misura anche quelli che non hanno sopportato le spese. Insomma è difficile convincere gli elettori che devono sacrificarsi oggi per ricevere un beneficio, del quale non si conosce la consistenza, domani e che tale beneficio può riguardare altri Paesi che non hanno condiviso il progetto. Tuttavia la sfida consiste proprio nel diventare consapevoli che occorre modificare sia le tecnologie che la quantità prodotta in un mondo dove cresce in continuazione la popolazione e il PIL. Ciò comporterà la necessità di introdurre profonde modifiche nelle abitudini dei consumatori e in fretta.
Il rapporto denuncia anche il clima di ambiguità ed incertezza di alcune organizzazioni internazionali che hanno minato la credibilità degli studi scientifici in materia di riscaldamento globale ed emissioni di gas serra. Tale convinzione è stata certamente influenzata dalla crisi economica mondiale con la crescente instabilità dei mercati e l’aumento dei disoccupati.
Altri fattori da tenere in considerazione sono la mancanza di una visione organica del settore energetico sia a livello nazionale che sopranazionale che implica mancanza di competitività e prevalenza di interessi lobbystici con conseguente asimmetria informativa.
Anche perché il potere lobbysta è in grado di investire risorse durevoli e influenzare a suo vantaggio la politica, sia direttamente attraverso i fondi impiegati per la campagna elettorale, sia indirettamente con azioni di contrasto per riaffermare le ragioni che legittimano la sua richiesta.
* strategia
D’altra parte gli interessi in gioco sono molti, soprattutto nel settore energetico, e gruppi di potere traggono tutto il vantaggio dal diffondere informazioni asimmetriche che influenzano le decisioni politiche in nome dell’interesse nazionale.
Quale strategia adottare per favorire il cambiamento? Maggiore enfasi, secondo i tecnici OECD, va posta sugli effetti indiretti del cambiamento climatico.
Per esempio molte autorità stanno intervenendo sul fenomeno dell’arretramento delle spiagge a seguito dell’innalzamento del livello del mare causato dall’aumento generale della temperatura. Occorre poi che le organizzazioni si sgancino dalle soluzioni politiche, in quanto la tutela dell’ambiente è un problema generale che deve coinvolgere tutte le parti sociali. Bene ha fatto in questo senso l’International Panel on Climate Change (IPCC) che ha assunto posizioni trasparenti e indipendenti. Altro fattore di successo per la sfida ambientale sta nel presentare correttamente i risultati scientifici che, purtroppo, lasciano sempre un margine di incertezza, ma le variabili sono molte e non è corretto quantificare con sicurezza i danni ambientali. Non aggiunge credibilità alla causa fare previsioni catastrofiche, ma piuttosto presentare con chiarezza i rischi ambientali dovuti al cambiamento climatico. Infatti l’effetto dell’inazione è quello di peggiorare la situazione.
L’analisi dimostra tuttavia che spesso le scelte economiche più efficienti sono anche quelle politicamente impopolari o difficilmente perseguibili.
In ultima istanza la strategia politica più efficace per la mitigazione del clima consiste nella corretta valutazione dello scenario, ma tenendo conto di una serie complessa di variabili:
gli effetti a lungo termine o intergenerazionali, il rischio di riallocazione delle emissioni di gas serra (magari in una regione più virtuosa, cioè più attenta ai temi ambientali), la competitività (per cui la politica del prezzo delle fonti energetiche inquinanti dovrà essere armonizzata con quella fiscale), a distribuzione attesa degli effetti della politica contro il riscaldamento globale e la cooperazione internazionale.
2 There is a little scope for public spending to “grease the wheel of reform”
3 Metcalf, Mathur and Hassett, 2010
Il recente rapporto OECD, dal titolo The Political Economy of Climate Change Mitigation Policies: How To Build a Costituency to Address Global Warming?, affronta un tema di scottante attualità, soprattutto in tempi di crisi economica, che può essere facilmente traslato dal piano della politica ambientale a quello di altri settori dove è richiesto un intervento pubblico di riforma strutturale. Il documento contiene, infatti, una serie di proposte per i policy makers in grado di orientare efficacemente il collegio elettorale di riferimento.
La ricetta è elaborata non per “manipolare” il consenso degli elettori quanto piuttosto per insegnare ai politici l’assertività e per favorire la condivisibilità di scelte politiche spesso difficili.
Tuttavia non possono essere sottovalutate alcune delicate implicazioni: i “suggerimenti” formulati, nel caso di specie, rispondono all’intento di mitigare il cambiamento climatico, ma potrebbero comunque rivelarsi un utile passepartout per perseguire obiettivi politici prescindendo dai rispettivi contenuti.
Aspetti generali
Il Rapporto OCDE sulle politiche di mitigazione del cambiamento climatico spiega come formare un elettorato in grado di affrontare il tema del riscaldamento globale. Il rapporto analizza in primo luogo le difficoltà che solitamente le autorità incontrano per risolvere le tematiche in questione. Infatti quando si tratta di beni pubblici, come il clima, le sfide politiche diventano più complicate, in quanto è difficile convincere gli elettori del valore di un’azione di politica interna finalizzata a ridurre le emissioni di gas serra (GHG greenhouse gas) mentre c’è incertezza sugli impegni assunti da altri Stati in merito allo stesso problema.
L’unica soluzione consiste nel formare un elettorato consapevole dell’importanza della riduzione di emissioni nocive nell’atmosfera, assicurando la credibilità dell’obiettivo finale oltre che delle tappe intermedie da perseguire. D’altra parte il cambiamento climatico rappresenta una sfida difficile, sia perché è un problema di portata generale che va ben oltre i confini nazionali, sia perché le relative politiche economiche una volta avviate produrranno effetti solo a lungo termine. Tuttavia si è ormai consolidato il consenso generale intorno all’idea di quello che può essere definito un livello accettabile di rischio, cioè limitare l’aumento globale della temperatura media della terra entro i 2°. Questo è infatti il risultato dell’accordo di Copenaghen, successivamente ratificato dalla Conferenza di Cancun, in Messico, nel 2010.
Si è stabilito in quella sede di ridurre le emissioni di gas serra in misura differenziata ma consistente entro il 2020 al fine di limitare al 50% le probabilità di aumento della temperatura entro i 2°: per esempio, la UE le ridurrà del 20% rispetto ai livelli del 1990, gli USA del 17% rispetto ai livelli del 2005, il Giappone del 25% rispetto ai livelli del 1990, l’Australia del 5-25% rispetto ai livelli del 2000. Si ipotizza un’ulteriore riduzione nel 2050 e nel 2100. Circa 80 Stati (quelli che contano le maggiori emissioni di gas serra) hanno approvato sia la riduzione delle attuali emissioni (Paesi industrializzati), sia il contenimento delle future emissioni (Paesi in via di sviluppo). E’ ormai acclarato quindi che gli Stati devono assumere responsabilità comuni, seppure diversificate a seconda del livello di sviluppo.
Certo è che la riduzione delle emissioni presuppone una riforma strutturale e un notevole cambiamento economico.
Strumenti della riforma strutturale per il controllo delle esternalità ambientali:
* il sistema dei permessi negoziabili
Lo sviluppo economico sostenibile e una società rispettosa dell’ambiente rappresentano sì delle opportunità, ma sono soprattutto la futura sfida politica ed economica.
Il primo passo dovrebbe consistere nel coordinare le politiche energetiche degli Stati uniformando il prezzo dell’anidride carbonica e degli altri gas serra attraverso l’implementazione e l’eventuale collegamento tra i mercati del sistema dei permessi commerciali delle emissioni. Questo, tra l’altro, era uno degli obiettivi del protocollo di Kioto, vale a dire l’istituzione di un mercato internazionale dei titoli ambientali, tra i quali l’Emission Trading System (ETS). Il meccanismo si fonda sul presupposto che ciascuno Stato riceva un numero di permessi corrispondente all’ammontare complessivo di emissioni compatibile con l’obbligo di riduzione delle medesime emissioni che gli è stato assegnato nel periodo di riferimento. Decorso tale termine il Paese dovrà riconsegnare un numero di permessi corrispondente alle emissioni effettivamente prodotte. Tuttavia il sistema consente la negoziazione dei permessi e, quindi, i Paesi chiamati ad una drastica riduzione delle emissioni e ad assumere conseguenti elevati costi di abbattimento delle stesse potrebbero trovare conveniente l’acquisto dei permessi. Specularmente gli Stati che adottano tecnologie energetiche più efficienti potrebbero trarre profitti dalla vendita del surplus di permessi rispetto a quelli distribuiti, in quanto hanno deciso di ridurre le emissioni al di sotto della soglia convenuta. In sostanza il meccanismo, che è stato attivato per pochi anni (solo in Europa è in fase di sperimentazione), punta sulla libera circolazione dei permessi in un mercato internazionale “in condizioni di perfetta concorrenza”, dove ciascun Paese tenderà a minimizzare i propri costi complessivi finché non raggiungerà la condizione di equilibrio per la quale i costi marginali di abbattimento delle emissioni eguagliano il prezzo dei relativi permessi. Ciò sul noto assunto che “la condizione economica necessaria per la minimizzazione dei costi complessivi per il raggiungimento di un determinato obiettivo è l’uguaglianza dei costi marginali di abbattimento per tutte le attività interessate”.1
Il sistema auspicato dal rapporto tende dunque ad ampliare il mercato di scambio dei permessi negoziabili fino al punto di equilibrio in cui il prezzo degli stessi corrisponde ai costi marginali di abbattimento delle emissioni cosicché tutti i Paesi coinvolti vedono soddisfatta la condizione di minimizzazione dei costi complessivi.
Questa scelta del trasferimento finanziario previsto dai permessi negoziabili è ritenuta più praticabile, in quanto consente di separare il luogo dove si realizza l’abbattimento delle emissioni dal soggetto che paga per esse. I sussidi per l’adozione di tecnologie pulite o per la regolazione amministrativa sono, invece, ritenute utili come strumento complementare rispetto alla negoziazione dei permessi, soprattutto in quelle aree dove la negoziazione ha fallito l’obiettivo.
1. il sistema dei prezzi
Altra soluzione ipotizzata è quella di un meccanismo chiaro di formazione dei prezzi che considera il prezzo del carbone come un costo sociale. Il sistema dei prezzi deve consentire l’equalizzazione dei costi marginali di abbattimento tra settori sia eguagliato tra le diverse fonti e la massimizzazione delle entrate fiscali.
La connessa riduzione dei costi presuppone una corretta analisi del sistema dei costi – benefici e l’adozione di politiche complementari. Gli strumenti di regolazione devono essere applicati in sinergia con la tassazione ambientale sebbene ci può essere il rischio di restringere i margini di flessibilità offerti dalla tassazione agli inquinatori che cercano di abbattere i costi effettivi delle attività inquinanti.
Inoltre vanno rimosse le politiche che introducono incentivi diversi e distorsioni nel mercato. Tutte le politiche che favoriscono le emissioni nocive sia mediante esenzioni e sussidi, incrementano anche il costo della mitigazione, ribaltando il principio che chi paga inquina.
In proposito l’OECD ha calcolato che la sola rimozione dei sussidi per combustibili fossili porterebbe a tagliare le emissioni di gas serra di circa il 10% entro il 2050.
* la tassazione ambientale
Il rapporto osserva che il decollo di questo tipo di politiche economiche è reso ancor più difficile dalla crisi economica e la maggior parte dei Paesi OECD si dimostra riluttante ad adottare riforme che gravano sulla spesa pubblica,2 preferendo operare sul lato delle entrate pubbliche.
Anche l’implementazione della carbon tax, soprattutto se a livello substatale, rischia di risultare inefficace; così pure meccanismi di regolamentazione e sovvenzioni che sono accettabili solo a breve termine. Nel primo caso i costi tendono ad essere più distribuiti (in genere ricadono sui contribuenti o sui consumatori finali), nel secondo caso i benefici sono più concentrati (nei beneficiari).
La tassazione ambientale tra l’altro presenta – in particolare la tassazione dei prodotti energetici - caratteri di regressività, considerato che i segmenti più poveri della società tendono a spendere gran parte del proprio reddito in prodotti fossili per il riscaldamento; inoltre i meno abbienti attribuiscono più importanza al cibo ed ai beni rifugio piuttosto che al miglioramento ambientale. Inoltre tale categoria reddituale vive in aree più esposte all’inquinamento e si aspetta dunque di ricevere maggiori benefici dalla green economy.
Da non sottovalutare poi i costi delle tecnologie innovative che possono essere proibitivi per i più poveri, in quanto richiedono alti investimenti di capitale che incidono eccessivamente sui redditi più bassi. Valga per tutte la considerazione che i benefici degli investimenti sulle abitazioni per le energie rinnovabili ricadono sul proprietario dell’immobile che le ha realizzate piuttosto che sul locatario.
Non è comunque facile calcolare il grado di regressività delle imposte che dipende spesso più dalle condizioni di mercato dei prodotti energetici che dal tipo di fonte energetica considerata. Influiscono peraltro i metodi di calcolo, in quanto il riferimento al reddito personale è più regressivo rispetto a quello sul nucleo familiare. Talvolta anche i presupposti della tassazione non sono realistici: si presume ad esempio che i costi siano traslati sul consumatore e che l’aumento di prezzo non alteri la scelta tra consumatore e produttore, cioè non si verifichi l’effetto sostituzione. Ma studi recenti hanno dimostrato che la traslazione in avanti (con prezzi più alti al consumo) o all’indietro (con inferiore remunerazione dei fattori della produzione) incide in misura differenziata sulla regressività della tassazione3.
La Governance ambientale:
Il rapporto sottolinea come la soluzione migliore nel campo del cambiamento climatico resti, oltre alle riforme strutturali, il perseguimento di politiche economiche di carattere internazionale, considerata la natura globale delle emissioni di CO2.
Anzi a livello nazionale si verificano spesso solo resistenze, sia perché i benefici non sono immediati, sia per l’impatto limitato delle politiche interne. Si impone quindi una visione d’insieme, una corretta ed integrata governance ambientale che coinvolge numerosi stakeholders (governi, imprenditori, lavoratori dipendenti, consumatori e più in generale la popolazione) ed è in grado di formare un elettorato favorevole alle riforme ambientali.
* elementi pro e contro
Quali sono i fattori che consentono riforme strutturali in questo settore?
Innanzitutto una forte leadership, responsabile, coesa ed assertiva. Perché gli elettori devono avere fiducia in chi chiede loro sacrifici per riforme con effetti a lungo termine. La stessa credibilità e fermezza deve riguardare le istituzioni del Paese (parlamentari, pubblica amministrazione, mezzi di informazione). In questo contesto gioca un ruolo fondamentale il Ministro dell’economia e delle finanze che deve assumere decisioni di cambiamento con tempestività, altrimenti rischia di danneggiare il processo di riforma.
Tra l’altro i casi pratici riportati dimostrano come i politici che abbiano introdotto o implementato con successo riforme nel Paese in genere sono stati premiati dall’elettorato con la rielezione.
Altro elemento a supporto delle iniziative riformatrici è la condivisione del progetto e la possibilità di poter contare sulla sua attuazione con una serie di figure di riferimento trasversali (c.d. points of light). Le esperienze pregresse hanno dimostrato inoltre che le riforme più efficaci sono quelle studiate a tavolino, che hanno avuto un periodo di “gestazione” sufficientemente ampio, a tutto scapito delle soluzioni frettolose. Le proposte innovative e di ampio respiro rifuggono perciò sia dagli stereotipi del facile vincitore che da quelli delle strategie a portata di mano (low hanging fruit). Anzi in molti casi il periodo migliore nel quale avviare riforme è quello che segue una recessione economica o le elezioni.
L’ostacolo maggiore all’adozione di politiche contro il surriscaldamento del pianeta è proprio nella circostanza che i benefici, a fronte di costi immediati, si realizzeranno in tempi lunghi e soprattutto si distribuiranno tra tutti gli Stati (distribuzione dei benefici indipendente dai costi sostenuti), coinvolgendo in qualche misura anche quelli che non hanno sopportato le spese. Insomma è difficile convincere gli elettori che devono sacrificarsi oggi per ricevere un beneficio, del quale non si conosce la consistenza, domani e che tale beneficio può riguardare altri Paesi che non hanno condiviso il progetto. Tuttavia la sfida consiste proprio nel diventare consapevoli che occorre modificare sia le tecnologie che la quantità prodotta in un mondo dove cresce in continuazione la popolazione e il PIL. Ciò comporterà la necessità di introdurre profonde modifiche nelle abitudini dei consumatori e in fretta.
Il rapporto denuncia anche il clima di ambiguità ed incertezza di alcune organizzazioni internazionali che hanno minato la credibilità degli studi scientifici in materia di riscaldamento globale ed emissioni di gas serra. Tale convinzione è stata certamente influenzata dalla crisi economica mondiale con la crescente instabilità dei mercati e l’aumento dei disoccupati.
Altri fattori da tenere in considerazione sono la mancanza di una visione organica del settore energetico sia a livello nazionale che sopranazionale che implica mancanza di competitività e prevalenza di interessi lobbystici con conseguente asimmetria informativa.
Anche perché il potere lobbysta è in grado di investire risorse durevoli e influenzare a suo vantaggio la politica, sia direttamente attraverso i fondi impiegati per la campagna elettorale, sia indirettamente con azioni di contrasto per riaffermare le ragioni che legittimano la sua richiesta.
* strategia
D’altra parte gli interessi in gioco sono molti, soprattutto nel settore energetico, e gruppi di potere traggono tutto il vantaggio dal diffondere informazioni asimmetriche che influenzano le decisioni politiche in nome dell’interesse nazionale.
Quale strategia adottare per favorire il cambiamento? Maggiore enfasi, secondo i tecnici OECD, va posta sugli effetti indiretti del cambiamento climatico.
Per esempio molte autorità stanno intervenendo sul fenomeno dell’arretramento delle spiagge a seguito dell’innalzamento del livello del mare causato dall’aumento generale della temperatura. Occorre poi che le organizzazioni si sgancino dalle soluzioni politiche, in quanto la tutela dell’ambiente è un problema generale che deve coinvolgere tutte le parti sociali. Bene ha fatto in questo senso l’International Panel on Climate Change (IPCC) che ha assunto posizioni trasparenti e indipendenti. Altro fattore di successo per la sfida ambientale sta nel presentare correttamente i risultati scientifici che, purtroppo, lasciano sempre un margine di incertezza, ma le variabili sono molte e non è corretto quantificare con sicurezza i danni ambientali. Non aggiunge credibilità alla causa fare previsioni catastrofiche, ma piuttosto presentare con chiarezza i rischi ambientali dovuti al cambiamento climatico. Infatti l’effetto dell’inazione è quello di peggiorare la situazione.
L’analisi dimostra tuttavia che spesso le scelte economiche più efficienti sono anche quelle politicamente impopolari o difficilmente perseguibili.
In ultima istanza la strategia politica più efficace per la mitigazione del clima consiste nella corretta valutazione dello scenario, ma tenendo conto di una serie complessa di variabili:
gli effetti a lungo termine o intergenerazionali, il rischio di riallocazione delle emissioni di gas serra (magari in una regione più virtuosa, cioè più attenta ai temi ambientali), la competitività (per cui la politica del prezzo delle fonti energetiche inquinanti dovrà essere armonizzata con quella fiscale), a distribuzione attesa degli effetti della politica contro il riscaldamento globale e la cooperazione internazionale.
2 There is a little scope for public spending to “grease the wheel of reform”
3 Metcalf, Mathur and Hassett, 2010