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L'ingiustizia contemporanea nella repressione del radicalismo islamico: il caso di Zergout Abdelmaji

L'ingiustizia contemporanea nella repressione del radicalismo islamico: il caso di Zergout Abdelmaji
L'ingiustizia contemporanea nella repressione del radicalismo islamico: il caso di Zergout Abdelmaji

Abstract

Uno degli ambiti di intervento penale rispetto ai quali l'interprete contemporaneo deve mantenersi più vigile è quello del radicalismo islamico. Il carattere emergenziale della normativa, il populismo mediatico e politico e la totale assenza di un filtro critico da parte della collettività costituiscono terreno fertile per il prodursi di errori giudiziari destinati tanto a segnare vite quanto a passare sotto silenzio. Il presente scritto tratta di una vicenda in cui l'autorità giudiziaria – proprio in tema di fondamentalismo islamico – è scivolata dal terreno del diritto penale del fatto al campo del diritto penale d'autore, negando il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione a un cittadino marocchino (Zergout Abdelmaji) che era stato imputato per il reato di associazione terroristica ex articolo 270 bis del Codice penale, incarcerato in via cautelare per ben due anni e infine assolto “per non aver commesso il fatto”. Viene svolta infine una riflessione circa le modalità che uno Stato democratico può impiegare – e quelle che non può impiegare – nella lotta a fenomeni che si pongono ideologicamente in contrasto con il sistema valoriale disegnato dalla Costituzione.

One of the scopes of criminal law which the contemporary legal interpreter must pay attention to is represented by Islamic radicalism. The emergency-based legislation regulating the latter, the political and media poupulism and the total absence of a critical sense within the society are the breeding ground for miscarriages of justice destined to damage entire lives and to be passed over in silence. The present work is intended to report a legal case – precisely regarding islamic fundamentalism – in which the Italian judicial authority drifted from the field of fact-based criminal law to the ground of personality-based criminal law, by denying a Moroccan citizen the right to compensation for being unlawfully imprisoned. Indeed, Zergout Abdelmaji (the Moroccan citizen) was at first accused – under article 270 bis of the Italian penal Code – of being part of a terrorist group; he was then imprisoned for two years in accordance with a preventive custody order; and finally he was fully acquitted by the formula “because he didn't commit the crime”. A final consideration is offered regarding the possible ways a democratic State is allowed to use – and the ways a democratic State is not allowed to use – in order to fight phenomena ideologically in conflict with the Constitution-based value system.

 

Il presente scritto ha il semplice scopo di riportare una recente vicenda giudiziaria in tema di radicalismo islamico. Si tratta di un caso che – ad avviso di chi scrive – merita di essere conosciuto e discusso, in quanto il suo scioglimento ha prodotto quello che non si esita a definire un grave errore giudiziario.

Prima di accedere all'analisi della vicenda concreta, pare opportuno addentrarsi brevemente e senza pretese di esaustività nel tema degli errori giudiziari.

È agevole distinguere due tipologie di errori giudiziari.

Da un lato vi sono quelli che – seppur tardi, seppur parzialmente – hanno trovato infine un riconoscimento sociale o anche, nel migliore dei casi, processuale: può annoverarsi fra questi la nota vicenda giudiziaria che ha coinvolto Enzo Tortora, la quale – ancora a distanza di trent'anni – è tuttora l'archetipo dei casi di malagiustizia italiana. Si tratta di quei casi che costituiscono l'ormai classico canone dell'errore giudiziario “conclamato”: oggi non vi è più alcun dubbio circa la piena innocenza del noto giornalista e presentatore televisivo; così come è ormai acclarato – non solo socialmente, ma anche processualmente – che l'autorità giudiziaria, nel sottoporre Tortora alla privazione della libertà personale in via cautelare per ben sette mesi, incorse in un grave errore investigativo. Si potrebbe dire che le vittime degli errori di questo primo tipo godono quantomeno il sollievo derivante dal riconoscimento sociale che uno sbaglio (pur “passato in giudicato”) vi sia stato; oppure – nel migliore dei casi – beneficiano del fatto che la verità processuale, seppur tardi e dopo grandi sofferenze cautelari, seppur magari solo a seguito dell'estremo strumento della revisione, si è alla fine uniformata alla verità sostanziale. E si aggiunga che, se lo sbaglio si è tradotto in una illegittima privazione della libertà personale, il suo riconoscimento processuale sfocerà normalmente nell'erogazione da parte dello Stato di una somma a titolo di riparazione, nei limiti e nei termini di cui agli articoli 643 e 314 del Codice di procedura penale.

Ma gli errori giudiziari cui gli interpreti devono prestare maggior attenzione sono quelli che non risultano (ancora) "conclamati": quando un errore giudiziario diviene "conclamato" è già troppo tardi. La caratteristica essenziale degli errori giudiziari infatti è proprio quella di non essere colti nel momento in cui avvengono né – per definizione – dagli organi giurisdizionali né, ed è questo l'aspetto che li rende ancor più terribili, dalla coscienza sociale. Ebbene: il giurista, quale operatore tecnico fedele alle garanzie del sistema e propugnatore delle stesse, ha il compito di svelare gli errori giudiziari che avvengono nella propria epoca, al fine di farli emergere – con gli strumenti possibili – a livello processuale o almeno a livello sociale.

E il ruolo che il giurista assume quale strumento rilevatore degli errori giudiziari del proprio tempo va particolarmente enfatizzato in relazione a quelle materie che, a seconda del momento storico e delle grandi narrazioni di volta in volta dominanti nella opinione pubblica, rientrano nell'abusato campo dell'emergenza. Si tratta di quelle sezioni di ordinamento che, da un lato, vengono a essere oggetto di esasperazione massmediatica e che, dall'altro, sono calcate da interventi legislativi caratterizzati dall'urgenza nel metodo di criminalizzazione e dalla conseguente irrazionalità dei risultati normativi. È in tali settori di disciplina, infatti, che maggiormente si manifesta il desiderio di approfittare elettoralmente del terrore che, quotidianamente, viene instillato nella collettività da una incosciente e incompetente trattazione mediatica del fenomeno di volta in volta “alla ribalta” oltreché dal continuo fuoco di sbarramento delle invettive lanciate dal mondo politico e nei dibattiti televisivi. La moderna tendenza alla psicosi collettiva, in conclusione, rende arduo non cedere al populismo penale che domina su tali materie. Vi è inoltre il rischio che la pressione politica, mediatica e della società tutta inducano l'autorità giudiziaria a farsi carico – per mezzo di utilizzi impropri dello strumento cautelare e della pena – di esasperate esigenze di special-prevenzione e di rassicurazione collettiva che vanno oltre il suo fisiologico ambito di intervento.

Quello del fondamentalismo di matrice islamica è appunto uno di questi campi. Vale a dire un settore in cui – diversamente da quanto un tempo accadeva in tema di terrorismo interno e diversamente da quanto accade tutt'oggi in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso – manca qualsiasi critica collettiva o filtro di controllo dell'opinione pubblica: tutti gli attori del consenso sociale sono infatti concordi nel plaudere a un modello di repressione penale di draconiana durezza che calpesta alcuni principi cardine dello Stato democratico.

In materia di radicalismo islamico ci si è notevolmente allontanati dai canoni del diritto penale del fatto, giungendo a reprimere l'individuo in quanto portatore di un'ideologia (pur odiosa). In materia di radicalismo islamico si è persa di vista la Costituzione e si è arrivati a tentare di punire anche la più innocua delle manifestazioni di comunanza ideologica col mondo del radicalismo islamico. A tal fine la giurisprudenza ha utilizzato di preferenza la fattispecie dell'associazione con finalità di terrorismo di cui all'articolo 270 bis del Codice penale, piegandone i requisiti strutturali e di idoneità offensiva fino al punto da annichilirli.

Una recente monografia, dal titolo "Terrorismo islamico e diritto penale" (di Fabio Fasani), ripercorre in modo chiaro e approfondito le modalità con cui il citato delitto è stato sfruttato dalla giurisprudenza, in modo del tutto improprio, al fine di giungere a punire – in una logica di autore – non più fatti pericolosi o dannosi, per quanto preparatori, ma mere espressioni di contrarietà al sistema valoriale propugnato dallo Stato e fissato in Costituzione [1]. Non vi è certo la possibilità, in questa sede, di riportare i dettagli di tale operazione di svuotamento della fattispecie citata, anche vista la completezza dell'Opera segnalata. Ciò che invece qui preme sottolineare è che l'Autore, fra le molte criticabili pronunce, ne segnala alcune dalle quali – al contrario – emerge una “interpretazione delle categorie dogmatiche del reato associativo rispettosa tanto dei precetti costituzionali, quanto della tradizione dottrinale e giurisprudenziale” più garantista [2].

Una di queste – entrando così nel vivo del caso alla base di questo scritto – è la sentenza del 24 maggio 2007 emessa dalla Corte d'Assise di Milano [3]. Tale pronuncia si presenta lodevole in quanto, nonostante emergano in capo agli imputati quei "comuni indici di estremismo che si riscontrano in tutti i processi per associazione terroristica di matrice islamica”, i giudici milanesi non si fermano "ai sospetti, ai fatti notori, ai rapporti di intelligence e alle costruzioni teoriche”, ma si spingono a "verificare puntualmente se i requisiti strutturali del reato associativo – l'organizzazione (in senso statico e in senso dinamico) [ossia in relazione al requisito strutturale e a quello dell'idoneità] e lo scopo – siano stati provati con successo” [4]. Ebbene, la Corte d'Assise giunge alla conclusione che "dalle risultanze processuali non è emersa l'esistenza di alcuna associazione, nel senso proprio che al termine deve essere attribuito dal penalista”: né struttura, né idoneità, né il preciso scopo terroristico descritto dall'articolo 270 sexies del Codice penale. In particolare i giudici dell'Assise affermano incisivamente che, "al più, si può parlare di un mero accordo tra persone che parlano in termini criptici, si muovono con circospezione e cercano di sfuggire ai pedinamenti della polizia; che, esaminate, forniscono giustificazioni reticenti e scarsamente plausibili; che mostrano una chiara adesione all'ideologia islamica fondamentalista; che raccolgono denaro per la ''causa comune''; che tengono contatti con persone operanti all'estero all'interno di organizzazioni responsabili di azioni violente, documentate da videocassette trovate in loro possesso; che dispongono, infine, di materiale propagandistico nel quale viene esaltata la lotta contro gli infedeli e si inneggia alle azioni violente e criminali dei kamikaze”. Naturalmente "tutto ciò non è sufficiente, sotto il profilo strettamente giuridico e alla luce di una valutazione rigorosa del compendio probatorio, per configurare il contestato delitto associativo” [5]. Alla luce di ciò, gli imputati El Kaflaoui Abdelillah, Raouiane Mohamed e Zergout Abdelmaji vengono assolti “perché il fatto non sussiste” (in motivazione) e "per non aver commesso il fatto" (nel dispositivo).

Nelle more della pronuncia i soggetti erano stati colpiti – non stupisce – dalla misura cautelare della custodia in carcere, che si protrasse per più di due anni. Come già detto, nel nostro Paese esiste uno strumento – la riparazione dell'errore giudiziario (articoli 643 e ss. del Codice di procedura penale) e per l'ingiusta detenzione (articoli 314 e ss. del medesimo Codice) – attraverso il quale il potere pubblico si assume la responsabilità dei propri abbagli. L'articolo 314, che qui più interessa, dispone infatti – al primo comma – che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita […]”. Il protagonista della vicenda in esame è stato appunto sottoposto a una lunga custodia cautelare – per giunta in carcere – ed è poi stato assolto con formula piena “perché il fatto non sussiste” (in motivazione) e "per non aver commesso il fatto” (nel dispositivo). Parrebbe dunque profilarsi un caso di scuola nel quale risulta scontata l'attribuzione alle persone coinvolte del giusto indennizzo.

Così non fu. In primo grado, la Corte d'Appello di Milano – con ordinanza del 3 marzo 2015 – ha rigettato l'istanza di riparazione per ingiusta detenzione proposta da uno degli ex imputati, il marocchino Zergout Abdelmaji, condannandolo per giunta alle spese in favore di quello stesso Stato che lo aveva illegalmente privato della libertà personale. L'articolo 314 già citato, infatti, prevede che l'equa riparazione per la custodia cautelare subita possa essere negata qualora il soggetto “vi abbia dato causa” o abbia "concorso a darvi causa" con "dolo o colpa grave". E, secondo la Corte d'Appello, "l'istante aveva" – per l'appunto – "concorso con colpa grave a dare causa alla detenzione subita", tale colpa grave consistendo "nell'attività di scarico, dal computer esistente nel suo ufficio e dal medesimo utilizzato, di materiale propagandistico per la divulgazione della guerra santa e di natura didattica per l'addestramento dei combattenti, elementi tutti desunti dalla sentenza di assoluzione” [6].

All'ex imputato non rimane che ricorrere in Cassazione avverso l'ordinanza di rigetto della Corte d'Appello. La Procura generale presso la Corte d'Appello e l'Avvocatura generale dello Stato, nelle proprie memorie, con le quali chiedono la conferma dell'ordinanza impugnata, affermano che i "giudici della riparazione [hanno] legittimamente operato il vaglio demandato attraverso un giudizio ex ante e sulla base dell'idoneità delle condotte dell'indagato a trarre in inganno l'Autorità Giudiziaria ed a porsi come situazione sinergica alla causazione dell'evento detenzione": la Corte di Milano avrebbe infatti, secondo la Procura e l'Avvocatura dello Stato, correttamente valutato il materiale acquisito nel processo quale causa di esclusione del diritto alla riparazione, "avendo l'istante posto in essere, per macroscopica imprudenza e superficialità, una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell'Autorità Giudiziaria, concretatasi nell'adozione del provvedimento restrittivo della libertà personale” [7]. La Corte di Cassazione conferma il rigetto della domanda di equa riparazione, ritenendo l'ordinanza della Corte d'Appello “del tutto logica, adeguata e coerente con gli elementi indicati", il che "preclude" ogni sua "rivisitazione in questa sede” [8]. Riassumendo: ha ragione la Corte d'Appello di Milano quando rileva che il ricorrente "si era volontariamente posto nella situazione di essere incriminato, innanzitutto per la sua attività di navigazione in internet” [9].

Tale presa di posizione appare senz'altro criticabile. Secondo la Suprema Corte, se una persona visiona, scarica e diffonde "del materiale propagandistico per la divulgazione della guerra santa e di natura didattica per l'addestramento dei combattenti” [10], tale persona sta dando uno spunto all'autorità giudiziaria per farsi incriminare a titolo di organizzatore di un'associazione terroristica ex articolo 270 bis del Codice penale. La Corte d'Assise di Milano – l'organo che assolse i tre soggetti – aveva al contrario fissato il principio in base al quale, ai fini della configurazione del delitto di associazione con finalità di terrorismo internazionale, è necessaria la costituzione di "un'organizzazione stabile, idonea a realizzare una serie indeterminata di reati, dotata necessariamente di una corposità sociale […] indipendente rispetto alle persone e all'attività dei suoi membri, strutturata e caratterizzata dalla ripartizione dei ruoli tra gli associati, dalla presenza e dal riconoscimento di vincoli gerarchici e di regole di condotta da osservare" [11]. Ebbene: la Corte d'Appello di Milano in veste di giudice della riparazione, la Procura generale presso la medesima Corte, l'Avvocatura dello Stato e la Suprema Corte di Cassazione concordano invece sul fatto che, se una persona scarica dei contenuti fondamentalisti e li diffonde, essa sta – per ciò solo – concorrendo con colpa grave alla propria incriminazione per un delitto la cui descrizione tipica risulta sideralmente distante rispetto ai comportamenti di mera navigazione sul web che vengono contestati; e al contempo sta, in tal modo, creando "una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento" cautelare da parte dell'autorità giudiziaria, prevedibile ragione di intervento poi effettivamente "concretata nell'adozione del provvedimento restrittivo della libertà personale" [12].

Ad avviso di chi scrive l'intera vicenda processuale avente a oggetto la richiesta riparatoria di Zergout Abdelmaji consiste in realtà in un'operazione volta ad addossare per intero all'ex presunto terrorista le errate scelte investigative e interpretative compiute nel caso di specie dagli organi inquirenti e giudicanti coinvolti, che si sono così resi responsabili di una ingiustizia giudiziaria protrattasi più di dieci anni. Abdelmaji era stato tradotto in carcere il 18 maggio 2005, in esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.i.p. del Tribunale di Torino [13]. Ivi rimase per più di due anni, fino a quando la Corte d'Assise di Milano – con sentenza pronunciata il 24 maggio 2007 – non lo assolse [14] con formula piena ordinandone l'immediata liberazione, in base al disposto dell'articolo 300 del Codice di procedura penale. Ebbene: dopo aver passato due anni in stato di detenzione, dopo essere stato assolto "per non aver commesso il fatto” e dopo aver ricorso per ottenere una somma di denaro a titolo di riparazione per ciò che di peggio possa commettere uno Stato democratico (ovvero privare della libertà un innocente), Abdelmaji si sente rispondere sostanzialmente che non deve permettersi di dar fastidio all'infallibile autorità giudiziaria: se un soggetto naviga sul web e scarica materiale radicale, lo Stato italiano non gli deve nulla. Meglio: la sua libertà personale non vale nulla, perché tale individuo ha commesso il grave errore di porsi contro un sistema che, da un lato, innalza a proprio stendardo la necessità di difendere i diritti fondamentali di tutti e, dall'altro, li nega a coloro che dimostrano di appartenere a ideologie aberranti deviando – col solo pensiero – dal sentiero valoriale tracciato dalla Costituzione.

Ma "non è forse una contraddizione in termini il fatto che una democrazia scelga di difendersi dal ''contagio'' delle idee?” [15]. E non è forse sulla tutela della libertà di pensiero che si vuole basare la differenza tra la nostra civile società da un lato e i regimi del passato o gli integralismi del presente dall'altro? Una democrazia che crede fermamente nei propri principi non incrimina il dissenso politico, per quanto esso si richiami a odiose ideologie. Nel caso in esame la punizione è consistita non nella condanna, ma nella negazione del diritto alla riparazione monetaria degli errori giudiziari. Non per questo muta la sostanza del discorso. Sarebbe del facile garantismo quello esercitato solo contro obbedienti cittadini-modello. Il vero garantismo è quello che non scompare appena si profila un conflitto ideologico tra Stato e individuo, ma che anzi si erge più alto e più solido proprio in tali situazioni.

Le concezioni di vita estreme e contrarie ai principi espressi dalla Carta Costituzionale – finché rimangono espresse con alate parole – si combattono opponendo a esse delle convinzioni migliori e un efficiente sistema di prevenzione, non certo ricorrendo a distorte interpretazioni di disposizioni penalistiche che portano al punto di fusione alcuni centrali principi costituzionali; né negando quella misera riparazione monetaria che la legge riserva a una persona ingiustamente privata della libertà personale per oltre due anni.

E a chi ribattesse che in tal modo si aprirebbero praterie operative per imam radicali e predicatori della jihad, si risponde che la reazione penale non è necessaria se le forze preventive agiscono in modo efficiente. Appare sempre più chiaro, infatti, che il diritto penale è incapace di fornire soluzioni definitive e durature alla violenza terroristica di carattere internazionale quale fenomeno politico, sociale e storico che caratterizza la fase iniziale del XXI secolo.

È vero – e naturale – che lo Stato democratico debba potersi difendere da coloro che ne contestano le più profonde radici. Ma è altrettanto vero che l'abuso del diritto penale, e in genere dell'apparato punitivo, costituisce uno strumento inutile e dannoso a tale scopo.

Il primo passo sta nel riuscire a sfruttare sfruttare appieno le capacità delle autorità amministrative di monitorare, controllare e seguire l'evoluzione dell'estremismo della persona. Zergout Abdelmaji rifiuta i cardini fondamentali della convivenza sociale? Bene. La risposta non può consistere nell'abbattere immediatamente su di lui la reazione penale: si sta ancora parlando di un soggetto che nulla di dannoso o pericoloso ha compiuto nei confronti delle condizioni essenziali della convivenza umana. Lo Stato non può ancora permettersi di intervenire con la sua arma più terribile.

Ciò che invece andava fatto – e va fatto – in situazioni come questa è esercitare, attraverso le forze di polizia, un continuo monitoraggio che permetta di sorvegliare e distinguere, in modo da individuare coloro che costituiscono un potenziale pericolo per la collettività. Ai soggetti che presentano i maggiori indici di pericolosità vanno poi riservate tempestive applicazioni delle misure di prevenzione, qualora vi sia la prova della sussistenza di “atti preparatori, obiettivamente rilevanti, […] diretti […] alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale”, secondo l'espressione utilizzata dall'articolo 4 del c.d. Codice Antimafia (Decreto Legislativo 6 settembre 2011 n. 159). Senza dimenticare, peraltro, che esistono una pletora di fattispecie penali comuni – dotate di più lievi cornici edittali rispetto alle vere e proprie fattispecie antiterrorismo – che ben potrebbero essere utilizzate per reprimere sul nascere le condotte preparatorie assurte ormai a un livello di chiara pericolosità: si pensi all'articolo 497 bis del Codice penale che punisce il possesso e la fabbricazione di documenti di identificazione falsi; oppure gli articoli 1 e 2 della Legge 2 ottobre 1967 n. 895 che sanzionano la fabbricazione, il contrabbando, il commercio e il possesso illegali di materiali esplosivi, di armi da guerra, di aggressivi chimici e così via; o infine l'articolo 2 bis della medesima legge, introdotto nel 2005, il quale punisce l'addestramento alla preparazione o all'uso dei materiali e delle armi di cui ai due articoli precedenti. In tal modo si otterrebbe il risultato di punire proporzionalmente fatti ormai pericolosi senza ricorrere a distorsioni interpretative di più gravi fattispecie.

Il potere pubblico non può permettersi di agire al di fuori di un razionale piano di intervento che calibri l'entità della risposta sanzionatoria e del controllo preventivo sulla pericolosità caratterizzante il caso concreto.

Invece delle sanzioni penali, e in generale invece delle sanzioni, uno Stato che voglia essere efficiente nella lotta al radicalismo islamico deve rafforzare il proprio arsenale di strumenti preventivi, che devono divenire sempre meno invasivi e sempre più da ritagliarsi sul caso concreto. Naturalmente quanto più ampi e vari divengono l'ambito di utilizzo e la fisionomia delle misure di prevenzione, tanto più forte deve essere il presidio della magistratura nella gestione delle stesse.

In conclusione: assegnare un ruolo centrale alle autorità di polizia e di prevenzione, debitamente sindacate dall'autorità giudiziaria, significa preservare il ruolo di ultima ratio che deve essere proprio del diritto penale di uno Stato democratico, tutelando così – al contempo – la sicurezza della convivenza sociale e la fondamentale libertà degli individui che allo Stato affermano di volersi opporre.

[1] F. FASANI, Terrorismo islamico e diritto penale, Padova, 2016.

[2] F. FASANI, Terrorismo islamico, cit., p. 239.

[3] Corte d'Assise di Milano, sentenza del 24 maggio 2007, in Foro Italiano, volume 131, n. 10, ottobre 2008, pp. 512-516.

[4] F. FASANI, Terrorismo islamico, cit., pp. 245-246

[5] Corte d'Assise di Milano, cit., p. 516.

[6] Cassazione penale, sezione IV, sentenza del 23 marzo 2016, n. 26593, sub “Ritenuto in fatto”, punto 3.

[7] Cassazione penale, cit., sub “Ritenuto in fatto”, punti 3 e 4.

[8] Cassazione penale, cit., sub “Considerato in diritto”, punto 5.

[9] Cassazione penale, cit., sub “Considerato in diritto”, punto 2.

[10] Cassazione penale, cit., sub “Considerato in diritto”, punto 2.

[11] Corte d'Assise di Milano, cit., p. 516.

[12] Cassazione penale, cit., sub “Ritenuto in fatto”, punto 4.

[13] Cassazione penale, cit., sub “Ritenuto in fatto”, punto 1.

[14] La sentenza passava in giudicato per rinuncia all'appello da parte del Pubblico ministero.

[15] C. FIORE,  La repressione del dissenso politico tra passato e presente, in A. CAVALIERE – C. LONGOBARDO – V. MASARONE – F. SCHIAFFO – A. SESSA (a cura di), Politica criminale e cultura giuspenalistica. Scritti in onore di Sergio Moccia, Napoli, 2017, p. 158.