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L’obbligatorietà della media-conciliazione civile: una esigenza sottintesa dal parlamento delegante o un abuso di normazione da parte del governo delegato?

Il recente assoggettamento, previsto dall’art. 5 del D.Lgs.28/2010, al previo esperimento obbligatorio di un tentativo di conciliazione stragiudiziale di molte ed importanti tipologie di controversie civilistiche ha incontrato la spietata opposizione della classe forense.

A questa si deve un’impressionante raffica di iniziative ed azioni mirate a colpire l’istituto sul nascere: comunicati stampa degli organismi di rappresentanza dell’avvocatura, assemblee di concertazione delle strategie di attacco, astensioni organizzate dalle aule giudiziarie, appelli di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, richieste di incontri col Guardasigilli.

Ma il vero attacco frontale alla media-conciliazione obbligatoria è stato sferrato a pochi giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo che ne contiene la previsione, il cui art. 5 è divenuto bersaglio di plurime iniziative di deferimento al Giudice delle legge, in relazione a svariati profili d’incostituzionalità ravvisati a suo carico. 

Che dietro le nobili motivazioni dell’aggressione, proclamate dall’avvocatura a gran voce (tutela del diritto costituzionalmente protetto di adìre liberamente il giudice, iniquo aggravio economico per gli utenti della Giustizia ecc...),  possa esservi dell’altro è cosa altamente plausibile. La mediazione obbligatoria depotenzia non poco il ruolo dell’avvocato–tecnico del diritto: questi, per un verso, si vede scalzato, nel rapporto con l’assistito, dalla tradizionale posizione di dominus unico e necessario del contenzioso processuale e, per altro verso, deve registrare come l’amministrazione dello strumento conciliativo non sia stata riservata ai membri della classe forense, scelta che l’avvocatura interpreta come una sorta di mancata “compensazione” per la perdita di centralità comportata dalla obbligatorietà della procedura compositiva.

Tuttavia, che ad agitarsi nel retroscena siano autentici moti di resistenza civile a proditori attacchi al sistema delle garanzie costituzionali o che siano meno aristocratiche levate di scudi  corporativistiche è questione marginale: quel che importa sapere e valutare è se le critiche d’incostituzionalità mosse a carico della media-conciliazione obbligatoria siano puramente strumentali ad esigenze corporative o colgano in qualche misura nel segno.

Frizioni fra l’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 e la Legge fondamentale della Repubblica ne sono individuate ad ogni piè sospinto; qui interessa restringere il campo ad un unico profilo di incostituzionalità della norma, che personalmente reputo essere quello più pregnante e dotato di autentica consistenza.

Mi riferisco alla (presunta) violazione dell’art. 76 Cost. da parte dell’art. 5 del D.Lgs. 28/2010,  che il Legislatore delegato avrebbe perpetrato nel prevedere, per controversie relative a molte e rilevanti materie, il tentativo di conciliazione stragiudiziale quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale, a fronte di una precisa direttiva dell’art. 60 della legge-delega n.69/2009, che impegnava il Governo a dare corpo al sistema della mediazione "senza impedire l’accesso alla Giustizia”.

Nelle more dei verdetti che la Corte costituzionale emetterà su questo come sugli altri profili di sospetta incostituzionalità dell’art. 5 del D.Lgs 28/2010, sostenitori del nuovo istituto si cimentano nello “smontare”  l’impianto logico-giuridico delle accuse d’incostituzionalità lanciate contro l’obbligatorietà dello strumento compositivo.  

Riguardo alla supposta violazione dell’art. 76 Cost., è stato di recente osservato che l’art. 5 del più volte citato decreto legislativo non contrasta con le direttive impartite dal Legislatore delegante, in quanto <<...è nell’introduzione stessa della mediazione (o, quantomeno, nel potenziamento delle sue possibilità applicative) nell’ambito di un sistema processuale come il nostro che va vista la finalità deflattiva (benché non esclusiva) dell’intervento normativo del legislatore delegante. (...) La ratio di una normativa come quella in esame non può essere letta separatamente dalle esigenze sociali che la stessa è chiamata a soddisfare: rinunciare a ciò vorrebbe dire rinunciare alla funzione stessa del diritto. (...)  Pretendere di trovare una puntuale traccia della volontà deflattiva nelle singole disposizioni di una normativa anche quando la logica complessiva di quest’ultima è palese, significa esasperare il dato letterale a detrimento della ragione profonda, dello scopo ultimo di una legge. >> [1].

L’assunto è essenzialmente questo: essendo la deflazione dei processi civili la finalità unica o principale per cui il Legislatore delegante ha introdotto la mediazione, è questa finalità   – implicita, ma al contempo chiarissima e munita di forza assorbente di ogni altro potenziale scopo con essa contrastante –  a giustificare ex se la previsione della mediazione obbligatoria da parte del Legislatore delegato.

A primo acchito, il ragionamento è ineccepibile. E’innegabile che l’introduzione della media-conciliazione in materia civile è stata voluta al precipuo scopo di sgravare la macchina giudiziaria dal paralizzante fardello del contenzioso civile. E ciò sembra rendere definitiva ragione della perfetta aderenza alla legge–delega della scelta del Governo di attualizzare quel proposito, immanente all’intervento del Legislatore delegante, con la previsione di una media-conciliazione congegnata quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale in quelle materie che fanno  registrare il maggior carico di lavoro per gli uffici giudiziari.

Ma il ragionamento è solo apparentemente impeccabile; esso, infatti, riflette un’impostazione ermeneutica inammissibile che, capovolgendo la regola sancita dall’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, pretende di enucleare la ratio della legge (-delega) da una intenzione del Legislatore (delegante) inespressa, ma dotata di una supposta forza conformante tale da imporre all’interprete di trascurare ogni diversa intenzione eventualmente palesata dallo stesso Legislatore attraverso le espressioni verbali contenute nel testo legislativo:  << nell’applicare la legge >>   dispone l’art. 12 poc’anzi ricordato   << non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore >>.

Costringere le parti in conflitto ad adìre il mediatore prima del giudice è sicuramente il sistema che più d’ogni altro garantisce il raggiungimento della finalità deflattiva dell’istituto, ma a patto che nella legge non si rinvengano elementi semantico-lettarali gravi, precisi e concordanti che riflettono un’intenzione del Legislatore delegante di escludere il ricorso a quel sistema.

Ebbene, la legge-delega, per un verso, non ha speso una parola sulla possibilità dell’Esecutivo di prevedere forme di conciliazione atte a condizionare la prosecuzione dell’azione giudiziaria e, per altro verso, ha affidato all’Esecutivo stesso il compito di:

-  prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia (art. 60, comma 3 , lett. a);

-  prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione (art. 60, comma 3 , lett. n) ;

-  prevedere un sistema organico che garantisca un dato livello minimo di competenza ed imparzialità nel mediatore e di efficacia ed efficienza del procedimento di mediazione (art. 60, comma 3, lett. da b a m )

-  prevedere, a favore delle parti, forme di agevolazione di carattere fiscale (art. 60, comma 3 , lett. o).

In presenza di simili emergenze testuali, diviene impossibile accreditare la tesi secondo cui ciò che il Legislatore delegante non ha detto (possibilità di prevedere la mediazione quale condizione di procedibilità) prevale su quanto lo stesso Legislatore delegante, in più punti, ha inteso chiaramente esplicitare in direzione diametralmente opposta ad una (presunta) volontà non espressa di autorizzare il Governo a prevedere una mediazione - condizione di procedibilità.

E che la direttiva all’Esecutivo di confezionare una mediazione che non precluda l’accesso alla Giustizia andasse nella direzione esattamente contraria a quella seguita dal Governo è constatazione su cui non è possibile discutere, visto che le condizioni di procedibilità, finché non si compiono, altra conseguenza non determinano che quella di precludere l’accesso alla Giustizia e ciò per l’elementare ragione che l’accesso alla Giustizia è in re ipsa precluso ogni qual volta, a fronte di una istanza di tutela giurisdizionale, il giudice non possa pronunciare nel merito di quella istanza perché non si è verificato l’evento al quale la legge subordini la possibilità di emettere quella pronuncia [2] .

L’intenzione del Legislatore delegante di non autorizzare forme obbligatorie di mediazione, manifestata apertis verbis col divieto di prevedere procedure conciliative ostative dell’accesso alla Giustizia, trova conferma nel fatto che la legge-delega impegnava l’Esecutivo a prevedere l’obbligo dell’avvocato di informare l’assistito circa la possibilità di ricorrere al mediatore, possibilità inconcepibile se la si intende riferita ad un tentativo di conciliazione pensato come obbligatorio; il profilare un obbligo d’informare il cliente riferendosi ai soli casi in cui la mediazione è facoltativa assume un significato ermeneutico forte, poiché “tradisce” come nella mens del Legislatore delegante non vi fosse nulla di simile ad una mediazione obbligatoria.

A chiudere la partita, le norme-direttiva, rivolte al Governo, con cui il Parlamento aveva indicato quale dovesse essere la leva strategica per favorire la deflazione dei processi, leva che avrebbe dovuto trovare i propri punti di forza non in una forzosità dello strumento conciliativo (di cui non v’era cenno nella legge-delega), ma nell’apprestamento di un sistema di garanzie e di agevolazioni fiscali tali da rendere, per un verso, affidabile e, per l’altro, appetibile lo strumento stesso.



[1] “La mediazione obbligatoria tra dubbi di costituzionalità, opportunità e rischi”(https://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=2492#)

[2] La questione relativa al contrasto del decreto legislativo con la direttiva della legge - delega secondo cui la mediazione non deve impedire l’accesso alla Giustizia ha poco a che vedere con l’altra questione di costituzionalità, pure sottoposta alla Consulta, riguardante il conflitto fra il medesimo decreto legislativo e la previsione dell’art. 24 Cost. in tema di diritto alla tutela giurisdizionale. In quest’ultimo caso, il divieto di porre ostacoli al libero accesso alla Giustizia va ricavato in via interpretativa dalla norma costituzionale che si assume imporlo al Legislatore ordinario, mentre, nel primo caso, quel divieto è espressamente posto dallo stesso Legislatore ordinario. Ne discende che il profilo attinente alla violazione del divieto fatto dal Legislatore delegante prescinde totalmente dalla necessità di estrapolare dall’art. 24 Cost. un analogo divieto in base al quale l’art. 5 del decreto legislativo non avrebbe potuto prevedere ipotesi in cui la mediazione si pone come condizione di procedibilità dell’azione giudiziale. Ne segue, ulteriormente, che, con riferimento alla questione del contrasto di tale previsione con quella contenuta nella legge – delega, non potrebbe trovare applicazione la giurisprudenza della Corte costituzionale, formatasi intorno all’art. 24 Cost., secondo cui le condizioni di procedibilità non ledono il precetto dell’art. 24 Cost. qualora siano giustificate da obiettive esigenze legate alla funzionalità del processo.

Il recente assoggettamento, previsto dall’art. 5 del D.Lgs.28/2010, al previo esperimento obbligatorio di un tentativo di conciliazione stragiudiziale di molte ed importanti tipologie di controversie civilistiche ha incontrato la spietata opposizione della classe forense.

A questa si deve un’impressionante raffica di iniziative ed azioni mirate a colpire l’istituto sul nascere: comunicati stampa degli organismi di rappresentanza dell’avvocatura, assemblee di concertazione delle strategie di attacco, astensioni organizzate dalle aule giudiziarie, appelli di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, richieste di incontri col Guardasigilli.

Ma il vero attacco frontale alla media-conciliazione obbligatoria è stato sferrato a pochi giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo che ne contiene la previsione, il cui art. 5 è divenuto bersaglio di plurime iniziative di deferimento al Giudice delle legge, in relazione a svariati profili d’incostituzionalità ravvisati a suo carico. 

Che dietro le nobili motivazioni dell’aggressione, proclamate dall’avvocatura a gran voce (tutela del diritto costituzionalmente protetto di adìre liberamente il giudice, iniquo aggravio economico per gli utenti della Giustizia ecc...),  possa esservi dell’altro è cosa altamente plausibile. La mediazione obbligatoria depotenzia non poco il ruolo dell’avvocato–tecnico del diritto: questi, per un verso, si vede scalzato, nel rapporto con l’assistito, dalla tradizionale posizione di dominus unico e necessario del contenzioso processuale e, per altro verso, deve registrare come l’amministrazione dello strumento conciliativo non sia stata riservata ai membri della classe forense, scelta che l’avvocatura interpreta come una sorta di mancata “compensazione” per la perdita di centralità comportata dalla obbligatorietà della procedura compositiva.

Tuttavia, che ad agitarsi nel retroscena siano autentici moti di resistenza civile a proditori attacchi al sistema delle garanzie costituzionali o che siano meno aristocratiche levate di scudi  corporativistiche è questione marginale: quel che importa sapere e valutare è se le critiche d’incostituzionalità mosse a carico della media-conciliazione obbligatoria siano puramente strumentali ad esigenze corporative o colgano in qualche misura nel segno.

Frizioni fra l’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 e la Legge fondamentale della Repubblica ne sono individuate ad ogni piè sospinto; qui interessa restringere il campo ad un unico profilo di incostituzionalità della norma, che personalmente reputo essere quello più pregnante e dotato di autentica consistenza.

Mi riferisco alla (presunta) violazione dell’art. 76 Cost. da parte dell’art. 5 del D.Lgs. 28/2010,  che il Legislatore delegato avrebbe perpetrato nel prevedere, per controversie relative a molte e rilevanti materie, il tentativo di conciliazione stragiudiziale quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale, a fronte di una precisa direttiva dell’art. 60 della legge-delega n.69/2009, che impegnava il Governo a dare corpo al sistema della mediazione "senza impedire l’accesso alla Giustizia”.

Nelle more dei verdetti che la Corte costituzionale emetterà su questo come sugli altri profili di sospetta incostituzionalità dell’art. 5 del D.Lgs 28/2010, sostenitori del nuovo istituto si cimentano nello “smontare”  l’impianto logico-giuridico delle accuse d’incostituzionalità lanciate contro l’obbligatorietà dello strumento compositivo.  

Riguardo alla supposta violazione dell’art. 76 Cost., è stato di recente osservato che l’art. 5 del più volte citato decreto legislativo non contrasta con le direttive impartite dal Legislatore delegante, in quanto <<...è nell’introduzione stessa della mediazione (o, quantomeno, nel potenziamento delle sue possibilità applicative) nell’ambito di un sistema processuale come il nostro che va vista la finalità deflattiva (benché non esclusiva) dell’intervento normativo del legislatore delegante. (...) La ratio di una normativa come quella in esame non può essere letta separatamente dalle esigenze sociali che la stessa è chiamata a soddisfare: rinunciare a ciò vorrebbe dire rinunciare alla funzione stessa del diritto. (...)  Pretendere di trovare una puntuale traccia della volontà deflattiva nelle singole disposizioni di una normativa anche quando la logica complessiva di quest’ultima è palese, significa esasperare il dato letterale a detrimento della ragione profonda, dello scopo ultimo di una legge. >> [1].

L’assunto è essenzialmente questo: essendo la deflazione dei processi civili la finalità unica o principale per cui il Legislatore delegante ha introdotto la mediazione, è questa finalità   – implicita, ma al contempo chiarissima e munita di forza assorbente di ogni altro potenziale scopo con essa contrastante –  a giustificare ex se la previsione della mediazione obbligatoria da parte del Legislatore delegato.

A primo acchito, il ragionamento è ineccepibile. E’innegabile che l’introduzione della media-conciliazione in materia civile è stata voluta al precipuo scopo di sgravare la macchina giudiziaria dal paralizzante fardello del contenzioso civile. E ciò sembra rendere definitiva ragione della perfetta aderenza alla legge–delega della scelta del Governo di attualizzare quel proposito, immanente all’intervento del Legislatore delegante, con la previsione di una media-conciliazione congegnata quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale in quelle materie che fanno  registrare il maggior carico di lavoro per gli uffici giudiziari.

Ma il ragionamento è solo apparentemente impeccabile; esso, infatti, riflette un’impostazione ermeneutica inammissibile che, capovolgendo la regola sancita dall’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, pretende di enucleare la ratio della legge (-delega) da una intenzione del Legislatore (delegante) inespressa, ma dotata di una supposta forza conformante tale da imporre all’interprete di trascurare ogni diversa intenzione eventualmente palesata dallo stesso Legislatore attraverso le espressioni verbali contenute nel testo legislativo:  << nell’applicare la legge >>   dispone l’art. 12 poc’anzi ricordato   << non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore >>.

Costringere le parti in conflitto ad adìre il mediatore prima del giudice è sicuramente il sistema che più d’ogni altro garantisce il raggiungimento della finalità deflattiva dell’istituto, ma a patto che nella legge non si rinvengano elementi semantico-lettarali gravi, precisi e concordanti che riflettono un’intenzione del Legislatore delegante di escludere il ricorso a quel sistema.

Ebbene, la legge-delega, per un verso, non ha speso una parola sulla possibilità dell’Esecutivo di prevedere forme di conciliazione atte a condizionare la prosecuzione dell’azione giudiziaria e, per altro verso, ha affidato all’Esecutivo stesso il compito di:

-  prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia (art. 60, comma 3 , lett. a);

-  prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione (art. 60, comma 3 , lett. n) ;

-  prevedere un sistema organico che garantisca un dato livello minimo di competenza ed imparzialità nel mediatore e di efficacia ed efficienza del procedimento di mediazione (art. 60, comma 3, lett. da b a m )

-  prevedere, a favore delle parti, forme di agevolazione di carattere fiscale (art. 60, comma 3 , lett. o).

In presenza di simili emergenze testuali, diviene impossibile accreditare la tesi secondo cui ciò che il Legislatore delegante non ha detto (possibilità di prevedere la mediazione quale condizione di procedibilità) prevale su quanto lo stesso Legislatore delegante, in più punti, ha inteso chiaramente esplicitare in direzione diametralmente opposta ad una (presunta) volontà non espressa di autorizzare il Governo a prevedere una mediazione - condizione di procedibilità. [if gte mso 9]>

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A questa si deve un’impressionante raffica di iniziative ed azioni mirate a colpire l’istituto sul nascere: comunicati stampa degli organismi di rappresentanza dell’avvocatura, assemblee di concertazione delle strategie di attacco, astensioni organizzate dalle aule giudiziarie, appelli di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, richieste di incontri col Guardasigilli.

Ma il vero attacco frontale alla media-conciliazione obbligatoria è stato sferrato a pochi giorni dall’entrata in vigore del decreto legislativo che ne contiene la previsione, il cui art. 5 è divenuto bersaglio di plurime iniziative di deferimento al Giudice delle legge, in relazione a svariati profili d’incostituzionalità ravvisati a suo carico. 

Che dietro le nobili motivazioni dell’aggressione, proclamate dall’avvocatura a gran voce (tutela del diritto costituzionalmente protetto di adìre liberamente il giudice, iniquo aggravio economico per gli utenti della Giustizia ecc...),  possa esservi dell’altro è cosa altamente plausibile. La mediazione obbligatoria depotenzia non poco il ruolo dell’avvocato–tecnico del diritto: questi, per un verso, si vede scalzato, nel rapporto con l’assistito, dalla tradizionale posizione di dominus unico e necessario del contenzioso processuale e, per altro verso, deve registrare come l’amministrazione dello strumento conciliativo non sia stata riservata ai membri della classe forense, scelta che l’avvocatura interpreta come una sorta di mancata “compensazione” per la perdita di centralità comportata dalla obbligatorietà della procedura compositiva.

Tuttavia, che ad agitarsi nel retroscena siano autentici moti di resistenza civile a proditori attacchi al sistema delle garanzie costituzionali o che siano meno aristocratiche levate di scudi  corporativistiche è questione marginale: quel che importa sapere e valutare è se le critiche d’incostituzionalità mosse a carico della media-conciliazione obbligatoria siano puramente strumentali ad esigenze corporative o colgano in qualche misura nel segno.

Frizioni fra l’art. 5 del D.Lgs. 28/2010 e la Legge fondamentale della Repubblica ne sono individuate ad ogni piè sospinto; qui interessa restringere il campo ad un unico profilo di incostituzionalità della norma, che personalmente reputo essere quello più pregnante e dotato di autentica consistenza.

Mi riferisco alla (presunta) violazione dell’art. 76 Cost. da parte dell’art. 5 del D.Lgs. 28/2010,  che il Legislatore delegato avrebbe perpetrato nel prevedere, per controversie relative a molte e rilevanti materie, il tentativo di conciliazione stragiudiziale quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale, a fronte di una precisa direttiva dell’art. 60 della legge-delega n.69/2009, che impegnava il Governo a dare corpo al sistema della mediazione "senza impedire l’accesso alla Giustizia”.

Nelle more dei verdetti che la Corte costituzionale emetterà su questo come sugli altri profili di sospetta incostituzionalità dell’art. 5 del D.Lgs 28/2010, sostenitori del nuovo istituto si cimentano nello “smontare”  l’impianto logico-giuridico delle accuse d’incostituzionalità lanciate contro l’obbligatorietà dello strumento compositivo.  

Riguardo alla supposta violazione dell’art. 76 Cost., è stato di recente osservato che l’art. 5 del più volte citato decreto legislativo non contrasta con le direttive impartite dal Legislatore delegante, in quanto <<...è nell’introduzione stessa della mediazione (o, quantomeno, nel potenziamento delle sue possibilità applicative) nell’ambito di un sistema processuale come il nostro che va vista la finalità deflattiva (benché non esclusiva) dell’intervento normativo del legislatore delegante. (...) La ratio di una normativa come quella in esame non può essere letta separatamente dalle esigenze sociali che la stessa è chiamata a soddisfare: rinunciare a ciò vorrebbe dire rinunciare alla funzione stessa del diritto. (...)  Pretendere di trovare una puntuale traccia della volontà deflattiva nelle singole disposizioni di una normativa anche quando la logica complessiva di quest’ultima è palese, significa esasperare il dato letterale a detrimento della ragione profonda, dello scopo ultimo di una legge. >> [1].

L’assunto è essenzialmente questo: essendo la deflazione dei processi civili la finalità unica o principale per cui il Legislatore delegante ha introdotto la mediazione, è questa finalità   – implicita, ma al contempo chiarissima e munita di forza assorbente di ogni altro potenziale scopo con essa contrastante –  a giustificare ex se la previsione della mediazione obbligatoria da parte del Legislatore delegato.

A primo acchito, il ragionamento è ineccepibile. E’innegabile che l’introduzione della media-conciliazione in materia civile è stata voluta al precipuo scopo di sgravare la macchina giudiziaria dal paralizzante fardello del contenzioso civile. E ciò sembra rendere definitiva ragione della perfetta aderenza alla legge–delega della scelta del Governo di attualizzare quel proposito, immanente all’intervento del Legislatore delegante, con la previsione di una media-conciliazione congegnata quale condizione di procedibilità dell’azione giudiziale in quelle materie che fanno  registrare il maggior carico di lavoro per gli uffici giudiziari.

Ma il ragionamento è solo apparentemente impeccabile; esso, infatti, riflette un’impostazione ermeneutica inammissibile che, capovolgendo la regola sancita dall’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, pretende di enucleare la ratio della legge (-delega) da una intenzione del Legislatore (delegante) inespressa, ma dotata di una supposta forza conformante tale da imporre all’interprete di trascurare ogni diversa intenzione eventualmente palesata dallo stesso Legislatore attraverso le espressioni verbali contenute nel testo legislativo:  << nell’applicare la legge >>   dispone l’art. 12 poc’anzi ricordato   << non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore >>.

Costringere le parti in conflitto ad adìre il mediatore prima del giudice è sicuramente il sistema che più d’ogni altro garantisce il raggiungimento della finalità deflattiva dell’istituto, ma a patto che nella legge non si rinvengano elementi semantico-lettarali gravi, precisi e concordanti che riflettono un’intenzione del Legislatore delegante di escludere il ricorso a quel sistema.

Ebbene, la legge-delega, per un verso, non ha speso una parola sulla possibilità dell’Esecutivo di prevedere forme di conciliazione atte a condizionare la prosecuzione dell’azione giudiziaria e, per altro verso, ha affidato all’Esecutivo stesso il compito di:

-  prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia (art. 60, comma 3 , lett. a);

-  prevedere il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione (art. 60, comma 3 , lett. n) ;

-  prevedere un sistema organico che garantisca un dato livello minimo di competenza ed imparzialità nel mediatore e di efficacia ed efficienza del procedimento di mediazione (art. 60, comma 3, lett. da b a m )

-  prevedere, a favore delle parti, forme di agevolazione di carattere fiscale (art. 60, comma 3 , lett. o).

In presenza di simili emergenze testuali, diviene impossibile accreditare la tesi secondo cui ciò che il Legislatore delegante non ha detto (possibilità di prevedere la mediazione quale condizione di procedibilità) prevale su quanto lo stesso Legislatore delegante, in più punti, ha inteso chiaramente esplicitare in direzione diametralmente opposta ad una (presunta) volontà non espressa di autorizzare il Governo a prevedere una mediazione - condizione di procedibilità.

E che la direttiva all’Esecutivo di confezionare una mediazione che non precluda l’accesso alla Giustizia andasse nella direzione esattamente contraria a quella seguita dal Governo è constatazione su cui non è possibile discutere, visto che le condizioni di procedibilità, finché non si compiono, altra conseguenza non determinano che quella di precludere l’accesso alla Giustizia e ciò per l’elementare ragione che l’accesso alla Giustizia è in re ipsa precluso ogni qual volta, a fronte di una istanza di tutela giurisdizionale, il giudice non possa pronunciare nel merito di quella istanza perché non si è verificato l’evento al quale la legge subordini la possibilità di emettere quella pronuncia [2] .

L’intenzione del Legislatore delegante di non autorizzare forme obbligatorie di mediazione, manifestata apertis verbis col divieto di prevedere procedure conciliative ostative dell’accesso alla Giustizia, trova conferma nel fatto che la legge-delega impegnava l’Esecutivo a prevedere l’obbligo dell’avvocato di informare l’assistito circa la possibilità di ricorrere al mediatore, possibilità inconcepibile se la si intende riferita ad un tentativo di conciliazione pensato come obbligatorio; il profilare un obbligo d’informare il cliente riferendosi ai soli casi in cui la mediazione è facoltativa assume un significato ermeneutico forte, poiché “tradisce” come nella mens del Legislatore delegante non vi fosse nulla di simile ad una mediazione obbligatoria.

A chiudere la partita, le norme-direttiva, rivolte al Governo, con cui il Parlamento aveva indicato quale dovesse essere la leva strategica per favorire la deflazione dei processi, leva che avrebbe dovuto trovare i propri punti di forza non in una forzosità dello strumento conciliativo (di cui non v’era cenno nella legge-delega), ma nell’apprestamento di un sistema di garanzie e di agevolazioni fiscali tali da rendere, per un verso, affidabile e, per l’altro, appetibile lo strumento stesso.



[1] “La mediazione obbligatoria tra dubbi di costituzionalità, opportunità e rischi”(https://www.filodiritto.com/index.php?azione=visualizza&iddoc=2492#)

[2] La questione relativa al contrasto del decreto legislativo con la direttiva della legge - delega secondo cui la mediazione non deve impedire l’accesso alla Giustizia ha poco a che vedere con l’altra questione di costituzionalità, pure sottoposta alla Consulta, riguardante il conflitto fra il medesimo decreto legislativo e la previsione dell’art. 24 Cost. in tema di diritto alla tutela giurisdizionale. In quest’ultimo caso, il divieto di porre ostacoli al libero accesso alla Giustizia va ricavato in via interpretativa dalla norma costituzionale che si assume imporlo al Legislatore ordinario, mentre, nel primo caso, quel divieto è espressamente posto dallo stesso Legislatore ordinario. Ne discende che il profilo attinente alla violazione del divieto fatto dal Legislatore delegante prescinde totalmente dalla necessità di estrapolare dall’art. 24 Cost. un analogo divieto in base al quale l’art. 5 del decreto legislativo non avrebbe potuto prevedere ipotesi in cui la mediazione si pone come condizione di procedibilità dell’azione giudiziale. Ne segue, ulteriormente, che, con riferimento alla questione del contrasto di tale previsione con quella contenuta nella legge – delega, non potrebbe trovare applicazione la giurisprudenza della Corte costituzionale, formatasi intorno all’art. 24 Cost., secondo cui le condizioni di procedibilità non ledono il precetto dell’art. 24 Cost. qualora siano giustificate da obiettive esigenze legate alla funzionalità del processo.