Messaggio in bottiglia dal tetto del mondo

Tibet
Tibet

Ci sono al mondo luoghi di una bellezza profonda dove la propria anima a volte trova rifugio. Ce ne sono altri dove si percepisce una ferita, un dolore causato dalla miopia umana. Il Tibet è tutto questo e molto altro ancora.

Molti reputano che sia un luogo di pace, dove si è sviluppata una cultura complementare a quella occidentale e per questo in grado di offrire risposte a sofferenze sempre più diffuse, per lenire le quali la razionalità non è sufficiente. Eppure è al contempo terra di dolore.

Ancora una volta sono stato trascinato quassù da una nostalgia legata a situazioni vissute nell’arco degli anni e da quassù lascio cadere la mia testimonianza, come un foglio in una bottiglia affidata alle acque dello Yarlung Tsampo, che gli indiani chiamano Brahmaputra.

Il luogo dove mi trovo permette alla vista di spaziare lontano.

Sono sull’altura di Shegar, sotto la antica fortezza diroccata, nei pressi del monastero che domina la vallata. Ai piedi del monte la valle è divisa in due dal fiume: sulla sponda destra si erge il vecchio villaggio, mentre su quella sinistra è stato costruito dalle autorità un nuovo agglomerato di abitazioni, al momento disabitato.

Un amico tibetano mi spiega che il nuovo villaggio, dove tutta la popolazione dovrà forzatamente spostarsi, sorge su quelle che erano le terre coltivabili degli abitanti. Le nuove case non sono dotate di stalle, cosicché andando a vivere lì i locali non avranno più né terre da coltivare, né possibilità di tenere bestiame.

In pratica, dovranno reinventarsi un modo per sopravvivere, anche se l’intento ufficiale è quello di modernizzare la loro vita.

Questo tempio, come tanti altri, ha subito pesanti danneggiamenti nel corso della Rivoluzione Culturale, ma oggi il pericolo principale per il Tibet sembra essere mutato. Oggi prende la forma di una massiccia immigrazione di genti di etnia han (cinesi), attirate da agevolazioni finanziarie e fiscali. Questo flusso sta trasformando i tibetani in una minoranza nella loro terra.

Nelle grandi città come Lhasa le attività commerciali del centro storico sono massicciamente affidate a genti cinesi ed i tibetani vengono progressivamente emarginati. Tutte le abitazioni del quartiere centrale sono state censite per metri quadri e numero di abitanti e la gente teme un massiccio spostamento forzato verso la periferia.

La cultura locale viene osteggiata e così pure la possibilità di tramandare lingua ed usi.

A questo si aggiunge l’oltraggio della presenza massiccia di soldati e poliziotti con continui posti di blocco e controlli ovunque.

Sul muro esterno del Jokhang, il tempio più sacro della capitale, vengono proiettati avvisi commerciali e la sera risuona una musichetta che invita a ballare (è come se si trasformasse Piazza San Pietro in un luogo di svago e intrattenimento).

I tibetani subiscono, non hanno possibilità di opporsi a tutto ciò.

Negli ultimi anni circa in 160 si sono già alternati in una tragica staffetta della morte, dandosi fuoco per protesta. Di tutto ciò è proibito parlare. Ufficialmente la popolazione è ampiamente soddisfatta dai benefici della colonizzazione (creazione di una moderna rete stradale, di condutture elettriche ed idriche).

La sera stessa che sono arrivato in Tibet sono stato convocato nella locale stazione di polizia, per il rito della “responsabilità collettiva”. Sono stato fotografato e schedato perché, se qualcuna delle persone che erano con me avesse commesso qualche atto contrario alla legge locale, sarei stato chiamato a risponderne.

È da notare che detti metodi sono copiati da quelli adottati circa 2.200 anni orsono dall’imperatore Qin Shi Huangdi, colui che unificò la Cina con pugno di ferro. Una volta preso il potere, ordinò di bruciare i testi confuciani, che concepivano una società retta da giustizia, gentilezza, rispetto delle regole, saggezza, sincerità.