“A nessuno piace più il Giro d’Italia”
“A nessuno piace più il Giro d’Italia”
Quello in partenza da Budapest sarà il Giro d’Italia più misero degli ultimi quindici anni. Dobbiamo sforzarci, infatti, per trovare un favorito per la maglia rosa: pensiamo a Richard Carapaz, vincitore nel 2019 e medaglia d’oro a Tokyo, a Joao Almeida, talentuoso portoghese ingaggiato dagli sceicchi come luogotenente di Pogacar, a Tom Dumoulin, tornato a correre dopo essersi scrollato di dosso il peso delle pressioni, a Vincenzo Nibali, ultimo alfiere di un ciclismo italiano che fatica a rialzare la testa.
Potremmo allora immaginare un duello tra Carapaz e Almeida, i due principali favoriti, o che uno della nutrita pattuglia degli outsider possa approfittare del vuoto di potere lasciato dall’assenza dei grandi. Tanti i nomi da spendere per il podio: oltre a quelli già citati, ci sarebbero anche Simon Yates, Miguel Angel López, Jai Hindley, Mikel Landa, Wilco Kelderman, Romain Bardet, Emanuel Buchmann, Hugh Carthy, Pello Bilbao, Guillaume Martin, Bauke Mollema e Tobias Foss. Un Giro di quantità più che di qualità, almeno per quanto riguarda la classifica generale.
Al Giro non ci sono più i campionissimi. L’El Dorado è altrove, in Francia o in Spagna. Il Tour de France, la Superlega del ciclismo, ha sopraffatto il Giro per montepremi e appeal, attirando le attenzioni di sceicchi e giganti dello sportwashing. All’Italia resta dunque uno stuolo di seconde linee ambiziose o ex generali condannati all’esilio.
Il Giro numero 105 scatterà dal salotto di Viktor Orbán, tra Buda e Pest, con il traguardo della prima tappa in cima a una rampa che sembra fatta apposta per le gambe possenti di Mathieu Van der Poel. L’olandese, nipote del grande Poulidor, è stato l’unico dei grandi a scegliere il Giro: «Per vincere e non per preparare il Tour», come ha tenuto a precisare. Sarà il vincitore dell’ultimo Giro delle Fiandre il grande catalizzatore nella prima settimana di corsa prima che le montagne alzino il sipario su una competizione incerta ma scadente.
Proviamo allora a prenderci quel poco di buono che c’è. Il percorso, dicevamo, con un tracciato che Bardet ha definito “un susseguirsi di classiche”. Tante montagne e poche cronometro, giusto per arruffianarsi i giudizi di appassionati e addetti ai lavori. Di salita ce n’è tanta: l’Etna, dopo la tre giorni in Ungheria, la doppia scalata al Blockhaus, un Mortirolo in Abruzzo, le Alpi e infine le Dolomiti. Torneremo a gustarci l’accoppiata Mortirolo (quello originale) e Santa Cristina riavvolgendo il nastro della memoria al duello tra Pantani e Indurain nel Giro di Berzin. Altri tempi, lontanissimi. Al penultimo giorno sarà la volta di Pordoi e Marmolada, le cime dei pionieri, prima del gran finale all’Arena di Verona, quello dell’ordalia tra Moser e Fignon.
Non sarà un Giro di qualità e vi avevamo già messo in guardia: dei primi dieci ciclisti del ranking UCI, saranno in Italia soltanto il nono (Almeida) e il decimo (Carapaz). L’élite – Pogacar, Roglic, Alaphilippe e Van Aert – correrà al Tour o alla Vuelta. Dei 176 partecipanti, inoltre, soltanto in cinque hanno vinto almeno un grande giro in carriera: Nibali, Valverde, Carapaz, Yates e Dumoulin. Fotografia di una corsa destinata all’anonimato della periferia.
Ma se il Giro d’Italia possiede ancora un fascino viscerale, questo è da ricercare nella magia invisibile di una corsa che rappresenta il più grande evento sportivo popolare in Italia. Ci emozioneremo allora scoprendo gli angoli nascosti del Bel Paese, scrigni di bellezza custoditi dal tempo e rispolverati dalla liturgia del Giro. Proveremo a raccontare storie di vittorie e sconfitte, di fughe e crisi improvvise, di cadute e forature. Sarà un Giro ricco di speranze e incertezze, come quelle dei tempi che viviamo.
Vestiremo dunque i panni di esploratori di una bellezza nascosta, percorrendo il sentiero tracciato da Indro Montanelli, cantore dell’Italia del Giro negli anni della rinascita, quelli dei coppiani e dei bartaliani, di De Gasperi e Togliatti, dei ponti distrutti e delle città bombardate. Scriveremo allora del francese Guillaume Martin, ciclista-filosofo con un debole per Cartesio e Nietzsche, dell’eritreo Biniam Girmay, primo africano a vincere una grande classica (la Gand-Wevelgem), dell’ex campione del mondo Alejandro Valverde, 42enne affetto dalla sindrome di Benjamin Button, delle cadute e delle risalite di un altro ex iridato, l’eterno Mark Cavendish tornato a sprintare dopo aver sconfitto la depressione.
A prenderci per mano saranno le sfumature di uno sport epico e selvaggio. Basterà questo, nel viaggio attraverso un’Italia dimenticata, a farci tornare indietro nel tempo, quando il Giro era il Giro e il ciclismo non aveva ancora conosciuto l’egemonia del Tour de France.