Sistema 231 ed “enti di piccole dimensioni”: criticità normative e spunti di riflessione
Articolo pubblicato nella sezione Il confronto col legislatore del numero 1/2021 della Rivista "Sistema 231".
Abstract
Il Decreto Legislativo 231/2001, a quasi un ventennio dalla sua emanazione, non sembra aver fatto breccia negli enti di piccole dimensioni. Al di là della scarsa sensibilità da parte di queste realtà nell’operare la scelta di dotarsi di un sistema 231, è opportuno sottolineare come le stesse siano sovente destinatarie di procedimenti aventi ad oggetto violazioni del Decreto 231. Non solo: ad oggi, risulta difficile cogliere la definizione normativa di “enti di piccole dimensioni” e, al contempo, del profondo significato della disposizione di cui all’articolo 6, comma 4, del Decreto Legislativo 231/2001: norma che prevede, per tali tipologie di enti, che le funzioni tipiche dell’organismo di vigilanza possano essere svolte dallo stesso organo dirigente. Oltre alla portata criminogena degli enti di piccole dimensioni, con riferimento a numerose attività che possono essere da queste svolte – e alla connessa portata lesiva rispetto a beni giuridici fondamentali (tutela della sicurezza dei lavoratori e dell’economia su tutte) – compito del Legislatore deve essere quello di accompagnare tutti gli enti collettivi in un percorso proattivo di sensibilizzazione ed adeguamento ai sistemi 231, in un’ottica sia organizzativa interna che preventiva rispetto al compimento di reati presupposto di cui al decalogo 231. In conclusione, deve rilevarsi come non si può assolutamente sottovalutare il compito dell’organismo di vigilanza né ridurlo a mero adempimento formale, soprattutto in quelle realtà imprenditoriali che accentrano tutti i poteri decisionali, con il rischio di sovrapposizione tra controllante e controllato.
[Legislative Decree no. 231 of 2001 has entered into force almost two decades ago, but it has yet to break through into small institutions. Besides the lack of foresight of these institutions in adopting a 231 System, it should be noted that they are often the addressees of proceedings concerning breaches of the Decree in question. It is arduous to grasp the regulatory definition of “small institution” and, simultaneously, to define the deep meaning of the provision set out in Article 6, paragraph 4 of Legislative Decree no. 231 of 2001: the law provides that, for such types of institutions, the typical functions of the Supervisory Body (so-called “organismo di vigilanza”) may be attributed to the executive body. In addition to the criminogenic scope of small institutions with reference to the numerous activities which they may carry out - and to the related harmful scope with respect to fundamental legal assets (above all, the protection of workers’ safety and of the economy) - the legislator must be tasked with guiding all collective entities in the process of increasing awareness of and adapting to the above-mentioned 231 System, both in terms of internal organization and of prevention of crimes referred to in Decalogue 231. In conclusion, it should be noted that the task of the Supervisory Body is paramount and cannot be underestimated nor can it be reduced to a mere formality, particularly in businesses in which decision-making powers are concentrated, with the risk of overlap between the parent company and its subsidiaries].
Sommario
1. L’approccio della piccola e media impresa al Decreto Legislativo 231/2001
2. Verso una definizione “ermeneutica” di “enti dotati di piccole dimensioni”
3. La portata criminogena degli “enti dotati di piccole dimensioni”: alcuni esempi emblematici
4. Conclusioni
Summary
1.The approach of small and medium-sized enterprises to Legislative Decree no. 231 of 2001
2.Moving towards a “hermeneutic” definition of “small institution”
3.The criminogenic range of “small institutions”: a few emblematic examples
4.Conclusions
1. L’approccio della piccola e media impresa al Decreto Legislativo 231/2001
La Relazione governativa che accompagna l’entrata in vigore del Decreto Legislativo 231/2001 sottolinea, fin dalle sue prime battute, l’importanza – sotto il profilo della politica criminale – dell’introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi, poiché è “ormai pacifico che le principali e più pericolose manifestazioni di reato sono poste in essere (…) da soggetti a struttura organizzata e complessa” sì da “capovolgere il noto brocardo, ammettendo che la societas può (e spesso vuole) delinquere”[1].
Il Decreto Legislativo 231/2001, quindi, fin dalla sua genesi, si propone come un corpus di norme rivolte ad enti “a struttura organizzata e complessa”, ben lontani – però – da quelli che costituiscono il tessuto imprenditoriale ed economico del nostro Paese, storicamente caratterizzato da piccole imprese – talvolta non particolarmente strutturate ed anzi spesso – con base proprietaria ristretta e a gestione familiare. Si fa qui riferimento a quelle realtà economiche in cui il socio fondatore rappresenta il cuore pulsante della vita societaria in tutte le sue sfaccettature, compresa quella organizzativa.
Più precisamente, circa il 92%[2] delle imprese attive presenti sul nostro territorio sono caratterizzate da una struttura organizzativo-gestionale “snella”, definita da autorevole dottrina “gestione padronale”[3], che comporta l’accentramento del potere decisorio (anche nella prospettiva organizzativa) nelle mani del socio fondatore, determinando così una sostanziale sovrapposizione tra imprenditore e impresa.
L’esperienza pratica ha evidenziato un atteggiamento di scarsa sensibilità da parte di questi enti all’approccio e alla filosofia del “sistema 231” che, come noto, è basato essenzialmente sulla proceduralizzazione delle attività, sulla diversificazione delle figure aziendali (c.d. “segregazione delle funzioni”) e, soprattutto, sulla istituzione di un organismo deputato sia al controllo sull’intero “sistema 231” aziendale, sia sulla verifica rispetto all’osservanza dei modelli di gestione ed organizzazione (d’ora in avanti MOG) da parte dei soggetti apicali e/o sottoposti: tutto questo in un’ottica di prevenzione rispetto alla commissione di reati.
La struttura organizzativa degli enti di modeste dimensioni, di fatto, appare del tutto incompatibile con un sistema concepito, invece, per “entità complesse” che gioco forza, fin dalla loro nascita, si dotano di un sistema organizzativo strutturato, composto da deleghe, protocolli e procedure interne formalizzate e presentano una spiccata attitudine a soggiacere a forme di controllo da parte di organi che, seppur inseriti nell’organigramma aziendale, sono del tutto indipendenti (si vedano, ad esempio, il collegio sindacale, le società di revisione o, negli intermediari finanziari, le funzioni Anti-money laundering (“AML”)).
Le società di piccole dimensioni di cui è intessuta la nostra economia presentano, invece, un sistema organizzativo che è frutto dell’impronta data dall’imprenditore, che è vero e proprio metronomo della vita societaria. In queste realtà, come noto, i processi decisionali non sono formalizzati e di solito fondano su vere e proprie “prassi aziendali”, introdotte e coltivate dall’imprenditore.
In questi enti la proceduralizzazione dell’attività e la previsione di una stratificazione delle funzioni aziendali è ripudiata dall’organo dirigente, in quanto viene vissuta come un vero e proprio appesantimento dell’operatività aziendale a discapito della produttività. Ciò in quanto l’aggravio strutturale imposto dall’introduzione di procedure che hanno il primario compito di scandire, in termini organizzati, l’operatività aziendale, di fatto, determina nella prospettiva dell’imprenditore un deficit nella massimizzazione dei profitti. Non solo: ciò che crea un vero e proprio shock nella prospettiva dell’imprenditore-padrone è l’introduzione di norme comportamentali che vanno ad incidere proprio sulla componente manageriale dell’ente. Nella sostanza, il sistema 231 irrompe nella vita aziendale e crea una frattura tra imprenditore e impresa, rompendo quell’immedesimazione organica tra persona fisica e persona giuridica, che spesso porta a situazioni estremamente patologiche[4].
È proprio con riferimento a questo peculiare aspetto che la dottrina ha lucidamente affermato come “…la costruzione di un reticolo di procedure formali è destinata ad esser accantonata a favore di più snelle consuetudini comportamentali calibrate sulle quotidiane pratiche operative”[5]: ulteriore dimostrazione di come il sistema elaborato dal Legislatore del 2001 sia quasi incompatibile con gli enti di piccole dimensioni.
A circa un ventennio dall’emanazione del Decreto Legislativo 231/2001, infatti, gli enti collettivi di piccole dimensioni hanno mostrato anche una scarsa propensione alla comprensione della ratio della 231 e, proprio per tale ragione, l’esperienza fattuale ha dimostrato come molti di questi enti si sono dotati di modelli di organizzazione solo formali, distanti dalla realtà aziendale cui si riferiscono e che sono perlopiù modelli solo “sulla carta”, del tutto inefficaci.
Ciò che certamente ha contribuito alla sostanziale mancata attuazione dei dicta del Decreto 231 negli enti di piccole dimensioni è poi l’impatto dei costi di adeguamento al Decreto Legislativo 231/2001. Non si fa qui riferimento esclusivamente ai costi che l’azienda deve sostenere in termini di stravolgimento della propria organizzazione, ma, soprattutto, ai costi economici derivanti dall’elaborazione dei modelli organizzativi, al compenso dovuto all’organismo di vigilanza (di seguito ODV) e al budget di spesa ad esso destinato.
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