Studi di settore: avvisi di accertamento nulli per carenza di motivazione e per mancanza di “grave incongruenza” tra dichiarato e accertato
La Corte di Cassazione, Sezione V, con sentenza n. 25902 del 23.12.2015 è intervenuta in materia di accertamenti fondati sugli studi di settore, sancendo due principi degni di nota:
- in primo luogo l’amministrazione, nella motivazione dell’atto impositivo, deve tenere conto delle argomentazioni addotte dal contribuente nel contraddittorio endoprocedimentale;
- in secondo luogo l’incongruenza riscontrata tra ricavi dichiarati ed accertati, nella specie pari al 6,4%, mancando del requisito della gravità, non può legittimare la rettifica induttiva del reddito.
Premessa
Prima di procedere al commento della sentenza, è d’uopo fare un breve cenno alle caratteristiche dell’accertamento standardizzato mediante studi di settore, al fine di meglio comprendere la questione oggetto della pronuncia della Corte di Cassazione.
La fonte normativa degli studi di settore è l’articolo 62 bis del Decreto Legge 331/03 (convertito nella L. 427/93) il quale dispone che gli Uffici dell’A.E., sentite le associazioni professionali e di categoria, procedono all’elaborazione di appositi studi in relazione ai vari settori economici.
Si tratta di un accertamento analitico – induttivo fondato su presunzioni semplici, il quale consente la determinazione presuntiva dei ricavi o dei compensi del contribuente sulla base di una sua capacità potenziale a produrli, determinata dall’analisi dei dati dichiarati dal contribuente e di altri elementi extracontabili.
Il contribuente, la cui dichiarazione non dovesse risultare congrua e coerente con gli studi di settore, è sottoposto all’azione di accertamento.
Il caso
Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità aveva ad oggetto un avviso di accertamento fondato sugli studi di settore, dichiarato illegittimo dai giudici di merito, sia di primo sia di secondo grado.
L’Agenzia delle Entrate impugnava dinanzi la Corte di Cassazione la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Napoli n. 31 del 02/902/2009, adducendo come unico motivo, l’errore commesso dai giudici di merito nell’applicazione del Decreto Legge n. 331 del 1993, articolo 62 sexies, disciplinante gli studi di settore. In particolare, secondo l’Ufficio la norma succitata legittimerebbe la pretesa del Fisco.
La soluzione dei giudici di legittimità
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, respinge il ricorso dell’Ufficio e sancisce, al contempo, due principi che rivestono una notevole rilevanza in ambito pratico, giacché coinvolgono sia l’aspetto formale sia l’aspetto sostanziale degli accertamenti standardizzati mediante studi di settore.
Per quanto riguarda il primo aspetto, attinente l’obbligo motivazionale dell’avviso di accertamento, la Suprema Corte sanziona con la nullità gli avvisi di accertamento la cui motivazione sia fondata solo sullo scostamento rilevato tra il reddito dichiarato e quello accertato mediante gli studi di settore.
Secondo i giudici di legittimità, nei casi di accertamenti standardizzati fondati su studi di settore, l’amministrazione deve integrare la motivazione degli atti impositivi dimostrando, in concreto, l’applicabilità dello standard prescelto ed esplicando, altresì, le motivazioni che hanno indotto l’Ufficio a disattendere le argomentazioni addotte dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale.
Nel caso oggetto della pronuncia, in particolare, l’Ufficio non aveva tenuto in considerazione che il contribuente, esercente l’attività di commerciante, in sede di contraddittorio aveva giustificato lo scostamento mediante circostanze di fatto quali “vicinanze di supermercati”, “inagibilità delle strade per lavori”, “chiusura successiva dell’attività per riduzione del giro d’affari”, tutte facilmente verificabili dall’Ufficio.
La fase del contraddittorio, infatti, secondo la Suprema Corte, è obbligatoria nei casi di accertamenti standardizzati mediante studi di settore, i quali costituiscono un sistema di presunzioni semplici la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati, ma nasce, appunto, solo in esito al contraddittorio.
Tale fase fornisce al contribuente un utile strumento, ovvero la facoltà di produrre la prova contraria atta a contestare la pretesa del Fisco, senza limitazione alcuna, dimostrando la sussistenza di circostanze di fatto che, ad esempio, possano fare escludere l’applicabilità dello standard prescelto mediante lo studio di settore, o possano giustificare un reddito inferiore a quello accertato mediante il sistema standardizzato.
Laddove il contribuente si adoperi in tal senso, l’Ufficio è tenuto a motivare l’atto l’impositivo, pena la nullità dell’avviso di accertamento, confutando le argomentazioni del contribuente, ergo, dimostrando che le ragioni e le circostanze dallo stesso allegate, siano state adeguatamente valutate.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, attinente la misura dello scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli accertati dall’Ufficio, la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha precisato che l’accertamento è legittimo solo quando venga ravvisata una grave incongruenza tra il dichiarato e l’accertato, non potendosi ritenere tale, lo scostamento rilevato nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, pari al 6,4,%.
Tale principio, peraltro, risultava già affermato da altra sentenza della Corte di Cassazione (sent. n. 20414/14).
D’altro canto, però, nella sentenza in commento i giudici non hanno quantificato il concetto di “grave incongruenza”, il quale continua ad essere caratterizzato da indeterminatezza sia normativa sia giurisprudenziale.
In altri termini, seppure sia certo che lo scostamento del 6,4% non può ritenersi rilevante ai fini della determinazione induttiva del reddito, rimane ancora incerta la misura minima che possa legittimare l’accertamento standardizzato.
La Corte di Cassazione, Sezione V, con sentenza n. 25902 del 23.12.2015 è intervenuta in materia di accertamenti fondati sugli studi di settore, sancendo due principi degni di nota:
- in primo luogo l’amministrazione, nella motivazione dell’atto impositivo, deve tenere conto delle argomentazioni addotte dal contribuente nel contraddittorio endoprocedimentale;
- in secondo luogo l’incongruenza riscontrata tra ricavi dichiarati ed accertati, nella specie pari al 6,4%, mancando del requisito della gravità, non può legittimare la rettifica induttiva del reddito.
Premessa
Prima di procedere al commento della sentenza, è d’uopo fare un breve cenno alle caratteristiche dell’accertamento standardizzato mediante studi di settore, al fine di meglio comprendere la questione oggetto della pronuncia della Corte di Cassazione.
La fonte normativa degli studi di settore è l’articolo 62 bis del Decreto Legge 331/03 (convertito nella L. 427/93) il quale dispone che gli Uffici dell’A.E., sentite le associazioni professionali e di categoria, procedono all’elaborazione di appositi studi in relazione ai vari settori economici.
Si tratta di un accertamento analitico – induttivo fondato su presunzioni semplici, il quale consente la determinazione presuntiva dei ricavi o dei compensi del contribuente sulla base di una sua capacità potenziale a produrli, determinata dall’analisi dei dati dichiarati dal contribuente e di altri elementi extracontabili.
Il contribuente, la cui dichiarazione non dovesse risultare congrua e coerente con gli studi di settore, è sottoposto all’azione di accertamento.
Il caso
Il caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità aveva ad oggetto un avviso di accertamento fondato sugli studi di settore, dichiarato illegittimo dai giudici di merito, sia di primo sia di secondo grado.
L’Agenzia delle Entrate impugnava dinanzi la Corte di Cassazione la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Napoli n. 31 del 02/902/2009, adducendo come unico motivo, l’errore commesso dai giudici di merito nell’applicazione del Decreto Legge n. 331 del 1993, articolo 62 sexies, disciplinante gli studi di settore. In particolare, secondo l’Ufficio la norma succitata legittimerebbe la pretesa del Fisco.
La soluzione dei giudici di legittimità
La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, respinge il ricorso dell’Ufficio e sancisce, al contempo, due principi che rivestono una notevole rilevanza in ambito pratico, giacché coinvolgono sia l’aspetto formale sia l’aspetto sostanziale degli accertamenti standardizzati mediante studi di settore.
Per quanto riguarda il primo aspetto, attinente l’obbligo motivazionale dell’avviso di accertamento, la Suprema Corte sanziona con la nullità gli avvisi di accertamento la cui motivazione sia fondata solo sullo scostamento rilevato tra il reddito dichiarato e quello accertato mediante gli studi di settore.
Secondo i giudici di legittimità, nei casi di accertamenti standardizzati fondati su studi di settore, l’amministrazione deve integrare la motivazione degli atti impositivi dimostrando, in concreto, l’applicabilità dello standard prescelto ed esplicando, altresì, le motivazioni che hanno indotto l’Ufficio a disattendere le argomentazioni addotte dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale.
Nel caso oggetto della pronuncia, in particolare, l’Ufficio non aveva tenuto in considerazione che il contribuente, esercente l’attività di commerciante, in sede di contraddittorio aveva giustificato lo scostamento mediante circostanze di fatto quali “vicinanze di supermercati”, “inagibilità delle strade per lavori”, “chiusura successiva dell’attività per riduzione del giro d’affari”, tutte facilmente verificabili dall’Ufficio.
La fase del contraddittorio, infatti, secondo la Suprema Corte, è obbligatoria nei casi di accertamenti standardizzati mediante studi di settore, i quali costituiscono un sistema di presunzioni semplici la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati, ma nasce, appunto, solo in esito al contraddittorio.
Tale fase fornisce al contribuente un utile strumento, ovvero la facoltà di produrre la prova contraria atta a contestare la pretesa del Fisco, senza limitazione alcuna, dimostrando la sussistenza di circostanze di fatto che, ad esempio, possano fare escludere l’applicabilità dello standard prescelto mediante lo studio di settore, o possano giustificare un reddito inferiore a quello accertato mediante il sistema standardizzato.
Laddove il contribuente si adoperi in tal senso, l’Ufficio è tenuto a motivare l’atto l’impositivo, pena la nullità dell’avviso di accertamento, confutando le argomentazioni del contribuente, ergo, dimostrando che le ragioni e le circostanze dallo stesso allegate, siano state adeguatamente valutate.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, attinente la misura dello scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli accertati dall’Ufficio, la Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha precisato che l’accertamento è legittimo solo quando venga ravvisata una grave incongruenza tra il dichiarato e l’accertato, non potendosi ritenere tale, lo scostamento rilevato nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, pari al 6,4,%.
Tale principio, peraltro, risultava già affermato da altra sentenza della Corte di Cassazione (sent. n. 20414/14).
D’altro canto, però, nella sentenza in commento i giudici non hanno quantificato il concetto di “grave incongruenza”, il quale continua ad essere caratterizzato da indeterminatezza sia normativa sia giurisprudenziale.
In altri termini, seppure sia certo che lo scostamento del 6,4% non può ritenersi rilevante ai fini della determinazione induttiva del reddito, rimane ancora incerta la misura minima che possa legittimare l’accertamento standardizzato.