Tribunale Ancona: la Consulta deve pronunciarsi sulla condanna d’ufficio per lite temeraria
SEZIONE II CIVILE
Il Giudice, letti gli atti del procedimento n. 2353.01 ,ha emesso la seguente
o r d i n a n z a
Con atto di citazione del 25.8.01 L*** F*** conveniva in giudizio A*** G***, la C*** spa e la F*** Spa, con domanda di risarcimento dei danni pari a £ 1.000.000.000 (un miliardo)a seguito di un investimento da lui subito quale pedone, con in braccio un bambino di due anni.
Esponeva l’attore che si trovava in un tratto ove mancava la transenna tra marciapiede e strada ; che nello stesso momento giungeva l’autobus della società convenuta “a velocità sconsideratamente elevata”; che egli, “spaventato dalla spropositata velocità e dalla scellerata ,imprudente e negligente condotta di guida tenuta dal citato autoveicolo ,nel tentativo di levarsi dalla situazione di pericolo venutasi a creare, confuso, poneva un piede al di sotto del marciapiede, allorquando l’autobus lo andava ad urtare violentemente con il suo lato anteriore destro, scaraventandolo rovinosamente a terra...”.
Si costituivano tutti i convenuti, contestando recisamente la ricostruzione e la domanda dell’attore, rilevando come la versione del fatto da parte del L*** fosse smaccatamente contraddittoria ed illogica, osservando che l’incidente era dovuto esclusivamente alla grave imprudenza dell’attore che aveva deciso di attraversare la strada in maniera improvvisa ed imprevedibile, nonostante vi fossero a 20 metri le strisce pedonali, che peraltro i vigili urbani intervenuti avevano contestato contravvenzioni solamente al Lise, precisamente ex art 190 comma 2° CdS.
Nel corso della trattazione istruttoria veniva disposta la riunione del procedimento n. 3419.01 , relativo alla domanda proposta dal legale rappresentante del piccolo B*** A***,il bambino in braccio al L*** al momento dell’incidente.
Veniva poi compiuta un’istruzione probatoria piuttosto laboriosa e lunga, che conduceva infine all’assegnazione della causa a sentenza.
Ritiene questo giudice che – nonostante l’orientamento parzialmente contrario espresso, sia pure in sede di delibazione prettamente sommaria (e peraltro in limine), dal precedente giudice monocratico titolare del fascicolo, relativamente alla richiesta, accolta, di una provvisionale – la domanda risulti del tutto infondata, non essendovi spazio neppure per un concorso di colpa del conducente.
Infatti , non è rimasto confutato dalle emergenze processuali che effettivamente c’era un passaggio pedonale a 20 metri dal punto d’impatto, che effettivamente il pedone inopinatamente ed illecitamente aveva cominciato ad attraversare, scendendo dal marciapiede, per di più con un bambino in braccio, che non solo risulta non provata l’alta velocità del mezzo (non sono state riscontrate strisce di frenata, un solo teste riferisce di un fischio che gli sembra quello tipico di una frenata ) ma altri testi riferiscono la sua moderata velocità (20 km ora circa), la quale è del tutto compatibile con i danni riportati dall’investito, che non fu nè sbalzato nè trascinato, ed è pure compatibile con i danni per fortuna ancora minori riportati dal bimbo, che l’autista tentò anche di sterzare ma non evitò l’impatto.
Ma soprattutto non è emersa alcuna spiegazione plausibile alla dinamica così come descritta dall’attore, rimanendo del tutto illogica la versione fornita, essendo assurdo che chi vede sopraggiungere ad alta velocità un autobus e si trova sul marciapiede abbandoni questo punto che lo mette al sicuro da improvvide manovre del conducente, piuttosto vi resta. Ciò non si può che spiegare con una condotta sconsiderata non del conducente ,ma dell’investito.
La domanda, quindi, andrebbe rigettata, con il favore delle spese per le parti convenute.
Occorre a questo punto osservare, che, a giudizio di questo giudice emergono anche tutti gli elementi per la c.d. responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., senonchè nessuna delle parti convenute ha avanzato la relativa domanda, e la questione, alla luce dell’attuale diritto positivo - nonché dell’interpretazione assolutamente dominante che viene data dall’art. 96 sul punto dell’impossibilità di una condanna d’ufficio ai sensi di questa norma, confortata peraltro dal dato letterale - neppure si porrebbe.
Questo giudice, tuttavia, ritiene che questo non sia compatibile con l’adeguata osservanza ed applicazione di alcuni principi costituzionali .Ritiene infatti che l’attuale disciplina positiva della cosiddetta lite temeraria, prevista dall’articolo 96 c.p.c., sia in contrasto con i valori costituzionali di ragionevolezza, parità di trattamento, diritto di difesa e con i principi sul cosiddetto giusto processo, costituzionalizzati nella nuova disposizione dell’articolo 111 , commi primo e secondo ,proprio nel punto in cui non consente una pronuncia d’ufficio sulla sussistenza della c.d. lite temeraria.
Tradizionalmente, la responsabilità di cui parla l’articolo 96 c p c è stata sempre vista come responsabilità verso un singolo soggetto, vale a dire la controparte processuale, il singolo privato con il quale si contende.
Il profilo sanzionatorio della norma, nonostante anch’esso sia partecipe delle finalità della stessa, e nonostante fosse ben presente a tutti gli interpreti,all’uscita del codice del 1940 , non era inteso che come sanzione in senso lato.
In altre parole, tutelando il singolo soggetto “processualmente danneggiato “, si veniva a conseguire, o si sarebbe dovuto conseguire anche un vantaggio per la speditezza, l’efficienza e il giusto andamento del sistema processuale nel suo complesso.
Certo, la previsione di una condanna per lite temeraria avrebbe dovuto anche essere una remora per coloro che avessero intenzione di provocare ingiustamente un processo . Ma sicuramente il legislatore del 1940 non era pressato dall’esigenza di evitare il distorto uso del diritto di agire in giudizio come lo è, invece, quello attuale.
Pertanto l’efficacia solamente ipotetica e indiretta di tale “ sanzione “ poteva apparire comunque sufficiente.
Tuttavia, anche nei tempi meno recenti, il quadro normativo nel suo complesso non risultava omogeneo secondo le stesse prime ricostruzioni operate dai commentatori dell’epoca e dalla giurisprudenza, almeno sino ai primi anni ’50 .
Se la responsabilità cosiddetta aggravata per lite temeraria era strutturata a protezione di un interesse del singolo, era logico che dovesse essere oggetto di specifica domanda da parte di quest’ultimo al giudice. Ma, pur tenendo ferma l’impossibilità di una pronuncia d’ufficio nella fattispecie, autorevole dottrina poneva in evidenza il rapporto intercorrente fra l’articolo 92 primo comma dell’articolo 96 primo comma del codice di procedura civile.
Il primo recita “Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato all’altra parte.” Il secondo: “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza”.
Mentre la prima norma avrebbe colpito la temerarietà della lite a prescindere dalla soccombenza, la seconda avrebbe contenuto una “ulteriore” sanzione a carico del soccombente temerario.
Tale ricostruzione trova contrasti in dottrina, sebbene sembri avvallata dalla giurisprudenza. Con riguardo in particolare al rimborso delle spese processuali irripetibili di cui all’art. 92 c.p.c. , cfr. Cass. civ., Sez. II, 26/03/1986, n.2174 : “Resta da dire, con riferimento ad un rilievo svolto dal ricorrente nella discussione orale, che la ipotesi del rimborso delle spese irripetibili, cioé di quelle spese che eccezionalmente possono essere rimborsate a titolo di risarcimento del danno, non si esaurisce nella disciplina dell’art. 92 c.p.c., dove la relativa condanna, collegata alla trasgressione del dovere di lealtà, prescinde dalla soccombenza, potendo la stessa condanna, per quanto concerne la parte soccombente, trovare una specifica applicazione nell’ambito della previsione dell’art. 96 c.p.c.”. Con il che, lo stretto collegamento tra le due norme, per quello che qui interessa, appare confermato.
Secondo altra ,e più recente ricostruzione dottrinale ,il comportamento fonte di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. - una volta individuato- di per sé può costituire anche comportamento in violazione dell’art. 88 c.p.c..
Infatti un comportamento che il sistema pone “oltre le c.d. regole del gioco” , tanto da obbligare chi lo tiene non solo alla refusione delle spese ma anche al risarcimento dei danni prodotti, non potrà non considerarsi contestualmente anche quale condotta illegittima ai sensi dell’art. 88 c.p.c. Ma la corrispondenza tra le fattispecie di cui all’art. 96 c.p.c. e quelle previste dall’art. 88 c.p.c. non potrà essere reciproca, e ciò nel senso che mentre l’instaurazione della lite temeraria configurerà imprescindibilmente una ipotesi di violazione del dovere di lealtà e probità, una qualunque infrazione al principio di cui all’art. 88 c.p.c. non sempre né automaticamente potrà costituire atto cui far discendere una responsabilità aggravata per le conseguenze di cui all’art. 96 c.p.c..
Così, se la ratio per la quale il legislatore ha riconosciuto il diritto di azione è quello di consentire alla parte di far valere un proprio diritto soggettivo dinanzi agli organi giurisdizionali, chi al contrario utilizzi il diritto di azione non per questo scopo ma per altri (si pensi all’azione palesemente infondata fatta valere solo per creare disturbo psicologico o di altra natura alla controparte) terrebbe un comportamento processuale sviato, ovvero finalizzato a scopi diversi per i quali la tutela giurisdizionale sussiste.
Ora , è appena il caso di rilevare che, nel caso dell’articolo 92 primo comma del codice di procedura civile il potere del giudice si poteva e si può esercitare anche d’ufficio,costituendo anzi oggetto di un potere discrezionale incensurabile in cassazione,secondo la stessa giurisprudenza della corte . Ma allora, laddove si acceda a tale ricostruzione, e pertanto si consideri che le norme appena citate esprimono la stessa finalità, non si giustifica l’impulso officioso nell’una e la condanna solo su domanda di parte nell’altra ipotesi normativa: si giunge all’assurdo che un trattamento deteriore può essere dato, d’ufficio, ai sensi dell’art. 92, 1° comma, alla parte totalmente vittoriosa, rispetto ad un trattamento – che sanziona comportamenti della stessa natura - che non può essere dato, d’ufficio, alla parte totalmente soccombente.
Senza tralasciare il fatto che, proprio in sede di prima applicazione dell’art. 96 c.p.c. , la stessa Cassazione ,sia pure con isolata pronuncia, ammise la condanna ex art. 96 anche d’ufficio: “ ...rilevasi che di fronte alla dizione amplissima dell’art. 96 c.p.c. - il quale in relazione al concetto che l’attività della parte nel processo è libera entro i limiti in cui ogni azione umana è libera , cioè fino a quando non venga ad invadere la sfera giuridica altrui - pone il principio che non è lecito agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave , nulla impedirebbe in astratto che la parte ,consapevole dell’ingiustizia della sua pretesa o della sua contestazione , o che con una tenue diligenza avrebbe potuto rendersi conto di tale ingiustizia, fosse condannata , oltre che alle spese ,anche al risarcimento di danno pur nel giudizio di cassazione, ma nel caso non esiste alcuna prova della mala fede o della colpa grave della ditta ricorrente, atte a giustificare il grave provvedimento invocato dalla ricorrente Siemens e che, nell’ambito del suo potere-dovere la Corte di Cassazione potrebbe adottare anche d’ufficio “ (Cass.,I sez. civ. 22.4-21.6 1952, n. 1671 ,inedita per esteso,a quanto consta).
Qui , con il richiamo a tale vecchia statuizione , che peraltro appare andare oltre il mero obiter , non si vuole certamente porre in discussione la sussistenza di un ormai granitico orientamento sulla necessità di istanza di parte, peraltro chiaramente prevista dal dato letterale della norma, quanto piuttosto sottolineare che la condanna ex officio può appartenere alla natura della lite temeraria, è compatibile e quasi imposta dai suoi fini, ed in genere appare del tutto omogenea alla struttura dell’istituto, prova ne siano le discussioni dottrinarie meno recenti e queste stesse significative eccezioni in sede di prima interpretazione dopo l’entrata in vigore del c.p.c..
A proposito di tale compatibilità “strutturale”, l’Assemblea Plenaria della Corte Suprema di Cassazione, riunitasi il 21 luglio 2005 ai sensi dell’art. 93 O.G., in riferimento alla novella dell’art. 385 c.p.c., ha osservato, diversamente : « Sanzionare in modo più efficace ogni forma di abuso del processo rappresenta una misura di razionalizzazione indispensabile se si vuole mantenere l’attuale regime di sostanziale gratuità della giustizia senza determinare sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa inevitabilmente scarsa, quale è quella del processo. Da più parti è avvertita la necessità di superare l’attuale disciplina della responsabilità aggravata, resa sostanzialmente inoperante dalla difficoltà di dare la prova del danno patrimoniale conseguente all’abuso del processo. La previsione normativa adottata dallo schema desta peraltro alcune perplessità. In primo luogo appare contrario ai principi prevedere una condanna in favore di una parte senza domanda di quest’ultima, anche se è vero che non è congruo affidare esclusivamente all’iniziativa di parte l’operatività dell’istituto. La previsione lascia poi scoperta l’ipotesi di non costituzione in giudizio dell’altra parte. Anche la mancanza di qualificazione giuridica di questa sorta di pena pecuniaria che viene irrogata in favore della parte determina un certo disagio.
Appare quindi preferibile prevedere, per queste ipotesi di lite temeraria,un risarcimento del danno anche non patrimoniale con minimo predeterminato ed aggiungere la previsione di una pena pecuniaria in favore della cassa delle ammende a titolo di riparazione per il danno che il sistema di giustizia riceve dallo spreco delle sue risorse che il ricorso temerario determina, contribuendo ad ingolfare il carico giudiziario e quindi a ritardare la definizione di tutti gli altri processi.
La norma potrebbe essere quindi così formulata:
“Quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 375, la Corte, se ritiene che la parte soccombente ha proposto il ricorso o vi ha resistito con malafede o colpa grave, la condanna, su istanza dell’altra parte, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, in misura non inferiore alla somma liquidabile per le spese di lite.
Nel caso previsto dal comma precedente la Corte condanna la parte soccombente, d’ufficio, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una pena pecuniaria determinata in misura non superiore al doppio della somma liquidabile per le spese di lite».
Ora, le osservazioni dell’Adunanza plenaria, appena richiamate sono del tutto congrue, ad eccezione di una. Si ritiene infatti di aver spiegato sopra come non sia insormontabile, nel sistema, la pronuncia d’ufficio sul punto, e d’altro canto non viene specificamente espresso il motivo per cui “...appare contrario ai principi prevedere una condanna in favore di una parte senza domanda di quest’ultima...” ,tanto più che subito dopo si osserva “...anche se è vero che non è congruo affidare esclusivamente all’iniziativa di parte l’operatività dell’istituto...”. E allora, una volta sottolineata la necessità della sanzione e la sua pronuncia d’ufficio, non si vede in quale altro modo uscire dalla difficoltà. Quanto previsto da tale parere, vale a dire limitare la pronuncia d’ufficio alla sanzione pecuniaria destinata alla cassa della ammende, se è in linea con la tradizione,non tiene conto di un dato il quale , pur nella sua prosaicità ,non può essere trascurato in caso di analisi dell’efficacia delle norme quale quella che si sta conducendo: il nostro sistema di riscossione delle entrate pubbliche non brilla per efficienza, e non è escluso che il legislatore abbia considerato che il creditore privato di questo “danno punitivo” (ammesso e non concesso che tale possa qualificarsi) sia molto più efficiente, in executivis, dell’erario.
L’opzione di cui si discute, dunque possibile e non estranea al sistema, si affaccia con impellenza nelle condizioni attuali. Sempre con maggiore gravità ed urgenza si è posto il problema del numero eccessivo dei processi civili pendenti, i quali sono da un lato il portato di un esponenziale crescita delle cause civili iniziate, dall’altro la conseguenza di una sempre maggiore incapacità del sistema giudiziario italiano a gestire il numero complessivo dei processi giacenti e di quelli sopravvenuti in maniera soddisfacente.
Tale incapacità, tuttavia, è in gran parte dipendente proprio dalla maggiore frequenza e facilità con cui , oggi in misura senza dubbio maggiore rispetto al passato, si può adire il giudice, frequenza e facilità che a loro volta nascono sicuramente dall’esigenza,sacrosanta, che il cittadino possa difendere le sue posizioni soggettive in maniera più completa ed articolata. Ma tale esigenza rimarrebbe - come in effetti, allo stato, rimane - generalmente insoddisfatta proprio perchè le risorse materiali ed umane del “sistema giustizia”, come in concreto si è strutturato, sono date in misura fissa, ovvero difficilmente ampliabile, cosicché risulta vano riconoscere sulla carta diritti processuali, posizioni sostanziali e facilità di adire il giudice, venendo così ad espandere, per usare termini economici, la “domanda” di giustizia, quando l’“offerta” rimane rigida.
A tali problemi si ricollega la famosa polemica sulle “riforme a costo zero”.
Ma, anche senza ampliare l’offerta di risorse materiali o umane da cui oggi il processo civile può attingere, appare possibile - e, per ciò solo, doveroso - quanto meno razionalizzare l’impiego di tali risorse attraverso opportuni accorgimenti normativi, proprio nel momento in cui maggiori sono le possibilità per l’utente di ricorrere al giudice.
Di questa necessità di contromisure ( o contrappesi) sembra essersi reso conto di recente il legislatore nel momento in cui attraverso il d. lgs. 40.06 è giunto a modificare l’articolo 385 c.p.c.. La relazione al testo normativo, sul punto, osserva: “ l’articolo 13 interviene sull’articolo 385 c.p.c., aggiungendo un quarto [rectius,terzo] comma che rappresenta una applicazione del principio della responsabilità aggravata contenuto nell’articolo 96 c.p.c., in modo da prevederne una specifica attuazione, in funzione di bilanciamento con l’ampliata possibilità di ricorrere alla Suprema corte.”
Per la relazione alla legge, così come per la maggior parte dei primi commentatori, quindi, la norma si porrebbe nel solco della responsabilità aggravata di cui all’articolo 96 c.p.c., costituendone un’ ipotesi specifica.
Tuttavia le novità rispetto al paradigma dettato dall’articolo 96 sono più di una e tutte piuttosto significative.
In primo luogo -e questo è particolarmente importante per la materia che si sta analizzando- appare l’espressa previsione della pronuncia di condanna anche d’ufficio. Questo è un dato che senza dubbio accentua il profilo sanzionatorio della norma.
In secondo luogo, vediamo una limitazione del quantum risarcibile, “non superiore al doppio dei massimi tariffari”. Qui,appare ancora più evidente che la condanna del litigante temerario è vista come una vera e propria sanzione nell’accezione più stretta del termine, altrimenti non si spiegherebbe l’evocazione, di tipo edittale, di una pena. Al contrario, se si trattasse di un risarcimento, non avrebbe senso, dal punto di vista logico-giuridico, mettere un limite ad esso. Il legislatore, evidentemente, più interessato allo scopo pratico e all’efficacia della norma (come appena sopra accennato), non è stato molto controllato nella scelta dei termini. Le conseguenze pratiche di questo assetto normativo non sono tuttavia , altrettanto infelici di quelle teoriche.
Infatti, si potrebbe osservare che, paradossalmente, proprio osservando la norma sotto l’aspetto risarcitorio-privatistico invece che su quello sanzionatorio-pubblicistico, essa appare ingiustificatamente restrittiva rispetto al passato. Per i primi commentatori, nel giudizio di cassazione, proprio per la previsione di questa norma speciale, non può più essere applicato l’articolo 96 c.p.c., che non pone limitazioni al risarcimento.
Ma occorre osservare come da tempo si fosse consolidato l’indirizzo che la corte di cassazione potesse pronunciare la condanna al risarcimento dei danni derivanti da responsabilità aggravata e ai sensi del primo comma dell’articolo 96 c.p.c., tuttavia la domanda poteva essere proposta per la prima volta in sede di legittimità solo se relativa a danni causati dal comportamento tenuto dalla parte soccombente nel giudizio di cassazione, come nell’ipotesi tipica di proposizione di regolamento di giurisdizione a scopo puramente dilatorio.
Di conseguenza, appare ovvio che la limitazione al “ risarcimento “ prevista dalla nuova formulazione dell’articolo 385 c.p.c. riguarda solamente quest’ultima ipotesi, nella quale ben si comprende una sorta di forfettizzazione del “ danno “ cagionato per lite temeraria limitatamente alla condotta tenuta nel giudizio di cassazione , ove fra l’altro sarebbe preclusa un’istruzione probatoria in senso stretto sul punto. Viceversa, laddove la questione della lite temeraria formi oggetto di impugnazione e pertanto riguardi condotte verificatesi nei gradi precedenti di giudizio, nessuna limitazione sussiste.
Quindi, deve venire in rilievo solo l’intento di semplificazione, bene espresso anche dal terzo elemento di novità rispetto al paradigma dell’articolo 96 c.p.c., vale a dire l’espressa previsione di una liquidazione equitativa.
La dizione dell’articolo 96 c.p.c. è significativamente diversa, facendo riferimento alla liquidazione, anche d’ufficio , dei danni. Ciò comportava - e, nell’attuale sistema di diritto positivo, ancora comporta, nonostante i tentativi sempre più frequenti della giurisprudenza di merito di facilitare il relativo cammino - che il ricorso a parametri equitativi di liquidazione del danno fosse possibile solo a ben precisi limiti e condizioni.
In ultima analisi, la nuova formulazione dell’articolo 385 c.p.c. deve essere sottolineata nella sua effettiva , e significativa , portata. Essa va inserita nell’ambito e dei tentativi legislativi e giurisprudenziali, sempre più forti nell’ultimo periodo, di una “rivitalizzazione “ complessiva dell’istituto della cosiddetta lite temeraria. In questo stesso solco ,va ricordato che il disegno di legge governativo n. 2229 contenente “modifiche urgenti al codice di procedura civile” (che era stato approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 21 dicembre 2001, poi presentato in Parlamento ed approvato dalla Camera dei deputati in data 16 luglio 2003), nel suo testo unificato, tra l’altro, prevedeva di innovare incisivamente ed in più punti la disciplina sulla responsabilità aggravata, contenuta nell’art. 96 del codice, disponendo all’art. 7 che: “se risulta che la parte soccombente ha agito, anche in via cautelare, o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero ha proposto un’impugnazione manifestamente inammissibile o infondata, il giudice, anche d’ufficio, la condanna al pagamento di una somma da determinarsi sino ad un massimo di tre volte le spese di lite liquidate....su istanza della parte danneggiata, provvede altresì, alla liquidazione dei danni”. L’innovazione non è stata però approvata, cosicchè il testo dell’art. 96 è rimasto immutato.
Tale rivitalizzazione, a sua volta, fa perno principalmente, se non esclusivamente, nella valorizzazione dell’aspetto sanzionatorio della norma.
Dopo l’entrata in vigore della costituzione repubblicana l’articolo 24 Cost. è stato letto anche in funzione dell’effettività della tutela giudiziaria da esso riconosciuta. È stato, in altre parole, osservato che va soprattutto riconosciuta la possibilità, seria e reale, di ottenere una adeguata risposta del giudice alle istanze del cittadino.
Ed è evidente che tanto più, nel concreto, il sistema processuale presenta meccanismi lenti ed inceppati anche, e soprattutto, da richieste infondate, tanto più la garanzia costituzionale prevista dall’articolo 24 viene lesa.
Ciò è aggravato dalla circostanza che il nostro sistema di giustizia civile non prevede affatto dei filtri, di fatto o di diritto, che sono presenti in altri ordinamenti giuridici.
Quanto ai primi, occorre osservare che il costo economico complessivo del cittadino italiano per munirsi di un legale e, nel complesso, per mettere in moto la macchina giudiziaria del processo civile, si pone a metà classifica, in un vasto lotto di paesi europei, superato peraltro da molte nazioni il cui reddito medio pro capite è inferiore, e a volte notevolmente inferiore, a quello italiano.
Dati alla mano, infatti, le statistiche redatte recentemente dalla stampa specializzata vengono a sfatare il mito secondo il quale il costo della giustizia in Italia sarebbe assai elevato rispetto a tutti gli altri “paesi civili”. Giova invece osservare come nel Regno Unito, il cui sistema giudiziario è tradizionalmente indicato come modello di efficienza, il costo per il privato di un processo civile sia, in termini monetari, estremamente elevato e si collochi al primo posto in tale classifica.
Quanto al secondo profilo, cioè quello dei filtri giuridici, è agevole affermare che nel nostro ordinamento non sussiste alcuna valutazione preventiva, effettuata da appositi organi, che sia in grado di impedire l’instaurazione di processi sulla base di domande che si presentano infondate ovvero palesemente infondate. Esempio specifico, pressoché unico, di tale tipo di filtro giuridico, è dato dall’articolo 126 del DPR 30 maggio 2002 numero 115 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - laddove esso prevede che il consiglio dell’ordine degli avvocati ammette e l’interessato alla gratuito patrocinio, in presenza delle altre condizioni reddituali richieste,”…. se le pretese che interessato intende far valere non appaiono manifestamente infondate “ . Si tratta peraltro, come si vede, di un filtro giuridico dalla portata assai modesta, poiché la preclusione fa leva sulla manifesta infondatezza della pretesa e soprattutto perché comunque non preclude a chi è escluso da tale beneficio di adire comunque il giudice. Per altro verso, tale esclusione dal beneficio marca ancora di più i profili di irragionevolezza e disparità di trattamento dell’attuale sistema, poiché esso indirettamente ma chiaramente discrimina il “ non abbiente “ rispetto a chi, avendo la possibilità di pagarsi un legale, non soggiace ad alcun filtro preventivo neppure nell’ipotesi di una manifesta infondatezza della sua pretesa.
Si è a tal proposito osservato ,da parte della dottrina che più recentemente si è occupata del problema , che , per difendersi dalle cause connotate da un’iniziativa o da un resistenza dettate da mala fede o colpa grave, occorre (anche) valorizzare il rilievo dell’articolo 96 c.p.c., perché - nel complesso - chi in tal modo ingolfa i tribunali nuoce a tutti coloro i quali reclamano giustizia e non riescono ad ottenerla in tempi ragionevoli; i promotori di difese “bugiarde“ , perciò, meritano di essere colpiti così come chiunque colpirebbe il falso malato che, procurandosi un ingiustificato ricovero in ospedale, togliesse il posto al malato vero.
Ancora , si è sottolineata una recente forte tendenza dei giudici di merito , volta ad una “ lettura costituzionalmente orientata “ dell’art. 96 c.p.c., il quale viene posto in correlazione con i principi del “giusto processo”, di recente costituzionalizzati (art. 111 Costituzione).
La norma processuale non è intesa quale tradizionale strumento risarcitorio posto a tutela di interessi privatistici del soggetto leso, che per effetto del risarcimento può così ricevere reintegrazione del pregiudizio risentito. L’art. 96 c.p.c. fungerebbe “quale presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost.” e avrebbe anche “una funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’interesse della collettività”. E’ interessante osservare come la nuova tendenza giurisprudenziale tenda anche ad appoggiarsi alle più recenti modifiche legislative, segno di un orientamento che può definirsi omogeneo e “circolare”: a conforto di queste tesi, infatti, viene richiamato proprio il tenore del nuovo testo del 3° co dell’art. 385 c.p.c..
I principi del giusto processo sono racchiusi nella formulazione innovata dell’art. 111 Cost, introdotto con l. cost. 23.11.1999, n. 2, a tenore del quale: “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” . Prosegue il secondo comma affermando che: ”ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Viene osservato che tale prescrizione non si stabilisce che ogni processo deve svolgersi in tempi ragionevoli né, tantomeno, che ogni soggetto ha diritto ad un processo di durata ragionevole , ma la garanzia in parola comporta il dovere del legislatore ordinario di dare al processo un assetto strutturale idoneo ad assicuragli la maggiore “rapidità di movimento” possibile, nonché di fornire alla giustizia le risorse ed i mezzi appropriati per garantire una ragionevole intensità di lavoro di tutti gli addetti del settore .Ma, se è vero che il legislatore ordinario è il destinatario diretto della disposizione costituzionale novellata, appare innegabile che la stessa è indirizzata pure alla Corte Costituzionale, la quale dovrà- anzitutto- applicarla e concretizzarla ogniqualvolta verrà invocata come norma-parametro in sede di sindacato di costituzionalità delle leggi ex artt. 23 ss. l. 11 marzo 1953, n. 87. Cosicchè, secondo questa prospettiva, la Corte Costituzionale può analizzare la legittimità di quelle disposizioni normative, che in astratto prevedono nel processo modalità irragionevoli e scansioni temporali eccessive o formalità irrazionali ed inutili, come tali non giustificate da esigenze di effettività dei diritti di azione o difesa, né tantomeno da interessi razionalmente strutturali e prevalenti.
Continuando a considerare la norma nella sua portata strettamente risarcitoria (e non sanzionatoria) ,appare chiaro che si riduce grandemente le potenzialità di applicazione di essa ,per la difficoltà di dare la prova, incombente sulla parte che richiede la condanna, circa l’esistenza di tale danno.
Pur essendo concessa dalla stessa norma la possibilità di una liquidazione d’ufficio dei danni, ciò non elimina la necessità, ripetutamente affermata dalla giurisprudenza, che la parte provi l’”an” della pretesa.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria occorre infatti che la parte deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un danno che sia conseguenza del comportamento processuale del soccombente, sicchè il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi concreti atti ad indentificarne concretamente l’esistenza (Cass. 1992/6637, Cass. 1995/15422, etc).
Orientamento diverso è quello che ha ritenuto che la condanna ai sensi dell’art. 96 I comma non postula necessariamente che la controparte deduca e dimostri uno specifico danno per il ritardo provocato dal ricorso, tenendo conto che il giudice ha la facoltà di desumere detto danno da nozioni di comune esperienza e può fare riferimento anche al pregiudizio che detta controparte abbia subito di per sé per essere stata costretta a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario (Cass. SS.UU. 13.6.1995 n. 448).
E’ stato osservato che “.....Per questo, si trova sovente ripetuto che l’art 96 c.p.c., nel disciplinare come figura di torto extracontrattuale la responsabilita processuale aggravata per mala fede o colpa grave della parte soccombente, non deroga al principio secondo il quale colui che intende ottenere il risarcimento dei danni deve dare la prova sia dell’an che del quantum: ed il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne concretamente l’esistenza.
Orbene, questa impostazione ha condotto nei fatti ad un pressoché totale oblio della norma, la cui applicazione, pur dinanzi ad una palese sussistenza dell’elemento soggettivo da essa contemplato, ha costantemente finito per infrangersi contro la difficoltà, intuitivamente elevata, di fornire una dettagliata deduzione e prova del pregiudizio subito.
L’atteggiamento interpretativo così riassunto non può più essere condiviso e, anzi, una lettura in chiave costituzionale dell’art. 96 c.p.c. impone di facilitarne l’impiego, sicché essa — scoraggiando le iniziative o le resistenze giudiziali che non hanno ragione di essere — possa fungere quale presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Costituzione........omissis....... In detta prospettiva occorre allora sottolineare che, se l’art. 96 c.p.c., inserendosi nel contesto della disciplina aquiliana, risponde essenzialmente ad una logica risarcitoria, ciò non esclude che la stessa disposizione manifesti anche una — assolutamente evidente — funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’intera collettività: detta funzione, di qui, non può non tradursi in una agevolazione, sotto il profilo dell’allegazione e prova, degli oneri gravanti sul danneggiato.
Quest’ultima conclusione, la quale possiede valenza generale, trova riscontro in due significativi elementi recenti di ordine normativo e giurisprudenziale.
Per un verso, infatti, merita rilevare che l’art. 385 c.p.c., nella sua versione attuale, consente di colpire colui che in sede di ricorso per cassazione agisca o resista con mala fede o colpa grave con una condanna che, anche d’ufficio, senza ulteriori sostegni, può dilatarsi fino al doppio delle spese legali previste nel massimo: e non può dubitarsi che detta norma segni una strada che non può rimanere insignificante per l’interprete che si trovi ad amministrare l’applicazione dell’art. 96 c.p.c..
Per altro verso, va posto l’accento su quell’indirizzo giurisprudenziale, derivato dalla giurisprudenza della CEDU, secondo cui, in caso di danno da eccessiva durata del processo, pur non essendo in re ipsa il pregiudizio, lo è però la prova di esso, nel senso che la sussistenza di un danno morale, sotto forma di sofferenza interiore, è ordinariamente correlata alla protrazione di qualunque processo oltre i limiti della sua ragionevole durata (il riferimento è alle note Cassazione, Su, 1339/04; 1340/04; la successiva giurisprudenza vi si è adeguata, a quanto consta senza eccezioni).
Con riguardo a quest’ultimo aspetto, dopo aver ricordato che nell’attuale assetto della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale il risarcimento del danno non patrimoniale è sempre ammesso, ogni qual volta venga in questione la lesione di un interesse dotato di copertura costituzionale (Cassazione 8828/03; 8827/03; Corte costituzionale 233/03), occorre dire che,— sul piano del danno esistenziale (su cui v. per tutte Cassazione, Su, 6572/06), l’azione in giudizio o la resistenza infondata comporta perdita di tempo (esame dell’atto, colloqui con il legale, ricerca della eventuale documentazione utile ed altri supporti istruttori, presenza in udienza ecc.), che, se non è sottratto all’attività lavorativa remunerativa, è sottratto alle attività di svago;
sul piano del danno morale, se produce sofferenza interiore il prolungarsi del giudizio oltre i limiti di durata ragionevole, a maggior ragione ne produce, nei confronti della controparte, l’atteggiamento di azione o resistenza in giudizio ab origine connotati da mala fede o colpa grave.
Ecco, allora, che, mentre la domanda di danni per lite temeraria deve per ciò stesso essere riferita, anche in mancanza di ulteriori specificazioni dell’interessato, al danno esistenziale/morale che, normalmente, scaturisce dalla domanda o resistenza caratterizzata da mala fede o colpa grave, la liquidazione del danno ben può essere effettuata in applicazione dei medesimi parametri che la giurisprudenza applica in caso di applicazione della c.d. «legge Pinto». (Tribunale di Roma,sentenza 18 ottobre 2006,Wamax Srl/Vasciminni,in www.personaedanno.it).
Ebbene ,si può concludere osservando che l’art. 96 1° comma c.p.c. , il quale ha il seguente tenore “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza” esterna profili di non manifesta infondatezza per illegittimità costituzionale relativamente all’inciso “su istanza dell’altra parte”.
La questione è rilevante ai fini della decisione del presente procedimento , riguardando una statuizione della sentenza .
Nessuno può nascondersi, tantomeno questo rimettente, che l’intervento caducatorio che qui si sollecita è assai meno congruo di una riforma complessiva degli istituti che spetta al legislatore, non si ritiene però che sia esclusivamente materia di valutazione del legislatore il lasciare o meno in vita l’attuale sistema, in tal modo sottraendolo in toto a censure d’incostituzionalità.
Sussiste contrasto:
- con l’art. 3 cost. essendo lesi il principio di parità di trattamento e di ragionevolezza: si è sopra osservato come altre pronunce d’ufficio sono conseguenti a violazioni di principi almeno in parte coincidenti (cfr. la disamina degli artt. 88 e 92 c.p.c. sopra fatta in relazione all’art. 96 ) e come il sistema complessivamente risulti irrazionale nel momento in cui permette un’indiscriminato accesso agli utenti,anche a quelli che intendano promuovere liti temerarie (non essendovi filtri preventivi di fatto o di diritto , i rari esempi che prevedono qualcosa del genere , come quelli di cui alla normativa del gratuito patrocinio, finiscono per colpire i soli “non abbienti”)
- con l’art. 24 cost. ,poichè il diritto di difesa di ogni cittadino subisce una grave lesione dalla possibilità che vengano affollati i ruoli dei giudici da cause temerarie, il correttivo previsto dalla legge non è congruo rispetto alla finalità di difesa costituzionalmente garantita, poichè rimette alla scelta del singolo danneggiato se chiedere la responsabilità aggravata, laddove la responsabilità aggravata, nel quadro sopra tracciato, risponde anche e sopratutto ad esigenze di garantire la possibilità di effettiva difesa di tutti i singoli consociati ,le quali trascendono gli interessi del singolo
- con l’art. 111 cost. 1° comma, in quanto il processo non può considerarsi aderente a superiori principi di giustizia quando può essere usato in maniera distorta ,senza che il giudice possa reagire anche ex officio, ciò sminuisce il valore del singolo processo e di tutti gli altri processi come momento di garanzia, nonchè con l’art. 111 cost., 2° comma, in quanto statisticamente assai alto è il rischio che il processo di cui “si abusa” vada, nel contempo, anche oltre la durata ragionevole stabilita dalla costituzione, laddove è invece certo l’intralcio grave alla ragionevole durata di tutti gli altri processi, visti nel loro complesso.
p.q.m.
- Dichiara la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 96 c.p.c., 1° comma, nell’inciso “su istanza dell’altra parte”, per il contrasto con gli articoli sopra richiamati;
- Dispone la sospensione del procedimento;
- Dispone l’immediata trasmissione degli atti dei presenti procedimenti alla Corte Costituzionale;
- Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia comunicata al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ancona li 20.11.07
Il giudice monocratico
DR. CESARE MARZIALI
SEZIONE II CIVILE
Il Giudice, letti gli atti del procedimento n. 2353.01 ,ha emesso la seguente
o r d i n a n z a
Con atto di citazione del 25.8.01 L*** F*** conveniva in giudizio A*** G***, la C*** spa e la F*** Spa, con domanda di risarcimento dei danni pari a £ 1.000.000.000 (un miliardo)a seguito di un investimento da lui subito quale pedone, con in braccio un bambino di due anni.
Esponeva l’attore che si trovava in un tratto ove mancava la transenna tra marciapiede e strada ; che nello stesso momento giungeva l’autobus della società convenuta “a velocità sconsideratamente elevata”; che egli, “spaventato dalla spropositata velocità e dalla scellerata ,imprudente e negligente condotta di guida tenuta dal citato autoveicolo ,nel tentativo di levarsi dalla situazione di pericolo venutasi a creare, confuso, poneva un piede al di sotto del marciapiede, allorquando l’autobus lo andava ad urtare violentemente con il suo lato anteriore destro, scaraventandolo rovinosamente a terra...”.
Si costituivano tutti i convenuti, contestando recisamente la ricostruzione e la domanda dell’attore, rilevando come la versione del fatto da parte del L*** fosse smaccatamente contraddittoria ed illogica, osservando che l’incidente era dovuto esclusivamente alla grave imprudenza dell’attore che aveva deciso di attraversare la strada in maniera improvvisa ed imprevedibile, nonostante vi fossero a 20 metri le strisce pedonali, che peraltro i vigili urbani intervenuti avevano contestato contravvenzioni solamente al Lise, precisamente ex art 190 comma 2° CdS.
Nel corso della trattazione istruttoria veniva disposta la riunione del procedimento n. 3419.01 , relativo alla domanda proposta dal legale rappresentante del piccolo B*** A***,il bambino in braccio al L*** al momento dell’incidente.
Veniva poi compiuta un’istruzione probatoria piuttosto laboriosa e lunga, che conduceva infine all’assegnazione della causa a sentenza.
Ritiene questo giudice che – nonostante l’orientamento parzialmente contrario espresso, sia pure in sede di delibazione prettamente sommaria (e peraltro in limine), dal precedente giudice monocratico titolare del fascicolo, relativamente alla richiesta, accolta, di una provvisionale – la domanda risulti del tutto infondata, non essendovi spazio neppure per un concorso di colpa del conducente.
Infatti , non è rimasto confutato dalle emergenze processuali che effettivamente c’era un passaggio pedonale a 20 metri dal punto d’impatto, che effettivamente il pedone inopinatamente ed illecitamente aveva cominciato ad attraversare, scendendo dal marciapiede, per di più con un bambino in braccio, che non solo risulta non provata l’alta velocità del mezzo (non sono state riscontrate strisce di frenata, un solo teste riferisce di un fischio che gli sembra quello tipico di una frenata ) ma altri testi riferiscono la sua moderata velocità (20 km ora circa), la quale è del tutto compatibile con i danni riportati dall’investito, che non fu nè sbalzato nè trascinato, ed è pure compatibile con i danni per fortuna ancora minori riportati dal bimbo, che l’autista tentò anche di sterzare ma non evitò l’impatto.
Ma soprattutto non è emersa alcuna spiegazione plausibile alla dinamica così come descritta dall’attore, rimanendo del tutto illogica la versione fornita, essendo assurdo che chi vede sopraggiungere ad alta velocità un autobus e si trova sul marciapiede abbandoni questo punto che lo mette al sicuro da improvvide manovre del conducente, piuttosto vi resta. Ciò non si può che spiegare con una condotta sconsiderata non del conducente ,ma dell’investito.
La domanda, quindi, andrebbe rigettata, con il favore delle spese per le parti convenute.
Occorre a questo punto osservare, che, a giudizio di questo giudice emergono anche tutti gli elementi per la c.d. responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., senonchè nessuna delle parti convenute ha avanzato la relativa domanda, e la questione, alla luce dell’attuale diritto positivo - nonché dell’interpretazione assolutamente dominante che viene data dall’art. 96 sul punto dell’impossibilità di una condanna d’ufficio ai sensi di questa norma, confortata peraltro dal dato letterale - neppure si porrebbe.
Questo giudice, tuttavia, ritiene che questo non sia compatibile con l’adeguata osservanza ed applicazione di alcuni principi costituzionali .Ritiene infatti che l’attuale disciplina positiva della cosiddetta lite temeraria, prevista dall’articolo 96 c.p.c., sia in contrasto con i valori costituzionali di ragionevolezza, parità di trattamento, diritto di difesa e con i principi sul cosiddetto giusto processo, costituzionalizzati nella nuova disposizione dell’articolo 111 , commi primo e secondo ,proprio nel punto in cui non consente una pronuncia d’ufficio sulla sussistenza della c.d. lite temeraria.
Tradizionalmente, la responsabilità di cui parla l’articolo 96 c p c è stata sempre vista come responsabilità verso un singolo soggetto, vale a dire la controparte processuale, il singolo privato con il quale si contende.
Il profilo sanzionatorio della norma, nonostante anch’esso sia partecipe delle finalità della stessa, e nonostante fosse ben presente a tutti gli interpreti,all’uscita del codice del 1940 , non era inteso che come sanzione in senso lato.
In altre parole, tutelando il singolo soggetto “processualmente danneggiato “, si veniva a conseguire, o si sarebbe dovuto conseguire anche un vantaggio per la speditezza, l’efficienza e il giusto andamento del sistema processuale nel suo complesso.
Certo, la previsione di una condanna per lite temeraria avrebbe dovuto anche essere una remora per coloro che avessero intenzione di provocare ingiustamente un processo . Ma sicuramente il legislatore del 1940 non era pressato dall’esigenza di evitare il distorto uso del diritto di agire in giudizio come lo è, invece, quello attuale.
Pertanto l’efficacia solamente ipotetica e indiretta di tale “ sanzione “ poteva apparire comunque sufficiente.
Tuttavia, anche nei tempi meno recenti, il quadro normativo nel suo complesso non risultava omogeneo secondo le stesse prime ricostruzioni operate dai commentatori dell’epoca e dalla giurisprudenza, almeno sino ai primi anni ’50 .
Se la responsabilità cosiddetta aggravata per lite temeraria era strutturata a protezione di un interesse del singolo, era logico che dovesse essere oggetto di specifica domanda da parte di quest’ultimo al giudice. Ma, pur tenendo ferma l’impossibilità di una pronuncia d’ufficio nella fattispecie, autorevole dottrina poneva in evidenza il rapporto intercorrente fra l’articolo 92 primo comma dell’articolo 96 primo comma del codice di procedura civile.
Il primo recita “Il giudice, nel pronunciare la condanna di cui all’articolo precedente, può escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato all’altra parte.” Il secondo: “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza”.
Mentre la prima norma avrebbe colpito la temerarietà della lite a prescindere dalla soccombenza, la seconda avrebbe contenuto una “ulteriore” sanzione a carico del soccombente temerario.
Tale ricostruzione trova contrasti in dottrina, sebbene sembri avvallata dalla giurisprudenza. Con riguardo in particolare al rimborso delle spese processuali irripetibili di cui all’art. 92 c.p.c. , cfr. Cass. civ., Sez. II, 26/03/1986, n.2174 : “Resta da dire, con riferimento ad un rilievo svolto dal ricorrente nella discussione orale, che la ipotesi del rimborso delle spese irripetibili, cioé di quelle spese che eccezionalmente possono essere rimborsate a titolo di risarcimento del danno, non si esaurisce nella disciplina dell’art. 92 c.p.c., dove la relativa condanna, collegata alla trasgressione del dovere di lealtà, prescinde dalla soccombenza, potendo la stessa condanna, per quanto concerne la parte soccombente, trovare una specifica applicazione nell’ambito della previsione dell’art. 96 c.p.c.”. Con il che, lo stretto collegamento tra le due norme, per quello che qui interessa, appare confermato.
Secondo altra ,e più recente ricostruzione dottrinale ,il comportamento fonte di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. - una volta individuato- di per sé può costituire anche comportamento in violazione dell’art. 88 c.p.c..
Infatti un comportamento che il sistema pone “oltre le c.d. regole del gioco” , tanto da obbligare chi lo tiene non solo alla refusione delle spese ma anche al risarcimento dei danni prodotti, non potrà non considerarsi contestualmente anche quale condotta illegittima ai sensi dell’art. 88 c.p.c. Ma la corrispondenza tra le fattispecie di cui all’art. 96 c.p.c. e quelle previste dall’art. 88 c.p.c. non potrà essere reciproca, e ciò nel senso che mentre l’instaurazione della lite temeraria configurerà imprescindibilmente una ipotesi di violazione del dovere di lealtà e probità, una qualunque infrazione al principio di cui all’art. 88 c.p.c. non sempre né automaticamente potrà costituire atto cui far discendere una responsabilità aggravata per le conseguenze di cui all’art. 96 c.p.c..
Così, se la ratio per la quale il legislatore ha riconosciuto il diritto di azione è quello di consentire alla parte di far valere un proprio diritto soggettivo dinanzi agli organi giurisdizionali, chi al contrario utilizzi il diritto di azione non per questo scopo ma per altri (si pensi all’azione palesemente infondata fatta valere solo per creare disturbo psicologico o di altra natura alla controparte) terrebbe un comportamento processuale sviato, ovvero finalizzato a scopi diversi per i quali la tutela giurisdizionale sussiste.
Ora , è appena il caso di rilevare che, nel caso dell’articolo 92 primo comma del codice di procedura civile il potere del giudice si poteva e si può esercitare anche d’ufficio,costituendo anzi oggetto di un potere discrezionale incensurabile in cassazione,secondo la stessa giurisprudenza della corte . Ma allora, laddove si acceda a tale ricostruzione, e pertanto si consideri che le norme appena citate esprimono la stessa finalità, non si giustifica l’impulso officioso nell’una e la condanna solo su domanda di parte nell’altra ipotesi normativa: si giunge all’assurdo che un trattamento deteriore può essere dato, d’ufficio, ai sensi dell’art. 92, 1° comma, alla parte totalmente vittoriosa, rispetto ad un trattamento – che sanziona comportamenti della stessa natura - che non può essere dato, d’ufficio, alla parte totalmente soccombente.
Senza tralasciare il fatto che, proprio in sede di prima applicazione dell’art. 96 c.p.c. , la stessa Cassazione ,sia pure con isolata pronuncia, ammise la condanna ex art. 96 anche d’ufficio: “ ...rilevasi che di fronte alla dizione amplissima dell’art. 96 c.p.c. - il quale in relazione al concetto che l’attività della parte nel processo è libera entro i limiti in cui ogni azione umana è libera , cioè fino a quando non venga ad invadere la sfera giuridica altrui - pone il principio che non è lecito agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave , nulla impedirebbe in astratto che la parte ,consapevole dell’ingiustizia della sua pretesa o della sua contestazione , o che con una tenue diligenza avrebbe potuto rendersi conto di tale ingiustizia, fosse condannata , oltre che alle spese ,anche al risarcimento di danno pur nel giudizio di cassazione, ma nel caso non esiste alcuna prova della mala fede o della colpa grave della ditta ricorrente, atte a giustificare il grave provvedimento invocato dalla ricorrente Siemens e che, nell’ambito del suo potere-dovere la Corte di Cassazione potrebbe adottare anche d’ufficio “ (Cass.,I sez. civ. 22.4-21.6 1952, n. 1671 ,inedita per esteso,a quanto consta).
Qui , con il richiamo a tale vecchia statuizione , che peraltro appare andare oltre il mero obiter , non si vuole certamente porre in discussione la sussistenza di un ormai granitico orientamento sulla necessità di istanza di parte, peraltro chiaramente prevista dal dato letterale della norma, quanto piuttosto sottolineare che la condanna ex officio può appartenere alla natura della lite temeraria, è compatibile e quasi imposta dai suoi fini, ed in genere appare del tutto omogenea alla struttura dell’istituto, prova ne siano le discussioni dottrinarie meno recenti e queste stesse significative eccezioni in sede di prima interpretazione dopo l’entrata in vigore del c.p.c..
A proposito di tale compatibilità “strutturale”, l’Assemblea Plenaria della Corte Suprema di Cassazione, riunitasi il 21 luglio 2005 ai sensi dell’art. 93 O.G., in riferimento alla novella dell’art. 385 c.p.c., ha osservato, diversamente : « Sanzionare in modo più efficace ogni forma di abuso del processo rappresenta una misura di razionalizzazione indispensabile se si vuole mantenere l’attuale regime di sostanziale gratuità della giustizia senza determinare sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa inevitabilmente scarsa, quale è quella del processo. Da più parti è avvertita la necessità di superare l’attuale disciplina della responsabilità aggravata, resa sostanzialmente inoperante dalla difficoltà di dare la prova del danno patrimoniale conseguente all’abuso del processo. La previsione normativa adottata dallo schema desta peraltro alcune perplessità. In primo luogo appare contrario ai principi prevedere una condanna in favore di una parte senza domanda di quest’ultima, anche se è vero che non è congruo affidare esclusivamente all’iniziativa di parte l’operatività dell’istituto. La previsione lascia poi scoperta l’ipotesi di non costituzione in giudizio dell’altra parte. Anche la mancanza di qualificazione giuridica di questa sorta di pena pecuniaria che viene irrogata in favore della parte determina un certo disagio.
Appare quindi preferibile prevedere, per queste ipotesi di lite temeraria,un risarcimento del danno anche non patrimoniale con minimo predeterminato ed aggiungere la previsione di una pena pecuniaria in favore della cassa delle ammende a titolo di riparazione per il danno che il sistema di giustizia riceve dallo spreco delle sue risorse che il ricorso temerario determina, contribuendo ad ingolfare il carico giudiziario e quindi a ritardare la definizione di tutti gli altri processi.
La norma potrebbe essere quindi così formulata:
“Quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 375, la Corte, se ritiene che la parte soccombente ha proposto il ricorso o vi ha resistito con malafede o colpa grave, la condanna, su istanza dell’altra parte, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, in misura non inferiore alla somma liquidabile per le spese di lite.
Nel caso previsto dal comma precedente la Corte condanna la parte soccombente, d’ufficio, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una pena pecuniaria determinata in misura non superiore al doppio della somma liquidabile per le spese di lite».
Ora, le osservazioni dell’Adunanza plenaria, appena richiamate sono del tutto congrue, ad eccezione di una. Si ritiene infatti di aver spiegato sopra come non sia insormontabile, nel sistema, la pronuncia d’ufficio sul punto, e d’altro canto non viene specificamente espresso il motivo per cui “...appare contrario ai principi prevedere una condanna in favore di una parte senza domanda di quest’ultima...” ,tanto più che subito dopo si osserva “...anche se è vero che non è congruo affidare esclusivamente all’iniziativa di parte l’operatività dell’istituto...”. E allora, una volta sottolineata la necessità della sanzione e la sua pronuncia d’ufficio, non si vede in quale altro modo uscire dalla difficoltà. Quanto previsto da tale parere, vale a dire limitare la pronuncia d’ufficio alla sanzione pecuniaria destinata alla cassa della ammende, se è in linea con la tradizione,non tiene conto di un dato il quale , pur nella sua prosaicità ,non può essere trascurato in caso di analisi dell’efficacia delle norme quale quella che si sta conducendo: il nostro sistema di riscossione delle entrate pubbliche non brilla per efficienza, e non è escluso che il legislatore abbia considerato che il creditore privato di questo “danno punitivo” (ammesso e non concesso che tale possa qualificarsi) sia molto più efficiente, in executivis, dell’erario.
L’opzione di cui si discute, dunque possibile e non estranea al sistema, si affaccia con impellenza nelle condizioni attuali. Sempre con maggiore gravità ed urgenza si è posto il problema del numero eccessivo dei processi civili pendenti, i quali sono da un lato il portato di un esponenziale crescita delle cause civili iniziate, dall’altro la conseguenza di una sempre maggiore incapacità del sistema giudiziario italiano a gestire il numero complessivo dei processi giacenti e di quelli sopravvenuti in maniera soddisfacente.
Tale incapacità, tuttavia, è in gran parte dipendente proprio dalla maggiore frequenza e facilità con cui , oggi in misura senza dubbio maggiore rispetto al passato, si può adire il giudice, frequenza e facilità che a loro volta nascono sicuramente dall’esigenza,sacrosanta, che il cittadino possa difendere le sue posizioni soggettive in maniera più completa ed articolata. Ma tale esigenza rimarrebbe - come in effetti, allo stato, rimane - generalmente insoddisfatta proprio perchè le risorse materiali ed umane del “sistema giustizia”, come in concreto si è strutturato, sono date in misura fissa, ovvero difficilmente ampliabile, cosicché risulta vano riconoscere sulla carta diritti processuali, posizioni sostanziali e facilità di adire il giudice, venendo così ad espandere, per usare termini economici, la “domanda” di giustizia, quando l’“offerta” rimane rigida.
A tali problemi si ricollega la famosa polemica sulle “riforme a costo zero”.
Ma, anche senza ampliare l’offerta di risorse materiali o umane da cui oggi il processo civile può attingere, appare possibile - e, per ciò solo, doveroso - quanto meno razionalizzare l’impiego di tali risorse attraverso opportuni accorgimenti normativi, proprio nel momento in cui maggiori sono le possibilità per l’utente di ricorrere al giudice.
Di questa necessità di contromisure ( o contrappesi) sembra essersi reso conto di recente il legislatore nel momento in cui attraverso il d. lgs. 40.06 è giunto a modificare l’articolo 385 c.p.c.. La relazione al testo normativo, sul punto, osserva: “ l’articolo 13 interviene sull’articolo 385 c.p.c., aggiungendo un quarto [rectius,terzo] comma che rappresenta una applicazione del principio della responsabilità aggravata contenuto nell’articolo 96 c.p.c., in modo da prevederne una specifica attuazione, in funzione di bilanciamento con l’ampliata possibilità di ricorrere alla Suprema corte.”
Per la relazione alla legge, così come per la maggior parte dei primi commentatori, quindi, la norma si porrebbe nel solco della responsabilità aggravata di cui all’articolo 96 c.p.c., costituendone un’ ipotesi specifica.
Tuttavia le novità rispetto al paradigma dettato dall’articolo 96 sono più di una e tutte piuttosto significative.
In primo luogo -e questo è particolarmente importante per la materia che si sta analizzando- appare l’espressa previsione della pronuncia di condanna anche d’ufficio. Questo è un dato che senza dubbio accentua il profilo sanzionatorio della norma.
In secondo luogo, vediamo una limitazione del quantum risarcibile, “non superiore al doppio dei massimi tariffari”. Qui,appare ancora più evidente che la condanna del litigante temerario è vista come una vera e propria sanzione nell’accezione più stretta del termine, altrimenti non si spiegherebbe l’evocazione, di tipo edittale, di una pena. Al contrario, se si trattasse di un risarcimento, non avrebbe senso, dal punto di vista logico-giuridico, mettere un limite ad esso. Il legislatore, evidentemente, più interessato allo scopo pratico e all’efficacia della norma (come appena sopra accennato), non è stato molto controllato nella scelta dei termini. Le conseguenze pratiche di questo assetto normativo non sono tuttavia , altrettanto infelici di quelle teoriche.
Infatti, si potrebbe osservare che, paradossalmente, proprio osservando la norma sotto l’aspetto risarcitorio-privatistico invece che su quello sanzionatorio-pubblicistico, essa appare ingiustificatamente restrittiva rispetto al passato. Per i primi commentatori, nel giudizio di cassazione, proprio per la previsione di questa norma speciale, non può più essere applicato l’articolo 96 c.p.c., che non pone limitazioni al risarcimento.
Ma occorre osservare come da tempo si fosse consolidato l’indirizzo che la corte di cassazione potesse pronunciare la condanna al risarcimento dei danni derivanti da responsabilità aggravata e ai sensi del primo comma dell’articolo 96 c.p.c., tuttavia la domanda poteva essere proposta per la prima volta in sede di legittimità solo se relativa a danni causati dal comportamento tenuto dalla parte soccombente nel giudizio di cassazione, come nell’ipotesi tipica di proposizione di regolamento di giurisdizione a scopo puramente dilatorio.
Di conseguenza, appare ovvio che la limitazione al “ risarcimento “ prevista dalla nuova formulazione dell’articolo 385 c.p.c. riguarda solamente quest’ultima ipotesi, nella quale ben si comprende una sorta di forfettizzazione del “ danno “ cagionato per lite temeraria limitatamente alla condotta tenuta nel giudizio di cassazione , ove fra l’altro sarebbe preclusa un’istruzione probatoria in senso stretto sul punto. Viceversa, laddove la questione della lite temeraria formi oggetto di impugnazione e pertanto riguardi condotte verificatesi nei gradi precedenti di giudizio, nessuna limitazione sussiste.
Quindi, deve venire in rilievo solo l’intento di semplificazione, bene espresso anche dal terzo elemento di novità rispetto al paradigma dell’articolo 96 c.p.c., vale a dire l’espressa previsione di una liquidazione equitativa.
La dizione dell’articolo 96 c.p.c. è significativamente diversa, facendo riferimento alla liquidazione, anche d’ufficio , dei danni. Ciò comportava - e, nell’attuale sistema di diritto positivo, ancora comporta, nonostante i tentativi sempre più frequenti della giurisprudenza di merito di facilitare il relativo cammino - che il ricorso a parametri equitativi di liquidazione del danno fosse possibile solo a ben precisi limiti e condizioni.
In ultima analisi, la nuova formulazione dell’articolo 385 c.p.c. deve essere sottolineata nella sua effettiva , e significativa , portata. Essa va inserita nell’ambito e dei tentativi legislativi e giurisprudenziali, sempre più forti nell’ultimo periodo, di una “rivitalizzazione “ complessiva dell’istituto della cosiddetta lite temeraria. In questo stesso solco ,va ricordato che il disegno di legge governativo n. 2229 contenente “modifiche urgenti al codice di procedura civile” (che era stato approvato dal Consiglio dei ministri nella seduta del 21 dicembre 2001, poi presentato in Parlamento ed approvato dalla Camera dei deputati in data 16 luglio 2003), nel suo testo unificato, tra l’altro, prevedeva di innovare incisivamente ed in più punti la disciplina sulla responsabilità aggravata, contenuta nell’art. 96 del codice, disponendo all’art. 7 che: “se risulta che la parte soccombente ha agito, anche in via cautelare, o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, ovvero ha proposto un’impugnazione manifestamente inammissibile o infondata, il giudice, anche d’ufficio, la condanna al pagamento di una somma da determinarsi sino ad un massimo di tre volte le spese di lite liquidate....su istanza della parte danneggiata, provvede altresì, alla liquidazione dei danni”. L’innovazione non è stata però approvata, cosicchè il testo dell’art. 96 è rimasto immutato.
Tale rivitalizzazione, a sua volta, fa perno principalmente, se non esclusivamente, nella valorizzazione dell’aspetto sanzionatorio della norma.
Dopo l’entrata in vigore della costituzione repubblicana l’articolo 24 Cost. è stato letto anche in funzione dell’effettività della tutela giudiziaria da esso riconosciuta. È stato, in altre parole, osservato che va soprattutto riconosciuta la possibilità, seria e reale, di ottenere una adeguata risposta del giudice alle istanze del cittadino.
Ed è evidente che tanto più, nel concreto, il sistema processuale presenta meccanismi lenti ed inceppati anche, e soprattutto, da richieste infondate, tanto più la garanzia costituzionale prevista dall’articolo 24 viene lesa.
Ciò è aggravato dalla circostanza che il nostro sistema di giustizia civile non prevede affatto dei filtri, di fatto o di diritto, che sono presenti in altri ordinamenti giuridici.
Quanto ai primi, occorre osservare che il costo economico complessivo del cittadino italiano per munirsi di un legale e, nel complesso, per mettere in moto la macchina giudiziaria del processo civile, si pone a metà classifica, in un vasto lotto di paesi europei, superato peraltro da molte nazioni il cui reddito medio pro capite è inferiore, e a volte notevolmente inferiore, a quello italiano.
Dati alla mano, infatti, le statistiche redatte recentemente dalla stampa specializzata vengono a sfatare il mito secondo il quale il costo della giustizia in Italia sarebbe assai elevato rispetto a tutti gli altri “paesi civili”. Giova invece osservare come nel Regno Unito, il cui sistema giudiziario è tradizionalmente indicato come modello di efficienza, il costo per il privato di un processo civile sia, in termini monetari, estremamente elevato e si collochi al primo posto in tale classifica.
Quanto al secondo profilo, cioè quello dei filtri giuridici, è agevole affermare che nel nostro ordinamento non sussiste alcuna valutazione preventiva, effettuata da appositi organi, che sia in grado di impedire l’instaurazione di processi sulla base di domande che si presentano infondate ovvero palesemente infondate. Esempio specifico, pressoché unico, di tale tipo di filtro giuridico, è dato dall’articolo 126 del DPR 30 maggio 2002 numero 115 - Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - laddove esso prevede che il consiglio dell’ordine degli avvocati ammette e l’interessato alla gratuito patrocinio, in presenza delle altre condizioni reddituali richieste,”…. se le pretese che interessato intende far valere non appaiono manifestamente infondate “ . Si tratta peraltro, come si vede, di un filtro giuridico dalla portata assai modesta, poiché la preclusione fa leva sulla manifesta infondatezza della pretesa e soprattutto perché comunque non preclude a chi è escluso da tale beneficio di adire comunque il giudice. Per altro verso, tale esclusione dal beneficio marca ancora di più i profili di irragionevolezza e disparità di trattamento dell’attuale sistema, poiché esso indirettamente ma chiaramente discrimina il “ non abbiente “ rispetto a chi, avendo la possibilità di pagarsi un legale, non soggiace ad alcun filtro preventivo neppure nell’ipotesi di una manifesta infondatezza della sua pretesa.
Si è a tal proposito osservato ,da parte della dottrina che più recentemente si è occupata del problema , che , per difendersi dalle cause connotate da un’iniziativa o da un resistenza dettate da mala fede o colpa grave, occorre (anche) valorizzare il rilievo dell’articolo 96 c.p.c., perché - nel complesso - chi in tal modo ingolfa i tribunali nuoce a tutti coloro i quali reclamano giustizia e non riescono ad ottenerla in tempi ragionevoli; i promotori di difese “bugiarde“ , perciò, meritano di essere colpiti così come chiunque colpirebbe il falso malato che, procurandosi un ingiustificato ricovero in ospedale, togliesse il posto al malato vero.
Ancora , si è sottolineata una recente forte tendenza dei giudici di merito , volta ad una “ lettura costituzionalmente orientata “ dell’art. 96 c.p.c., il quale viene posto in correlazione con i principi del “giusto processo”, di recente costituzionalizzati (art. 111 Costituzione).
La norma processuale non è intesa quale tradizionale strumento risarcitorio posto a tutela di interessi privatistici del soggetto leso, che per effetto del risarcimento può così ricevere reintegrazione del pregiudizio risentito. L’art. 96 c.p.c. fungerebbe “quale presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Cost.” e avrebbe anche “una funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’interesse della collettività”. E’ interessante osservare come la nuova tendenza giurisprudenziale tenda anche ad appoggiarsi alle più recenti modifiche legislative, segno di un orientamento che può definirsi omogeneo e “circolare”: a conforto di queste tesi, infatti, viene richiamato proprio il tenore del nuovo testo del 3° co dell’art. 385 c.p.c..
I principi del giusto processo sono racchiusi nella formulazione innovata dell’art. 111 Cost, introdotto con l. cost. 23.11.1999, n. 2, a tenore del quale: “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge” . Prosegue il secondo comma affermando che: ”ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Viene osservato che tale prescrizione non si stabilisce che ogni processo deve svolgersi in tempi ragionevoli né, tantomeno, che ogni soggetto ha diritto ad un processo di durata ragionevole , ma la garanzia in parola comporta il dovere del legislatore ordinario di dare al processo un assetto strutturale idoneo ad assicuragli la maggiore “rapidità di movimento” possibile, nonché di fornire alla giustizia le risorse ed i mezzi appropriati per garantire una ragionevole intensità di lavoro di tutti gli addetti del settore .Ma, se è vero che il legislatore ordinario è il destinatario diretto della disposizione costituzionale novellata, appare innegabile che la stessa è indirizzata pure alla Corte Costituzionale, la quale dovrà- anzitutto- applicarla e concretizzarla ogniqualvolta verrà invocata come norma-parametro in sede di sindacato di costituzionalità delle leggi ex artt. 23 ss. l. 11 marzo 1953, n. 87. Cosicchè, secondo questa prospettiva, la Corte Costituzionale può analizzare la legittimità di quelle disposizioni normative, che in astratto prevedono nel processo modalità irragionevoli e scansioni temporali eccessive o formalità irrazionali ed inutili, come tali non giustificate da esigenze di effettività dei diritti di azione o difesa, né tantomeno da interessi razionalmente strutturali e prevalenti.
Continuando a considerare la norma nella sua portata strettamente risarcitoria (e non sanzionatoria) ,appare chiaro che si riduce grandemente le potenzialità di applicazione di essa ,per la difficoltà di dare la prova, incombente sulla parte che richiede la condanna, circa l’esistenza di tale danno.
Pur essendo concessa dalla stessa norma la possibilità di una liquidazione d’ufficio dei danni, ciò non elimina la necessità, ripetutamente affermata dalla giurisprudenza, che la parte provi l’”an” della pretesa.
Secondo la giurisprudenza maggioritaria occorre infatti che la parte deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un danno che sia conseguenza del comportamento processuale del soccombente, sicchè il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi concreti atti ad indentificarne concretamente l’esistenza (Cass. 1992/6637, Cass. 1995/15422, etc).
Orientamento diverso è quello che ha ritenuto che la condanna ai sensi dell’art. 96 I comma non postula necessariamente che la controparte deduca e dimostri uno specifico danno per il ritardo provocato dal ricorso, tenendo conto che il giudice ha la facoltà di desumere detto danno da nozioni di comune esperienza e può fare riferimento anche al pregiudizio che detta controparte abbia subito di per sé per essere stata costretta a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario (Cass. SS.UU. 13.6.1995 n. 448).
E’ stato osservato che “.....Per questo, si trova sovente ripetuto che l’art 96 c.p.c., nel disciplinare come figura di torto extracontrattuale la responsabilita processuale aggravata per mala fede o colpa grave della parte soccombente, non deroga al principio secondo il quale colui che intende ottenere il risarcimento dei danni deve dare la prova sia dell’an che del quantum: ed il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne concretamente l’esistenza.
Orbene, questa impostazione ha condotto nei fatti ad un pressoché totale oblio della norma, la cui applicazione, pur dinanzi ad una palese sussistenza dell’elemento soggettivo da essa contemplato, ha costantemente finito per infrangersi contro la difficoltà, intuitivamente elevata, di fornire una dettagliata deduzione e prova del pregiudizio subito.
L’atteggiamento interpretativo così riassunto non può più essere condiviso e, anzi, una lettura in chiave costituzionale dell’art. 96 c.p.c. impone di facilitarne l’impiego, sicché essa — scoraggiando le iniziative o le resistenze giudiziali che non hanno ragione di essere — possa fungere quale presidio di tutela del principio di ragionevole durata del processo sancito dall’art. 111 Costituzione........omissis....... In detta prospettiva occorre allora sottolineare che, se l’art. 96 c.p.c., inserendosi nel contesto della disciplina aquiliana, risponde essenzialmente ad una logica risarcitoria, ciò non esclude che la stessa disposizione manifesti anche una — assolutamente evidente — funzione sanzionatoria di una condotta riprovevole e dannosa per l’intera collettività: detta funzione, di qui, non può non tradursi in una agevolazione, sotto il profilo dell’allegazione e prova, degli oneri gravanti sul danneggiato.
Quest’ultima conclusione, la quale possiede valenza generale, trova riscontro in due significativi elementi recenti di ordine normativo e giurisprudenziale.
Per un verso, infatti, merita rilevare che l’art. 385 c.p.c., nella sua versione attuale, consente di colpire colui che in sede di ricorso per cassazione agisca o resista con mala fede o colpa grave con una condanna che, anche d’ufficio, senza ulteriori sostegni, può dilatarsi fino al doppio delle spese legali previste nel massimo: e non può dubitarsi che detta norma segni una strada che non può rimanere insignificante per l’interprete che si trovi ad amministrare l’applicazione dell’art. 96 c.p.c..
Per altro verso, va posto l’accento su quell’indirizzo giurisprudenziale, derivato dalla giurisprudenza della CEDU, secondo cui, in caso di danno da eccessiva durata del processo, pur non essendo in re ipsa il pregiudizio, lo è però la prova di esso, nel senso che la sussistenza di un danno morale, sotto forma di sofferenza interiore, è ordinariamente correlata alla protrazione di qualunque processo oltre i limiti della sua ragionevole durata (il riferimento è alle note Cassazione, Su, 1339/04; 1340/04; la successiva giurisprudenza vi si è adeguata, a quanto consta senza eccezioni).
Con riguardo a quest’ultimo aspetto, dopo aver ricordato che nell’attuale assetto della giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale il risarcimento del danno non patrimoniale è sempre ammesso, ogni qual volta venga in questione la lesione di un interesse dotato di copertura costituzionale (Cassazione 8828/03; 8827/03; Corte costituzionale 233/03), occorre dire che,— sul piano del danno esistenziale (su cui v. per tutte Cassazione, Su, 6572/06), l’azione in giudizio o la resistenza infondata comporta perdita di tempo (esame dell’atto, colloqui con il legale, ricerca della eventuale documentazione utile ed altri supporti istruttori, presenza in udienza ecc.), che, se non è sottratto all’attività lavorativa remunerativa, è sottratto alle attività di svago;
sul piano del danno morale, se produce sofferenza interiore il prolungarsi del giudizio oltre i limiti di durata ragionevole, a maggior ragione ne produce, nei confronti della controparte, l’atteggiamento di azione o resistenza in giudizio ab origine connotati da mala fede o colpa grave.
Ecco, allora, che, mentre la domanda di danni per lite temeraria deve per ciò stesso essere riferita, anche in mancanza di ulteriori specificazioni dell’interessato, al danno esistenziale/morale che, normalmente, scaturisce dalla domanda o resistenza caratterizzata da mala fede o colpa grave, la liquidazione del danno ben può essere effettuata in applicazione dei medesimi parametri che la giurisprudenza applica in caso di applicazione della c.d. «legge Pinto». (Tribunale di Roma,sentenza 18 ottobre 2006,Wamax Srl/Vasciminni,in www.personaedanno.it).
Ebbene ,si può concludere osservando che l’art. 96 1° comma c.p.c. , il quale ha il seguente tenore “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche di ufficio, nella sentenza” esterna profili di non manifesta infondatezza per illegittimità costituzionale relativamente all’inciso “su istanza dell’altra parte”.
La questione è rilevante ai fini della decisione del presente procedimento , riguardando una statuizione della sentenza .
Nessuno può nascondersi, tantomeno questo rimettente, che l’intervento caducatorio che qui si sollecita è assai meno congruo di una riforma complessiva degli istituti che spetta al legislatore, non si ritiene però che sia esclusivamente materia di valutazione del legislatore il lasciare o meno in vita l’attuale sistema, in tal modo sottraendolo in toto a censure d’incostituzionalità.
Sussiste contrasto:
- con l’art. 3 cost. essendo lesi il principio di parità di trattamento e di ragionevolezza: si è sopra osservato come altre pronunce d’ufficio sono conseguenti a violazioni di principi almeno in parte coincidenti (cfr. la disamina degli artt. 88 e 92 c.p.c. sopra fatta in relazione all’art. 96 ) e come il sistema complessivamente risulti irrazionale nel momento in cui permette un’indiscriminato accesso agli utenti,anche a quelli che intendano promuovere liti temerarie (non essendovi filtri preventivi di fatto o di diritto , i rari esempi che prevedono qualcosa del genere , come quelli di cui alla normativa del gratuito patrocinio, finiscono per colpire i soli “non abbienti”)
- con l’art. 24 cost. ,poichè il diritto di difesa di ogni cittadino subisce una grave lesione dalla possibilità che vengano affollati i ruoli dei giudici da cause temerarie, il correttivo previsto dalla legge non è congruo rispetto alla finalità di difesa costituzionalmente garantita, poichè rimette alla scelta del singolo danneggiato se chiedere la responsabilità aggravata, laddove la responsabilità aggravata, nel quadro sopra tracciato, risponde anche e sopratutto ad esigenze di garantire la possibilità di effettiva difesa di tutti i singoli consociati ,le quali trascendono gli interessi del singolo
- con l’art. 111 cost. 1° comma, in quanto il processo non può considerarsi aderente a superiori principi di giustizia quando può essere usato in maniera distorta ,senza che il giudice possa reagire anche ex officio, ciò sminuisce il valore del singolo processo e di tutti gli altri processi come momento di garanzia, nonchè con l’art. 111 cost., 2° comma, in quanto statisticamente assai alto è il rischio che il processo di cui “si abusa” vada, nel contempo, anche oltre la durata ragionevole stabilita dalla costituzione, laddove è invece certo l’intralcio grave alla ragionevole durata di tutti gli altri processi, visti nel loro complesso.
p.q.m.
- Dichiara la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 96 c.p.c., 1° comma, nell’inciso “su istanza dell’altra parte”, per il contrasto con gli articoli sopra richiamati;
- Dispone la sospensione del procedimento;
- Dispone l’immediata trasmissione degli atti dei presenti procedimenti alla Corte Costituzionale;
- Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia comunicata al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ancona li 20.11.07
Il giudice monocratico
DR. CESARE MARZIALI