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Afghanistan: il pragmatismo ci salverà (ISPI)

Un'analisi dell'ISPI
Afghanistan ©ISPI
Afghanistan ©ISPI

Tre fasi per la crisi afghana e tre sfide per la comunità internazionale e per i talebani, che di essa non fanno ancora parte.

La prima fase finirà tra qualche giorno: è quella emergenziale dell’evacuazione degli occidentali e del salvacondotto per gli afghani che con loro hanno collaborato. Sarà comunque un’incompiuta. Moltissimi resteranno a terra. È una sfida il cui esito è soprattutto in mani americane: gli alleati europei, che pure hanno chiesto tempi più lunghi o almeno corridoi di uscita protetti, non potranno restare senza di loro. Verrà meno ogni cornice di sicurezza. Il successivo corso degli eventi potrà stingere sul futuro: un colpo ai valori democratici e un facile alimento per la propaganda delle autocrazie. Ma anche i talebani hanno da perdere: il loro modo di presentarsi al mondo – se davvero l’hanno a cuore – sarà giudicato soprattutto a partire da queste ore. Non sappiamo gli esiti del colloquio di lunedì scorso tra il direttore della CIA, Bill Burns, e il mullah Baradar, ma il fatto che si sia svolto fa pensare che qualche consapevolezza della posta in gioco esista.

La seconda fase è di breve/medio periodo. Riguarda l’atteggiamento verso lo stato talebano. Certo, dipenderà anche dal comportamento dei nuovi governanti afghani in materia di diritti delle donne e dei deboli, di governo inclusivo, di santuari jihadisti, di flussi di profughi, di traffico di droga. Ma la sfida è soprattutto per la comunità internazionale e le linee di faglia sono già evidenti. L’Afghanistan è tornato ad essere il campo da gioco di interessi in competizione. Non è detto che si destabilizzi: ma se a consolidarlo saranno paesi come Cina, Russia, Pakistan, avranno ogni convenienza a scaricare verso l’esterno i suoi fattori di instabilità. L’Occidente ne subirebbe le ovvie conseguenze: dopotutto, è anche per evitarle che a suo tempo decidemmo di andarci. Per questo, va trovata una modalità di lavoro comune che coinvolga – giocando sul timore che la situazione sfugga di mano e l’instabilità diventi endemica – la Cina e i paesi della regione. Non è questione di formati (il G7 palesemente manca di rappresentatività, il G20 è una base migliore ma non comprende comunque tutti gli attori rilevanti), quanto piuttosto di obiettivi: evitare fughe in avanti individuali e soprattutto non lasciare ai talebani l’agio di sfruttare le contraddizioni internazionali. I mullah non fanno parte di nessun formato, ma hanno la sfida, da domani, di governare un paese con forti ambizioni di autonomia locale e con una società civile meno timorosa di sfidarli nelle piazze. Più che con l’arma del riconoscimento formale – cui non è detto che i talebani tengano più di tanto – o con le sanzioni, la comunità internazionale potrà pesare se saprà graduare i suoi aiuti materiali, umanitari e finanziari, mostrandosi altresì non indifferente ai movimenti di opposizione locale. Le piazze, pacifiche o armate, sono comunque destinate a contare. La scelta non è dialogare o non dialogare, ma prendere pragmaticamente atto di una realtà che ci impone di salvare il salvabile. Vale di più per l’Occidente.

La terza fase è di prospettiva più ampia. Forse, nel tempo abbiamo esagerato l’importanza strategica dell’Afghanistan: riguarda sempre meno il grande gioco cino-americano centrato sul sud-est asiatico e sulla competizione tecnologica, non è per una Russia ambiziosa ma a corto di mezzi, ha mostrato a tutti quanto costi controllarlo. Eppure, i seguiti del dossier afghano potranno avere implicazioni più complessive: a livello regionale, anzitutto, dove sarà l’occasione per mettere alla prova paesi come Turchia e Qatar, solidali con i rispettivi schieramenti, ma attenti alle convenienze individuali; nel rapporto transatlantico, poi, dove il ‘retrenchment’ americano dimostrato anche a Kabul lascia l’Europa sola nei confronti di Pechino e rischia di sottovalutare le diverse esigenze tra alleati; nei rapporti, infine, tra Stati Uniti e Cina (astenutasi da estremismi nella crisi), il cui comune bisogno di stabilità potrebbe sfociare in un patto di potenza del quale l’Europa sarebbe ai margini.

Visto nella sua dimensione globale ancora una volta l’Afghanistan può fare la differenza.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano La Stampa il 26 agosto 2021