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Al vertice di Londra il “funerale” della NATO scade nella farsa

VERTICE NATO
VERTICE NATO

di Gianandrea Gaiani

Non ci si poteva attendere nulla di convincente dal vertice NATO di Londra e dagli incontri bilaterali di corollario ma almeno era lecita la pretesa che il “de profundis” dell’Alleanza Atlantica venisse celebrato, insieme al 70° compleanno, in una cornice di rigore e serietà.

Il minimo della riconoscenza che tutti in Occidente devono a un’organizzazione che ha garantito la pace in Europa per un quarantennio che poi, per altri 30 anni, ha impedito che i suoi stati membri venissero invasi o coinvolti in conflitti sul proprio territorio.

Destinato a venir ricordato per aver sancito le profonde spaccature all’interno dell’alleanza, il vertice Londra ha celebrato i funerali della NATO in un clima quasi farsesco, con il duello tra Donald Trump ed Emmanuel Macron e gli sfottò apparsi sulla tv canadese del premier canadese Justin Trudeau, tra i sorrisi compiaciuti di alcuni leader europei, alle spalle del presidente americano per le sue frequenti conferenze stampa.

Certo Trump ci ha messo come al solito del suo nell’usare toni molto accesi e nel dimostrare, pur avendo affermato il contrario, che degli alleati europei gli importa solo nella misura in cui spalancano le porte ai big della rete internet e dei social americani senza far pagare loro tasse o acquistano merci e armi statunitensi.

A Macron, che aveva definito la NATO in morte cerebrale (difficile dargli torto) chiedendo maggiore coerenza all’alleanza, da un più concreto impegno nel Sahel a garanzie per i curdi di Siria, nostri alleati contro lo Stato Islamico e minacciati da Ankara, Trump ha risposto minacciando sanzioni se verranno applicate tasse alle major americane del web.

“E’ normale, quando lanci un dibattito, in un contesto in cui il silenzio è all’ordine del giorno, e l’ambiguità diventa un’abitudine, che ci siano delle reazioni…Ma quando si forma il ghiaccio ci vuole il rompighiaccio. Certo, fa un po’ di rumore, ma farlo era un dovere” ha detto Macron affermando di aver preso atto di “una evidente e inaccettabile disconnessione” nei due ultimi vertici della Nato, “dedicati integralmente a cercare di capire come alleviare il peso finanziario degli Stati Uniti” e lasciando in sospeso questioni strategiche per l’Europa quali “i rapporti con la Russia” e la situazione in Turchia”.

Certo non si può tenere insieme un’alleanza solo parlando di soldi, anzi del denaro che gli USA vorrebbero che l’Europa sperdesse in più per la Difesa. Ma senza discutere mai di obiettivi condivisi.

Tra l’altro il segretario generale, Jens Stoltenberg, ha reso noto che Europa (ma non l’Italia) e Canada hanno aumentato quest’anno le spese militari del 4,6%, cresciute quindi per il quinto anno consecutivo con un incremento complessivo di 130 miliardi di dollari nel quinquennio 2016-2020. Inoltre grazie a questi incrementi sono saliti a 9 i Paesi Nato che spendono per la difesa il fatidico 2 per cento del PIL.

Dati rilevanti ma ancora insufficienti per Trump che vorrebbe in realtà vedere questi denari spesi in prodotti made in USA, non certo europei. Per intenderci, l’incremento delle spese militari tedesche è consistente ma a Trump non piace non tanto perché lo ritenga insufficiente ma perché Berlino sembra voler rimpiazzare i Tornado della Luftwaffe con nuovi Typhoon e non con gli F-35A di Lockheed Martin, la quale continua a esercitare pressioni in tal senso su Berlino.

Del resto a Londra si è litigato proprio su tutto. Scontro totale tra Macron ed Erdogan (indirettamente appoggiato dagli USA) sulla Siria e su chi siano i veri “terroristi” (l’Isis per la Francia, i curdi per la Turchia) con il presidente turco che ricatta la NATO: o gli alleati riconoscono la guerra dei turchi contro i terroristi curdi o Ankara si opporrà ai piani e ai programmi della NATO. Un chiaro riferimento ai piani della “difesa collettiva” a supporto in Polonia e Paesi baltici contro la “minaccia russa”.

Un ricatto paradossale tenuto conto che la Turchia è già di fatto con un piede fuori dalla NATO e con l’altro all’interno di una intesa strategica con Mosca dopo aver acquisito il sistema di difesa aerea a lungo raggio russo S-400 che è costato ad Ankara la censura di Washington e l’annullamento della consegna di 100 cacciabombardieri F-35.

Al tempo stesso l’unica potenza che ha fatto qualcosa per i curdi in Siria fermando l’avanzata turca è quella Russia che gli USA e alcuni partner Nato dell’Est vorrebbero convincerci a continuare a considerare un nemico anche in questo caso a cui applicare sanzioni economiche dannose solo per noi europei e contro il quale rafforzare il potenziamento militare.

E al di là della crisi ucraina, con i suoi pesanti strascichi sulla politica interna degli USA, la NATO continuerà a indebolirsi e a sfilacciarsi sul tema della “minaccia russa” specie ora che l’incremento della spesa militare degli alleati porta la NATO a spendere almeno 15 volte di più di Mosca.

L’obiettivo di continuare a indicare un “nemico” per giustificare il senso dell’Alleanza e spingerne la spesa militare verso l’alto non è sufficiente a garantire la tenuta della NATO né sembra poter contribuire l’individuazione ufficiale del “nemico cinese” per rinsaldare i ranghi dell’Alleanza i cui membri in molti casi considerano Pechino una minaccia militare lontana e un importante partner commerciale.

Certo gli allarmi di Washington sui pericoli delle reti 5G cinesi è più che concreto (basti pensare che una legge cinese impone alle società di telecomunicazioni di rendere accessibili ai propri servizi d’intelligence le reti 5G realizzate ovunque nel mondo) ma, inevitabilmente, dopo che gli scandali Echelon e Datagate hanno dimostrato che i primi a spiare noi europei sono proprio i nostri “alleati” americani, è chiaro che i moniti degli USA hanno un problema di credibilità.

Ai margini degli accesi dibattiti tra i “big”, il ruolo dell’Italia è apparso ancor più appannato e irrilevante del solito. Non abbiamo colto l’occasione per entrare da protagonisti nel dibattito sui “mali” dell’alleanza.

Non abbiamo dato con determinazione man forte a Macron, che chiede maggiore sostegno nelle operazioni contro i jihadisti nel Sahel dove la Francia schiera i 4.500 militari dell’Operazione Barkhane.

Non per servilismo nei confronti di Parigi (elemento che pure non mancherebbe nel governo Conte 2) ma perché le note programmatiche della Difesa italiana presentate in ottobre dal ministro Lorenzo Guerini (e che nelle loro linee guida avranno un senso solo se sostenute da un incremento sostanziale dei fondi destinati alla Difesa già nel 2020) includono una maggiore sinergia con Parigi proprio nel Sahel.

Inoltre l’Italia ha sempre cercato di indurre la NATO a dedicare più attenzione e risorse al “Fianco Sud” invece che a quello Orientale e il sunnit di Londra avrebbe offerto una perfetta cornice per ribadire quesra esigenza cercando il supporto degli altri partner mediterranei.

Roma non è riuscita neppure a far entrare la crisi in Libia al centro degli incontri del summit di Londra. O forse non ci ha neppure provato dal momento che a Londra di Libia si è parlato in un briefing ristretto a Francia, Regno Unito, Germania e Turchia. Evidentemente i paesi NATO che contano davvero nella nostra ex colonia.

L’Italia non è stata invitata e a quanto pare, forse distratta da temi più romani, non ha neppure protestato per una esclusione che conferma la nostra irrilevanza sostanziale e generale. Una irrilevanza in cui l’esclusione dal dibattito sullo scenario libico è solo la cartina di tornasole e di cui l’attuale governo ha gravi responsabilità.

Nonostante tutti i dissidi, Stoltenberg ha stoicamente provato a celebrare i 70 anni della NATO minimizzando i dissapori, “La lezione che abbiamo appreso dalla storia ci insegna come, malgrado queste differenze, siamo sempre stati in grado di unirci sull’ obiettivo chiave di garantire inostri interessi di sicurezza internazionale”. Per questo “i piani per proteggere la Polonia, i Paesi baltici e altri” restano importanti per “mandare un messaggio chiaro: che abbiamo la forza e siamo pronti a difendere gli alleati”.

Al di là delle crisi attuali la NATO paga una rilevante e progressiva scollatura tra gli interessi degli USA e dell’Europa: difficile ritenere di poter continuare ad essere rivali politici e commerciali ma alleati sul piano militare così come è impossibile pensare che un alleato militare, specie se “ingombrante” come gli Stati Uniti, possa continuare a porre o minacciare dazi alla nostra economia o imporci di attuare sanzioni a Russia, Iran e domani a chissà quali altri Stati.

Sul piano militare la NATO paga inoltre il prezzo di non aver voluto affrontare, dibattere e metabolizzare apertamente le conseguenze determinate dalla sconfitta patita in Afghanistan contro i Talebani, solo mascherata da ritiro delle forze da combattimento completata nel 2014.

Una sconfitta determinata dall’incapacità ornai cronica dell’Europa di sostenere perdite militari anche minime (in termini bellici) e di combattere un conflitto a lungo termine anche se a bassa intensità.

In termini geopolitici quella guerra ha visto 50 paesi, e soprattutto i partner NATO europei, affiancare il discontinuo e spesso contraddittorio sforzo militare statunitense non con l’obiettivo di vincere ma solo di pagare un obolo all’alleanza con gli USA: una ferita che non è mai stara rimarginata.

Dopo la sconfitta afghana la NATO soffre di una debolezza intrinseca ben rappresentata dai ricatti di Erdogan e da un dibattito commercial-finanziario sulle spese militari e l’acquisizione di armamenti che cela a fatica una crisi ben più ampia, di vocazione. Dopo aver fallito nell’iniziativa di condurre una guerra lontano dai confini della NATO siamo certi che oggi tutti i partner siano davvero disposti a combattere davvero una guerra per difendere l’integrità territoriale di uno Stato membro, come previsto dall’Articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Atlantica?

La domanda non è peregrina e i dubbi sulla possibile risposta dovrebbero indurre alla prudenza chi cerca oggi di spingere sull’acceleratore nel confronto con Mosca invece di preoccuparsi della crescente distanza tra le due sponde dell’Atlantico.