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La fuga della High Court of Justice inglese dalla definizione dei confini del diritto all’oblio

La fuga della High Court of Justice inglese dalla definizione dei confini del diritto all’oblio
La fuga della High Court of Justice inglese dalla definizione dei confini del diritto all’oblio

Di Riccardo Cabazzi

 

England and Wales High Court, Queen’s Bench Division, 13 aprile 2018, NT 1 & NT 2 v. Google LLC

Al ricorrente NT 1 la Corte non riconosce il diritto alla de-indicizzazione, da parte di Google, di taluni contributi relativi a sue pregresse e remote condanne, rilevando – da una pluralità di circostanze attuali –  che vi è un interesse pubblico alla loro diretta conoscenza. All’opposto, pur escludendo il risarcimento del danno, la Corte ordina a Google di de-indicizzare taluni articoli relativi a pregresse (e più lievi) condanne di NT2, rilevando che le informazioni ivi contenute sono imprecise, superate e irrilevanti per la pubblica opinione.

 

Sommario:

1. Fatto e oggetto delle domande giudiziali

2. Reasoningdella Corte: NT 1 e NT 2 e le opposte conclusioni della Corte

3. Brevi osservazioni conclusive: il “trionfo” del fatto sul diritto

 

1. Fatto e oggetto delle domande giudiziali

La pronuncia in esame riguarda il diritto all’oblio, rectius, la facoltà, esercitabile da parte degli interessati nei confronti di un motore di ricerca Internet (nel caso di specie Google), di richiedere la de-indicizzazione di talune informazioni (nel caso di specie, si tratta di notizie di stampa) che quest’ultimo associa ai loro nomi.

Invero, tra gli aspetti più problematici concernenti il diritto all’oblio, acquisisce sempre maggior rilevanza il problema della delimitazione dei casi nei quali esso sia da ritenersi sussistente, ovvero della individuazione delle ipotesi nelle quali l’interesse della persona a ottenere la cancellazione dei risultati a essa associati debba prevalere sugli altri e diversi interessi che possono legittimare la conservazione, la pubblicazione o l’indicizzazione dell’informazione stessa[1].

Per la prima volta nella storia l’Alta Corte di Giustizia inglese ha quindi statuito circa la portata del c.d. right to be forgottenrispetto alle prospettazioni avanzate dai due ricorrenti NT 1 e NT 2, considerando altresì, ai fini della propria decisione, il significativo precedente in materia costituito dalla nota sentenza della Corte di giustizia Google Spain[2].

Venendo dunque ai fatti alla base dell’instaurato contenzioso, si noti che i ricorrenti NT 1 e NT 2 hanno in comune l’aver commesso, in tempi pregressi (e oramai datati), dei fatti di rilevanza penale nell’esercizio delle loro attività imprenditoriali/lavorative, reati per i quali sono stati condannati a pene detentive. Per entrambi, anche a fronte di una intervenuta modifica del Rehabilitation Act1974, tali sanzioni sono risultate estinte: invero, la legge inglese, decorso un determinato lasso di tempo al termine del periodo di riabilitazione, considera la situazione giuridica del reo che ha scontato la pena come se questi non avesse mai commesso alcun reato, con una cancellazione di tutti i suoi relativi effetti.

Tuttavia, come emerge dalle considerazioni del giudice Mr. Warby, diversi sono i reati attribuiti ai ricorrenti: mentre invero NT1 è stato condannato a quattro anni di reclusione per frode fiscale (e, più nel dettaglio, per aver trasferito denaro in società off-shore, al fine di sottrarli al fisco), NT2 ha subito una pena detentiva più lieve, di 6 mesi (di cui ha scontato 6 settimane), in quanto co-responsabile nell’utilizzo illecito di intercettazioni telefoniche e in azioni di hackeraggio quando era senior executive della società Delta, allora coinvolta in forti opposizioni pubbliche per le sue pratiche ambientali.

Si vedrà quindi che il diverso disvalore delle condotte poste in essere dai ricorrenti sarà determinante ai fini dell’accoglimento della comune richiesta, posta alla Corte, di imporre a Google la de-indicizzazione di articoli contenenti informazioni circa le suddette condanne. Secondo le ricostruzioni di NT 1 e NT 2, le notizie riportate negli articoli indicizzati da Google sarebbero invero non accurate e costituirebbero altresì una ingiustificata interferenza rispetto alla protezione dei loro dati personali e, più in generale, della loro privacy. In subordine all’accoglimento di tale domanda chiedono quindi che Google risarcisca loro il danno subito per la continua indicizzazione degli articoli afferenti alle loro pregresse condanne. In punto di diritto, tali istanze si fondano quindi sulle previsioni normative del Data Protection Act 1998 e sugli art. 7 (rispetto per la vita privata) e 8 (protezione dei dati personali) della Carta europea dei diritti fondamentali[3].

 

2. Reasoningdella Corte: NT 1 e NT 2 e le opposte conclusioni della Corte 

Anzitutto, la Corte esclude che Google possa avvalersi della c.d. journalistic exemption, prevista dall’art. 32 del Data Protection Act. Tale disposizione fornisce invero un’esenzione dalla maggior parte delle norme di legge che si applicano al trattamento dei dati personali – limitandolo –  ogniqualvolta i dati vengano elaborati “solo per scopi speciali”, ovvero per finalità giornalistiche, artistiche o letterarie. Secondo il giudice Mr. Warby, sul punto, benché il concetto di giornalismo sia piuttosto esteso nell’ambito del diritto dell’Unione europea, questo non può essere così “elastico” da ricomprendere ogni attività che abbia a che fare con il veicolare informazioni o opinioni. Pertanto, qualificare l’attività del motore di ricerca come giornalistica significherebbe confondere il concetto di giornalismo con quello di comunicazione.

Ciò posto, quanto alle domande giudiziali di NT 1, la Corte rileva che nessuna delle istanze può trovare accoglimento. In primis, il ricorrente non è invero riuscito a dimostrare che i tre link ad articoli riguardanti la sua persona possano fornirne un’immagine non accurata, inadeguata o fuorviante; pur infatti ammettendo che questi link contengono delle imprecisioni, tali inaccuratezze non sono sembrate tali da determinare un danno all’immagine del ricorrente. Facendo riferimento al Defamation Act 2013, il giudice Mr. Warby rileva infatti come, a suo avviso, l’approccio corretto per verificare se un articolo sia o meno pregiudizievole per l’interessato sia di tipo olistico: occorre cioè non soffermarsi su eventuali (micro)imprecisioni della narrazione, ma analizzare se vi è, da una visione del generale contesto, un travisamento dei fatti attribuiti al soggetto dell’articolo, prova che NT1 non riesce a soddisfare.

In secundis, Mr. Warby rileva come le informazioni contenute negli articoli indicizzati da Google attengano non tanto alla vita privata del ricorrente, quanto invece al businessda questi intrapreso; pertanto le notizie circa il crimine da lui commesso, il relativo processo penale e la pena inflitta sono ontologicamente di natura pubblica e la loro pubblicazione costituisce un esito prevedibile della condotta criminosa del ricorrente, accertata giudizialmente. Inoltre, il fatto che tali documenti siano datati non rappresenta ragione sufficiente per far venire meno l’interesse pubblico alla conoscenza del loro contenuto, per almeno un duplice ordine di ragioni. Invero, scontata la pena, NT 1 ha proseguito la propria attività imprenditoriale e, pertanto, le suddette precedenti condotte continuano ad essere, nei confronti della generalità dei consociati, un indizio importante circa la sua pregressa correttezza professionale. La attuale rilevanza per il pubblico delle informazioni di cui è chiesta la de-indicizzazione è inoltre confermata dal fatto che NT 1 non ha mai riconosciuto la propria colpevolezza circa i fatti contestatigli e non ha affatto mostrato rimorso circa la frode posta in essere; pertanto, la conoscenza delle sue passate condotte pare ancor oggi funzionale al pubblico in quanto minimizza il rischio che il ricorrente possa reiterare i suddetti comportamenti criminosi, per i quali ha peraltro scontato una pena non irrilevante.

Diversamente, la Corte addiviene a conclusioni opposte quanto alle istanze giudiziali avanzate da NT 2, accogliendole in toto, salvo la richiesta di risarcimento.

In particolare, Mr. Warby rileva come un articolo (in particolare) indicizzato da Google induca il lettore in errore, finendo con l’aggravare la responsabilità penale del ricorrente. Invero, dalla lettura di tale contributo emerge un’erronea rappresentazione dei fatti, secondo la quale NT 2, con la sua condotta, avrebbe intenzionalmente mirato a ottenere proventi, agendo in maniera disonesta anche nei confronti dei suoi creditori. Pertanto, tale articolo viene ritenuto dalla Corte inaccurato, in quanto fornisce al lettore un’immagine fuorviante del reo, attribuendogli finalità estranee rispetto a quelle per cui ha agito.

Quanto alla richiesta di de-indicizzazione dei documenti facenti riferimento alla pregressa condotta penalmente rilevante del ricorrente, la Corte ritiene che non sussistano più ragioni di pubblico interesse tali da far propendere per una conservazione dei relativi link. In favore di questa conclusione viene quindi articolata una completa analisi delle circostanze di fatto che riguardano sia l’entità della pena che il comportamento di NT 2, prima e dopo la condanna. In particolare, Mr. Warby rileva che la pena inflitta al ricorrente si è estinta anche a prescindere dall’intervenuta modifica al Rehabilitation Act 1974) e che, comunque, si tratta di fatti di lieve entità[4], non tali quindi da pregiudicare l’affidabilità del reo rispetto alla sua futura attività imprenditoriale e, comunque, in grado di escludere (verosimilmente) una reiterazione della medesima condotta criminosa. Inoltre, NT 2 ha espresso, in sede processuale, un sincero pentimento quanto ai reati attribuitegli, riconoscendo la sua colpa. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, le notizie relative alla condanna del ricorrente sembrano essere divenute superate, irrilevanti e prive di un concreto e attuale interesse pubblico alla loro conoscenza. Da qui, l’ordine della Corte a Google di de-indicizzare in modo appropriato i link alle suddette notizie.

 

3. Brevi osservazioni conclusive: il “trionfo” del fatto sul diritto

Nel caso oggetto del presente commento, il giudice Mr. Warby è stato chiamato ad operare un bilanciamento tra il diritto all’informazione dei consociati (freedom of information), da una parte, e il diritto alla protezione dei dati personali (data protection) degli interessati, NT 1 e NT 2, dall’altra.

Ha quindi concluso per la prevalenza del primo, in riferimento alle prospettazioni di NT 1, e per la prevalenza del secondo, con riguardo alle prospettazioni di NT 2, a fronte delle ragioni precedentemente esposte.

Il ragionamento della Corte si è invero basato su elementi di fatto (quali la condotta dei due ricorrenti –  sia precedente che successiva alla condanna – l’entità della sanzione irrogata, l’ammissione di colpevolezza, il fatto che il reato sia stato commesso in maniera fraudolenta e/o per fini lucrativi personali…) dai quali questa ha ricavato l’attualità o meno dell’esistenza di un concreto interesse pubblico all’indicizzazione – e quindi alla maggiore visibilità –  delle informazioni inerenti ai procedimenti penali a carico dei due ricorrenti.

Se ne può quindi ricavare, seguendo il ragionamento della Corte, che ove il suddetto interesse sussista, il diritto alla protezione dei dati personali recede; all’opposto, ove non vi sia un interesse pubblico alla conoscenza delle notizie indicizzate, al diritto all’oblio viene riconosciuta una più compiuta tutela.

Pertanto, corollario della pronuncia in esame è che il right to be forgottenindividuale trova una piena affermazione allorquando le notizie documentali, cui viene chiesta la de-indicizzazione, sono da considerarsi irrilevanti, o perché facenti riferimento a una risalente situazione di fatto superata nel tempo, o in quanto riguardanti circostanze trascurabili o, da ultimo, poiché è venuta a mancare una concreta ragione di conoscibilità delle informazioni stesse.

In sostanza, quindi, il riconoscimento (o meno) del diritto all’oblio a chi lo azioni in giudizio viene a fondarsi su una quaestio facti, ovvero si basa su una valutazione delle circostanze del caso concreto, le cui informazioni sono riportate in contributi previamente pubblicati, con un articolato e completo esame circa la correttezza e alla attualità di queste.

La Corte inglese, invero, non individua, né definisce una soglia – superata la quale si ritiene non sussistere più l’interesse pubblico alla indicizzazione di documenti – e nemmeno detta dei criteri omogenei, anche puramente indicativi, per stabilire l’esistenza o meno di quest’ultimo. Pertanto, finisce con il rimettere tale valutazione alla mera discrezionalità di qualsiasi giudice che si confronti con un caso analogo. Viene così a costituire, ad avviso dello scrivente, un precedente poco significativo in punto di diritto, omettendo di dettare dei criteri – come invece avrebbe dovuto – su come poter meglio bilanciare il diritto all’informazione con il diritto alla tutela dei dati personali.

 

[1] Cfr. S. Martinelli, Diritto all’oblio e motori di ricerca: il bilanciamento tra memoria e oblio in Internet e le problematiche poste dalla de-indicizzazione, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 3, 2017, 565 ss. Sul tema vedasi altresì: O. Pollicino, Privacy or transparency? A new balancing of interest for the right to be forgotten in the field of personal data published in public registers, in The Italian law journal, 2, 2017, 22 ss.

[2] CGUE, C-131/12,Google Spain SL, Google Inc. v Agencia Espanola de Proteccion de Datos (AEPD) and Mario Costeja Gonzalez(2014). Secondo tale landmark case, ciascun individuo ha il diritto di chiedere al motore di ricerca la cancellazione di linka pagine webcontenenti dati personali che siano datati o, comunque, irrilevanti, senza che si ponga alcun pregiudizio per la libertà di informazione. Invero l’attività del motore di ricerca non è assimilabile a quello della stampa e, in ogni caso, le relative informazioni rimangono disponibili nelle pagine web. Fanno eccezione a tale regola le informazioni imperative di interesse generale. Secondo F. Pizzetti, Le autorità garanti per la protezione dei dati personali e la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Google Spain: è tempo di far cadere il velo di Maya, in Diritto dell’Informazione e dell’Informatica, 4-5, 2014, 805 ss., si tratterebbe di una decisione che, sapendo che il motore di ricerca è un media che fornisce una informazione diversa, più strutturata e comunque permanentemente attualizzata rispetto a quella accessibile sui siti fonte, tutela e protegge più l’interessato dal pericolo che sia lesa la sua dignità e profilata indebitamente la sua personalità che non l’interesse degli utenti a acquisire elementi informativi, che comunque non sono più quelli originari. Per una lettura critica della suddetta decisione della Corte di giustizia si rimanda altresì a: O. Pollicino, Un digital right preso (troppo) sul serio dai giudici di Lussemburgo? Il ruolo degli articoli 7 e 8 della Carta di Nizza nel reasoning di Google Spain, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, 4-5, 2014, 569 ss.

[3] Sul tema vedasi: D. Granara, ll fronte avanzato del diritto alla riservatezzain Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 3-4, 2015, 897 ss.

[4] Vedasi paragrafo n. 161 della sentenza in commento secondo cui: «As a rule, [data protection authorities] are more likely to consider the de-listing of search results relating to relatively minor offences that happened a long time ago, whilst being less likely to consider the de-listing of results relating to more serious ones that happened more recently. However, these issues call for careful consideration and will be handled on a case-by-case basis».

 

Redatto il 18 settembre 2018