Brevi note in tema di successione mediata di norme penali incriminatrici
La successione mediata di leggi penali individua un fenomeno successorio in cui a mutare non sono le disposizioni incriminatrici, bensì disposizioni esterne ad esse e al contempo da queste richiamate a qualificare un elemento normativo della fattispecie.
In questa evenienza, la modifica che interessa direttamente la norma extrapenale comporta, in via indiretta o mediata, la modifica della stessa disposizione incriminatrice.
Il problema che si pone è quello di verificare se tale vicenda successoria possa essere assoggettata alla più benevola disciplina prevista dall’art. 2 del codice penale, oppure se debba applicarsi la regola generale posta dall’art. 11 disposizioni preliminari al codice civile, in tema di efficacia nel tempo della legge.
Diverse sono state le tesi prospettate.
In un’ottica estensiva, è stata sostenuta l’applicabilità dell’art. 2 c.p., argomentando dalla medesimezza del concetto di fatto accolto dal legislatore al comma 1 e al comma 2 dell’articolo in questione.
In primo luogo, si afferma che il concetto di fatto rilevante è quello di accadimento storicamente determinato in tutti gli aspetti rilevanti ai fini dell’applicazione della disposizione incriminatrice, ivi compresi gli aspetti disciplinati da norme extrapenali.
In secondo luogo, si fa notare come nel caso in cui la variazione della norma extrapenale si rifletta in una nuova incriminazione nessuno dubita della operatività dell’art. 2 c.p., precludendo l’applicazione retroattiva della nuova disposizione incriminatrice. Conseguentemente, alla stregua di tale lettura, la variazione di una norma extrapenale che si risolva in una abolitio criminis ben può essere attratta alla disciplina dell’art. 2 comma 2, identica essendo la nozione di fatto accolta da quest’ultima norma.
Tale impostazione è stata criticata sotto diversi profili.
Da un lato, ne è stata censurata l’indiscriminata estensione a tutte le norme extrapenali richiamate dalla disposizione incriminatrice, senza apprezzarne l’incidenza sul giudizio di disvalore; dall’altro lato, ne è stata posta in discussione la stessa ricostruzione del concetto di fatto che il legislatore avrebbe accolto all’art. 2 c.p.
Argomentando dall’esigenza di applicare la peculiare disciplina posta dall’art. 2 c.p. solo alle ipotesi in cui la variazione legislativa abbia avuto un’incidenza sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore penale, parte della dottrina ha ritenuto applicabile l’art. 2 c.p., innanzitutto, nei casi di norma penale in bianco.
Qui, l’individuazione della condotta comandata o vietata esprime di per sé il disvalore del fatto bisognoso di tutela penale.
Viceversa, nel caso in cui l’intervento della norma extrapenale sia volto a qualificare l’elemento di un precetto completo in tutti i suoi elementi, il richiamo all’art. 2 sarà pertinente ove l’elemento normativo sia tale da incidere sul disvalore penale del fatto.
Anche tale ricostruzione, tuttavia, è stata sottoposta a censura, nella misura in cui introduce elementi di incertezza legati a giudizi di valore sull’incidenza della modifica normativa sul disvalore penale astratto.
E’ stata prospettata così una terza soluzione, di carattere restrittivo. In tale prospettiva si sottolinea come le norme extrapenali di regola non apportino alcun elemento aggiuntivo al nucleo di disvalore espresso dalla fattispecie incriminatrice. Al contrario, tali norme incidono solo sui dati di fatto presupposti per l’applicazione della fattispecie penale incriminatrice. Conseguentemente, la variazione legislativa che interessi tali disposizioni potrà interessare solo l’applicabilità o meno della norma incriminatrice ad una determinata situazione concreta; viceversa, non incidendo sulla fattispecie legale astratta, tale variazione non potrà essere sussunta nell’alveo di applicabilità dell’art. 2 c.p.
Proprio tale ricostruzione è stata avallata dalle più recenti acquisizioni della giurisprudenza di legittimità, seppur con alcuni correttivi.
Se, infatti, la regola rimane quella della non applicabilità della disciplina dell’art. 2 c.p. alle modifiche relative a norme extrapenali, possono essere individuate due eccezioni.
Da un lato, l’art. 2 può essere richiamato quando le norme extrapenali sono integratrici del precetto: in questo caso, tali norme formano un unico corpo con la norma penale, con conseguente attrazione all’art. 2; dall’altro lato, la stessa evenienza si può verificare rispetto a norme non integratrici, ma retroattive.
Rispetto a queste ultime, tuttavia, occorrerà distinguere a seconda che si tratti di norme meramente qualificative dell’elemento normativo, ovvero di norme che, oltre a tale qualificazione, incidano sull’assetto giuridico realizzato dalla norma incriminatrice.
Qui, in parte recuperando la prospettiva legata all’incidenza della modifica sul disvalore penale del fatto, la giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile l’art. 2 comma 2 solo ove si incida sull’assetto giuridico realizzato dalla norma incriminatrice.
L’art. 2, al secondo comma, prevede il principio di retroazione della norma penale favorevole. Conformemente al principio di uguaglianza, ex art. 3 Costituzione, che impone di non discriminare condotte omogenee sul mero presupposto del tempo in cui sono state attuate, l’art. 2 comma 2 consente di applicare anche ai cosiddetti fatti pregressi la disciplina più benevola, entrata successivamente in vigore.
Ed è proprio l’applicazione di tale principio ad essere stato invocato a seguito dell’ingresso di nuovi paesi nell’Unione Europea e a seguito della riformulazione della nozione di imprenditore sottoposto a fallimento.
In entrambi i casi, soggetti già condannati rispetto a condotte criminose successivamente depenalizzate hanno invocato la revoca della sentenza ex art. 673 c.p.p., o, imputati, in processi pendenti all’entrata in vigore della nuova norma, hanno invocato l’assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
L’applicabilità di tale principio passa, secondo le coordinate interpretative suesposte, attraverso l’individuazione di una novatio legis che abbia interessato norme extrapenali integratrici del precetto.
2. Successione mediata e ingresso di nuovi Paesi nell’Unione Europea (Sezioni Unite Penali 2451/2008)
In relazione al caso legato all’ingresso di nuovi Paesi nell’Unione Europea, occorrerà verificare se le leggi di ratifica del Trattato di adesione all’U.E. abbiano inciso sugli elementi costitutivi dei reati connessi all’immigrazione.
Tali leggi, escludendo dagli extracomunitari i cittadini dei Paesi aderenti, hanno posto cioè il problema di verificare l’effetto di tale esclusione sulla nozione di straniero, rilevante ai fini dell’integrazione di una serie di reati.
La nozione di straniero, infatti, quale elemento normativo della fattispecie, rileva in una serie di figure criminose: tra quelle che vengono maggiormente in considerazione c’è, da un lato, l’ipotesi dell’art. 14 comma 5 ter d.lgs. 286/98, in cui lo straniero è soggetto attivo del reato; e, dall’altro, l’ipotesi dell’art. 12 stesso decreto., in cui lo straniero è il soggetto passivo della condotta.
Muovendosi nell’ottica dell’applicabilità dell’art. 2 comma 2 nel caso di norma extrapenale integratrice del precetto, occorre sottolineare che tra tali norme rientrano le norme definitorie.
Queste ultime possono essere definite come disposizioni in grado di sostituire idealmente la parte della norma penale che le richiama. Appartiene a tale categoria la disposizione dell’art.1 d. lgs. 286/98, in cui la nozione di straniero, rilevante ai fini incriminatori, si articola nelle due categorie degli extracomunitari e degli apolidi.
Proprio analizzando l’impatto che sull’enunciato legislativo hanno avuto le leggi di ratifica del Trattato di Adesione, si è sottolineata l’irrilevanza della novatio ai fini penali dell’art. 2 c.p.. In tale ambito, è stato evidenziato come la disposizione definitoria muti e per tale via muti anche la disposizione incriminatrice che la richiama, solo se le viene sottratta una classe di condotte o di soggetti con specifiche caratteristiche.
Viceversa, nel caso di specie, l’art. 1 D. lgs. 286/98 ha mantenuto le sue due classi di soggetti, individuati negli extracomunitari e apolidi: con la legge di ratifica del Trattato, ad essere mutata è solo la situazione di fatto, rilevante per affermare l’appartenenza del soggetto all’una o all’altra delle categorie, rimaste immutate.
Conseguentemente, attesa la normale irrilevanza delle modifiche apportate dalle norme extrapenali ai dati di fatto presupposti dalla disposizione incriminatrice, si è sottolineata la irrilevanza della modifica dello status di cittadini comunitari ai fini dell’art. 2 comma 2 c.p.
Ciò nondimeno, parte della dottrina ha ritenuto di allontanarsi dalle coordinate interpretative tracciate dalla più recente giurisprudenza di legittimità, recuperando un criterio legato al giudizio di disvalore espresso dal legislatore penale.
In tale prospettiva, è stata valorizzata la natura di reato proprio dell’ipotesi dell’art. 14 comma 5 ter.
Si tratta, infatti, di un’ipotesi criminosa in cui la qualifica soggettiva dell’agente incentra su di sé il disvalore penale del fatto: in assenza della qualifica, la condotta attuata non costituirebbe reato, perché non offensiva di alcun bene giuridico protetto. Muovendosi in tale ottica, dunque, si è ritenuta la rilevanza agli effetti penali dell’art. 2 delle modifiche legate all’ingresso di nuovi stati nell’U.E.. Tali modifiche, cioè, intervenendo sullo status del soggetto agente avrebbero inciso direttamente sul disvalore penale del fatto anteriormente commesso, non esaurendosi in una mera modifica della situazione di fatto. Conseguentemente, vi sarebbe quella immutatio legis che è alla base dell’art. 25 comma 2 Costituzione e art. 2 C.p., e che dovrebbe condurre all’applicabilità del principio di retroazione, ex art. 2 comma 2 c.p..
Alle stesse conclusioni è giunta anche altra parte della dottrina, che, senza recuperare criteri legati a giudizi di valore, si è mossa nell’ambito delle coordinate espresse dalla giurisprudenza più recente.
Proprio sfruttando la rilevanza delle modifiche extrapenali che attengono a disposizioni definitorie, è stato sottolineato come siano le stesse norme comunitarie che individuano gli Stati membri dell’Unione ad avere valore definitorio.
In tale ottica, cioè, la disposizione incriminatrice muta, perché a mutare è la disposizione definitoria legata alla legge di ratifica del trattato di Adesione, che a sua volta fa mutare, secondo un giudizio c.d. bifasico, la disposizione dell’art. 1 d.lgs. 286/98, direttamente richiamata dalla disposizione incriminatrice.
3. Successione mediata e imprenditore fallibile nei reati di bancarotta (Sezioni Unite Penali 19601/2008)
La medesima tematica, legata alla individuazione di una successione di norme extrapenali particolarmente qualificata da poter essere attratta alla più benevola disciplina dell’art. 2 c.p., si è posta in materia fallimentare.
Anche in tale ambito vengono in considerazione, come nel caso connesso alla disciplina sull’immigrazione, reati propri, in cui la condotta, in assenza della qualifica soggettiva, non costituirebbe reato.
Anche in tale ambito, la fattispecie legale incriminatrice rinvia ad una norma esterna per la qualificazione dell’elemento normativo. Ed anche in tale ambito, si è verificato un mutamento nella normativa extrapenale ritenuto irrilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 c.p..
Procedendo con ordine, si può sottolineare come all’attenzione della giurisprudenza siano stati posti casi in cui imputati di bancarotta, per fatti commessi nel vigore della disciplina del tempo, reclamino l’applicazione retroattiva della più benevola disciplina risultante dalla riformulazione della nozione di imprenditore sottoposto a fallimento.
Rispetto all’ipotesi connessa al testo Unico Immigrazione, qui il problema è complicato dalla corretta individuazione dell’elemento normativo della fattispecie, di cui ai reati di bancarotta.
Occorre, infatti, verificare preliminarmente se soggetto agente, portatore di una determinata qualifica, sia l’imprenditore fallibile o, al contrario, l’imprenditore dichiarato fallito.
Una volta chiarito tale presupposto potrà essere valutata l’incidenza della riformulazione normativa sulle fattispecie incriminatrici di cui agli articoli 216 e 217 legge fallimentare.
Ove infatti si ritenesse che soggetto agente sia l’imprenditore “fallibile”, allora la modifica apportata all’art. 1 l. fallimentare, sottraendo alla classe degli imprenditori fallibili una sottocategoria di piccoli imprenditori, con caratteristiche specifiche ed autonome rispetto alla previsione dell’art. 2083 c.c., avrebbe comportato una modifica significativa della disposizione definitoria integratrice del precetto di cui agli articoli 216 e 217 l. fallimentare e, per tale via, una modifica abolitiva delle corrispondenti figure criminose.
Conseguentemente, il giudizio pendente potrebbe concludersi con una sentenza di assoluzione, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Analoghe conseguenze potrebbero essere tratte ragionando in termini di incidenza sul disvalore penale del fatto anteriormente commesso.
Il venir meno della qualifica soggettiva, quando questa è tale da incentrare su di sé il disvalore penale del fatto, travolge lo stesso disvalore del fatto anteriormente commesso e conduce a ritenere abolita la corrispondente figura criminosa.
Sul fronte opposto, tuttavia, è stata prospettata una diversa lettura delle disposizioni incriminatrici.
Proprio dall’enunciato legislativo di cui agli articoli. 216 e 217della legge fallimentare, infatti, si potrebbe ricavare che al legislatore interessa non già l’imprenditore di per sé considerato, ma l’imprenditore dichiarato fallito.
In altri termini, si è sottolineato che elemento costitutivo del reato di bancarotta non è l’imprenditore fallibile, ma la dichiarazione di fallimento.
Quest’ultima rileva, nell’ambito della fattispecie, non già per i presupposti oggettivi e soggettivi in essa accertati, ma come provvedimento giurisdizionale.
In quanto tale, la sentenza dichiarativa di fallimenti sarà sindacabile in sede civile, con i mezzi di impugnazione all’uopo previsti, ma non già dal giudice penale.
Conseguentemente, se soggetto attivo del reato in questione non è l’imprenditore fallibile, ma l’imprenditore dichiarato fallito, le modifiche intervenute in relazione alla disposizione definitoria dell’imprenditore fallibile non incidono sulla disposizione incriminatrice in questione.
In questo caso, infatti, attesa la insindacabilità del provvedimento giurisdizionale da parte del giudice penale, questi non potrebbe accertare il presupposto soggettivo, legato alla qualifica di imprenditore, su cui la modifica è intervenuta.
La successione mediata di leggi penali individua un fenomeno successorio in cui a mutare non sono le disposizioni incriminatrici, bensì disposizioni esterne ad esse e al contempo da queste richiamate a qualificare un elemento normativo della fattispecie.
In questa evenienza, la modifica che interessa direttamente la norma extrapenale comporta, in via indiretta o mediata, la modifica della stessa disposizione incriminatrice.
Il problema che si pone è quello di verificare se tale vicenda successoria possa essere assoggettata alla più benevola disciplina prevista dall’art. 2 del codice penale, oppure se debba applicarsi la regola generale posta dall’art. 11 disposizioni preliminari al codice civile, in tema di efficacia nel tempo della legge.
Diverse sono state le tesi prospettate.
In un’ottica estensiva, è stata sostenuta l’applicabilità dell’art. 2 c.p., argomentando dalla medesimezza del concetto di fatto accolto dal legislatore al comma 1 e al comma 2 dell’articolo in questione.
In primo luogo, si afferma che il concetto di fatto rilevante è quello di accadimento storicamente determinato in tutti gli aspetti rilevanti ai fini dell’applicazione della disposizione incriminatrice, ivi compresi gli aspetti disciplinati da norme extrapenali.
In secondo luogo, si fa notare come nel caso in cui la variazione della norma extrapenale si rifletta in una nuova incriminazione nessuno dubita della operatività dell’art. 2 c.p., precludendo l’applicazione retroattiva della nuova disposizione incriminatrice. Conseguentemente, alla stregua di tale lettura, la variazione di una norma extrapenale che si risolva in una abolitio criminis ben può essere attratta alla disciplina dell’art. 2 comma 2, identica essendo la nozione di fatto accolta da quest’ultima norma.
Tale impostazione è stata criticata sotto diversi profili.
Da un lato, ne è stata censurata l’indiscriminata estensione a tutte le norme extrapenali richiamate dalla disposizione incriminatrice, senza apprezzarne l’incidenza sul giudizio di disvalore; dall’altro lato, ne è stata posta in discussione la stessa ricostruzione del concetto di fatto che il legislatore avrebbe accolto all’art. 2 c.p.
Argomentando dall’esigenza di applicare la peculiare disciplina posta dall’art. 2 c.p. solo alle ipotesi in cui la variazione legislativa abbia avuto un’incidenza sul giudizio di disvalore espresso dal legislatore penale, parte della dottrina ha ritenuto applicabile l’art. 2 c.p., innanzitutto, nei casi di norma penale in bianco.
Qui, l’individuazione della condotta comandata o vietata esprime di per sé il disvalore del fatto bisognoso di tutela penale.
Viceversa, nel caso in cui l’intervento della norma extrapenale sia volto a qualificare l’elemento di un precetto completo in tutti i suoi elementi, il richiamo all’art. 2 sarà pertinente ove l’elemento normativo sia tale da incidere sul disvalore penale del fatto.
Anche tale ricostruzione, tuttavia, è stata sottoposta a censura, nella misura in cui introduce elementi di incertezza legati a giudizi di valore sull’incidenza della modifica normativa sul disvalore penale astratto.
E’ stata prospettata così una terza soluzione, di carattere restrittivo. In tale prospettiva si sottolinea come le norme extrapenali di regola non apportino alcun elemento aggiuntivo al nucleo di disvalore espresso dalla fattispecie incriminatrice. Al contrario, tali norme incidono solo sui dati di fatto presupposti per l’applicazione della fattispecie penale incriminatrice. Conseguentemente, la variazione legislativa che interessi tali disposizioni potrà interessare solo l’applicabilità o meno della norma incriminatrice ad una determinata situazione concreta; viceversa, non incidendo sulla fattispecie legale astratta, tale variazione non potrà essere sussunta nell’alveo di applicabilità dell’art. 2 c.p.
Proprio tale ricostruzione è stata avallata dalle più recenti acquisizioni della giurisprudenza di legittimità, seppur con alcuni correttivi.
Se, infatti, la regola rimane quella della non applicabilità della disciplina dell’art. 2 c.p. alle modifiche relative a norme extrapenali, possono essere individuate due eccezioni.
Da un lato, l’art. 2 può essere richiamato quando le norme extrapenali sono integratrici del precetto: in questo caso, tali norme formano un unico corpo con la norma penale, con conseguente attrazione all’art. 2; dall’altro lato, la stessa evenienza si può verificare rispetto a norme non integratrici, ma retroattive.
Rispetto a queste ultime, tuttavia, occorrerà distinguere a seconda che si tratti di norme meramente qualificative dell’elemento normativo, ovvero di norme che, oltre a tale qualificazione, incidano sull’assetto giuridico realizzato dalla norma incriminatrice.
Qui, in parte recuperando la prospettiva legata all’incidenza della modifica sul disvalore penale del fatto, la giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile l’art. 2 comma 2 solo ove si incida sull’assetto giuridico realizzato dalla norma incriminatrice.
L’art. 2, al secondo comma, prevede il principio di retroazione della norma penale favorevole. Conformemente al principio di uguaglianza, ex art. 3 Costituzione, che impone di non discriminare condotte omogenee sul mero presupposto del tempo in cui sono state attuate, l’art. 2 comma 2 consente di applicare anche ai cosiddetti fatti pregressi la disciplina più benevola, entrata successivamente in vigore.
Ed è proprio l’applicazione di tale principio ad essere stato invocato a seguito dell’ingresso di nuovi paesi nell’Unione Europea e a seguito della riformulazione della nozione di imprenditore sottoposto a fallimento.
In entrambi i casi, soggetti già condannati rispetto a condotte criminose successivamente depenalizzate hanno invocato la revoca della sentenza ex art. 673 c.p.p., o, imputati, in processi pendenti all’entrata in vigore della nuova norma, hanno invocato l’assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
L’applicabilità di tale principio passa, secondo le coordinate interpretative suesposte, attraverso l’individuazione di una novatio legis che abbia interessato norme extrapenali integratrici del precetto.
2. Successione mediata e ingresso di nuovi Paesi nell’Unione Europea (Sezioni Unite Penali 2451/2008)
In relazione al caso legato all’ingresso di nuovi Paesi nell’Unione Europea, occorrerà verificare se le leggi di ratifica del Trattato di adesione all’U.E. abbiano inciso sugli elementi costitutivi dei reati connessi all’immigrazione.
Tali leggi, escludendo dagli extracomunitari i cittadini dei Paesi aderenti, hanno posto cioè il problema di verificare l’effetto di tale esclusione sulla nozione di straniero, rilevante ai fini dell’integrazione di una serie di reati.
La nozione di straniero, infatti, quale elemento normativo della fattispecie, rileva in una serie di figure criminose: tra quelle che vengono maggiormente in considerazione c’è, da un lato, l’ipotesi dell’art. 14 comma 5 ter d.lgs. 286/98, in cui lo straniero è soggetto attivo del reato; e, dall’altro, l’ipotesi dell’art. 12 stesso decreto., in cui lo straniero è il soggetto passivo della condotta.
Muovendosi nell’ottica dell’applicabilità dell’art. 2 comma 2 nel caso di norma extrapenale integratrice del precetto, occorre sottolineare che tra tali norme rientrano le norme definitorie.
Queste ultime possono essere definite come disposizioni in grado di sostituire idealmente la parte della norma penale che le richiama. Appartiene a tale categoria la disposizione dell’art.1 d. lgs. 286/98, in cui la nozione di straniero, rilevante ai fini incriminatori, si articola nelle due categorie degli extracomunitari e degli apolidi.
Proprio analizzando l’impatto che sull’enunciato legislativo hanno avuto le leggi di ratifica del Trattato di Adesione, si è sottolineata l’irrilevanza della novatio ai fini penali dell’art. 2 c.p.. In tale ambito, è stato evidenziato come la disposizione definitoria muti e per tale via muti anche la disposizione incriminatrice che la richiama, solo se le viene sottratta una classe di condotte o di soggetti con specifiche caratteristiche.
Viceversa, nel caso di specie, l’art. 1 D. lgs. 286/98 ha mantenuto le sue due classi di soggetti, individuati negli extracomunitari e apolidi: con la legge di ratifica del Trattato, ad essere mutata è solo la situazione di fatto, rilevante per affermare l’appartenenza del soggetto all’una o all’altra delle categorie, rimaste immutate.
Conseguentemente, attesa la normale irrilevanza delle modifiche apportate dalle norme extrapenali ai dati di fatto presupposti dalla disposizione incriminatrice, si è sottolineata la irrilevanza della modifica dello status di cittadini comunitari ai fini dell’art. 2 comma 2 c.p.
Ciò nondimeno, parte della dottrina ha ritenuto di allontanarsi dalle coordinate interpretative tracciate dalla più recente giurisprudenza di legittimità, recuperando un criterio legato al giudizio di disvalore espresso dal legislatore penale.
In tale prospettiva, è stata valorizzata la natura di reato proprio dell’ipotesi dell’art. 14 comma 5 ter.
Si tratta, infatti, di un’ipotesi criminosa in cui la qualifica soggettiva dell’agente incentra su di sé il disvalore penale del fatto: in assenza della qualifica, la condotta attuata non costituirebbe reato, perché non offensiva di alcun bene giuridico protetto. Muovendosi in tale ottica, dunque, si è ritenuta la rilevanza agli effetti penali dell’art. 2 delle modifiche legate all’ingresso di nuovi stati nell’U.E.. Tali modifiche, cioè, intervenendo sullo status del soggetto agente avrebbero inciso direttamente sul disvalore penale del fatto anteriormente commesso, non esaurendosi in una mera modifica della situazione di fatto. Conseguentemente, vi sarebbe quella immutatio legis che è alla base dell’art. 25 comma 2 Costituzione e art. 2 C.p., e che dovrebbe condurre all’applicabilità del principio di retroazione, ex art. 2 comma 2 c.p..
Alle stesse conclusioni è giunta anche altra parte della dottrina, che, senza recuperare criteri legati a giudizi di valore, si è mossa nell’ambito delle coordinate espresse dalla giurisprudenza più recente.
Proprio sfruttando la rilevanza delle modifiche extrapenali che attengono a disposizioni definitorie, è stato sottolineato come siano le stesse norme comunitarie che individuano gli Stati membri dell’Unione ad avere valore definitorio.
In tale ottica, cioè, la disposizione incriminatrice muta, perché a mutare è la disposizione definitoria legata alla legge di ratifica del trattato di Adesione, che a sua volta fa mutare, secondo un giudizio c.d. bifasico, la disposizione dell’art. 1 d.lgs. 286/98, direttamente richiamata dalla disposizione incriminatrice.
3. Successione mediata e imprenditore fallibile nei reati di bancarotta (Sezioni Unite Penali 19601/2008)
La medesima tematica, legata alla individuazione di una successione di norme extrapenali particolarmente qualificata da poter essere attratta alla più benevola disciplina dell’art. 2 c.p., si è posta in materia fallimentare.
Anche in tale ambito vengono in considerazione, come nel caso connesso alla disciplina sull’immigrazione, reati propri, in cui la condotta, in assenza della qualifica soggettiva, non costituirebbe reato.
Anche in tale ambito, la fattispecie legale incriminatrice rinvia ad una norma esterna per la qualificazione dell’elemento normativo. Ed anche in tale ambito, si è verificato un mutamento nella normativa extrapenale ritenuto irrilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 2 c.p..
Procedendo con ordine, si può sottolineare come all’attenzione della giurisprudenza siano stati posti casi in cui imputati di bancarotta, per fatti commessi nel vigore della disciplina del tempo, reclamino l’applicazione retroattiva della più benevola disciplina risultante dalla riformulazione della nozione di imprenditore sottoposto a fallimento.
Rispetto all’ipotesi connessa al testo Unico Immigrazione, qui il problema è complicato dalla corretta individuazione dell’elemento normativo della fattispecie, di cui ai reati di bancarotta.
Occorre, infatti, verificare preliminarmente se soggetto agente, portatore di una determinata qualifica, sia l’imprenditore fallibile o, al contrario, l’imprenditore dichiarato fallito.
Una volta chiarito tale presupposto potrà essere valutata l’incidenza della riformulazione normativa sulle fattispecie incriminatrici di cui agli articoli 216 e 217 legge fallimentare.
Ove infatti si ritenesse che soggetto agente sia l’imprenditore “fallibile”, allora la modifica apportata all’art. 1 l. fallimentare, sottraendo alla classe degli imprenditori fallibili una sottocategoria di piccoli imprenditori, con caratteristiche specifiche ed autonome rispetto alla previsione dell’art. 2083 c.c., avrebbe comportato una modifica significativa della disposizione definitoria integratrice del precetto di cui agli articoli 216 e 217 l. fallimentare e, per tale via, una modifica abolitiva delle corrispondenti figure criminose.
Conseguentemente, il giudizio pendente potrebbe concludersi con una sentenza di assoluzione, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Analoghe conseguenze potrebbero essere tratte ragionando in termini di incidenza sul disvalore penale del fatto anteriormente commesso.
Il venir meno della qualifica soggettiva, quando questa è tale da incentrare su di sé il disvalore penale del fatto, travolge lo stesso disvalore del fatto anteriormente commesso e conduce a ritenere abolita la corrispondente figura criminosa.
Sul fronte opposto, tuttavia, è stata prospettata una diversa lettura delle disposizioni incriminatrici.
Proprio dall’enunciato legislativo di cui agli articoli. 216 e 217della legge fallimentare, infatti, si potrebbe ricavare che al legislatore interessa non già l’imprenditore di per sé considerato, ma l’imprenditore dichiarato fallito.
In altri termini, si è sottolineato che elemento costitutivo del reato di bancarotta non è l’imprenditore fallibile, ma la dichiarazione di fallimento.
Quest’ultima rileva, nell’ambito della fattispecie, non già per i presupposti oggettivi e soggettivi in essa accertati, ma come provvedimento giurisdizionale.
In quanto tale, la sentenza dichiarativa di fallimenti sarà sindacabile in sede civile, con i mezzi di impugnazione all’uopo previsti, ma non già dal giudice penale.
Conseguentemente, se soggetto attivo del reato in questione non è l’imprenditore fallibile, ma l’imprenditore dichiarato fallito, le modifiche intervenute in relazione alla disposizione definitoria dell’imprenditore fallibile non incidono sulla disposizione incriminatrice in questione.
In questo caso, infatti, attesa la insindacabilità del provvedimento giurisdizionale da parte del giudice penale, questi non potrebbe accertare il presupposto soggettivo, legato alla qualifica di imprenditore, su cui la modifica è intervenuta.