x

x

Sharia e valori costituzionali occidentali

Il fenomeno dei flussi migratori sta generando sempre maggiore interesse del mondo occidentale verso il diritto islamico, spesso indicato tout court anche come sharia. Il diritto islamico, ultimamente, sta cercando di recuperare la sua forma classica e tradizionale dopo aver conosciuto in alcuni Paesi musulmani una certa apertura verso i sistemi occidentali dopo l’avvenuta introduzione, a metà secolo XIX, di elementi provenienti dai codici europei. Si può condividere il giudizio di un autorevole studioso dell’islam secondo cui “il diritto musulmano è diventato oggi uno dei luoghi del conflitto tra tradizione e modernità all’interno del mondo islamico” (J. SCHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Torino, 1995).

Tradizionalmente, lo studio comparato tra diritto islamico, o sharia, e ordinamenti giuridici occidentali non é stato sempre agevole per diversi motivi.

E’ indubbio che la difficoltà della conoscenza della lingua araba ha limitato le ricerche di settore. Infatti, soltanto quando i Paesi colonizzatori di comunità islamiche hanno realmente sentito la necessità di approfondire la conoscenza della sharia, sono stati pubblicati i primi testi sull’argomento, soprattutto in lingua francese. Appare opportuno precisare che, fino al XV secolo, ben poco si sapeva in occidente circa i principi fondamentali della religione islamica (J. HEERS, L’islam cet inconnu, Versailles, 2010). Inoltre, non si può negare l’estrema complessità del mondo giuridico musulmano che si è diversamente sviluppato nelle varie aree geografiche in base agli eventi storici del luogo.

Per poter comprendere le aspettative delle comunità islamiche in occidente, è d’obbligo una sintesi del significato della sharia, spesso definita, per praticità, anche diritto islamico o musulmano. In realtà, la sharia è la norma suprema, rispetto a tutte le altre del mondo musulmano, che impregna del suo valore ogni altra determinazione del quotidiano vivere islamico. La sharia per gli Stati islamici, in linea di principio, si pone come norma superiore anche a quelle costituzionali, e viene assunta come legittimazione del potere.

Il sistema del diritto islamico appare cioè connotato da un «diritto apicale comune» superiore a quello dei singoli Stati islamici. In questa prospettiva, la sharia non è una legge, un codice, un decalogo, una tavola, un documento, ma un vero e proprio sistema di valori che trascende il diritto, le diversità etniche, i luoghi, i tempi. E’ la base di ogni organizzazione istituzionale, di ogni ramo del diritto, di ogni politica, anche di ogni Costituzione. E’ la comunità, la patria, il mondo, la bussola nei momenti delle scelte tragiche, l’elemento unificante. In ultima analisi, rappresenta la coesione di un intero popolo che prescinde dalla sua appartenenza ad una nazione o ad un’altra (A. PREDIERI, Sharia e Costituzione, Roma – Bari 2006). La sharia è dunque ‘legge’ religiosa in generale che governa ogni situazione nella comunità musulmana.

Questa ‘norma superiore’ divide in cinque categorie le azioni umane: atti obbligatori, consigliati, liberi, sconsigliati e proibiti.

Tale classificazione si presta immediatamente ad una prima riflessione: il diritto islamico prevede la possibilità che vengano efficacemente posti in essere degli atti che siano oggetto di un giudizio negativo, ma la loro riprovazione non ne inficia la legittimità. Un esempio classico di questa categoria di atti è il ripudio. Così come avviene anche in altri ordinamenti confessionali, l’applicazione della legge religiosa si basa sulla irrilevanza del principio della territorialità, mentre la possibilità di una pluralità di interpretazioni deve sempre tenere conto di quel limite insormontabile che è costituito dalla non modificabilità della norma rivelata.

Accanto alla sharia c’è il fiqh, ovvero la conoscenza della legge religiosa che permette una lettura appropriata ed una corretta interpretazione della volontà divina operata dai dotti.

Le fonti di produzione del diritto che i musulmani chiamano invece ‘radici del diritto’ sono quattro: Corano, sunna, igma, qiyas (N. FIORITA, Dispense di diritto islamico, Firenze, 2002).

Il Corano è il libro delle rivelazioni che il Profeta Maometto afferma di aver ricevuto da Dio. I capitoli, in arabo sure, hanno una lunghezza molto variabile ed ugualmente molto diverse tra loro sono le materie prese in considerazione. Oltre alla parte propriamente religiosa e storica che riprende anche alcuni testi biblici, le sure riguardano diversi settori. Si va dal diritto di famiglia all’usura, dalla compravendita al diritto di guerra, dalla situazione giuridica degli Ebrei a quella dei Cristiani. A volte vi si trovano norme di carattere contraddittorio che però lo stesso Corano giustifica stabilendo la congruità di una rivelazione progressiva prevedendo che Dio possa abrogare alcune sue precedenti disposizioni sostituendole con delle nuove. Nasce quindi l’esigenza di conoscere quale sia il versetto cronologicamente anteriore che viene abrogato e quale sia quello posteriore. Tale esigenza risulta spesso di difficile soddisfazione. Non tutti i versetti coranici hanno un vero e proprio contenuto giuridico, data la commistione con prescrizioni di carattere religioso. In buona sostanza, questi versetti possono essere considerati il fulcro del diritto islamico, essendo immodificabili, ma non riescono a regolamentare tutte le relazioni umane. Ecco perché per molti fatti i musulmani, anche se partono dal Corano nella costruzione del sistema giuridico, hanno poi l’esigenza di andare oltre e costruire una normativa ‘derivata’ dal Corano.

Per integrare quindi il Corano interviene la sunna, ovvero la ‘tradizione’ intesa come tutto quello che riguarda la vita del Profeta e gli atti più rilevanti dei primi quattro Califfi a lui succeduti. Il comportamento, gli assensi taciti, le azioni, i silenzi, le parole del Profeta compongono la sunna e diventano norma poiché la sua vita è considerata ispirata dalla divinità. Tutto ciò è ricostruito attraverso i racconti dei comportamenti di Maometto, o hadith, trasmessi prima oralmente e poi trascritti. Le raccolte di hadith sono sei e vennero fissate definitivamente solo tra l’870 e il 915. Problema rilevante fu quello di verificare l’autenticità dei racconti e l’elemento decisivo fu individuato nella reputazione dei trasmettitori del racconto.

Accanto alle due fonti scritte, Corano e sunna, il diritto islamico pone due fonti di tipo orale: igma e qiyas.

Con il termine igma si intende il consenso della comunità in merito a questioni religiose. L’accordo dei fedeli, o meglio dei dottori rappresentanti della comunità, produce diritto sulla base di un detto attribuito a Maometto: ‘la mia comunità non si troverà mai d’accordo sopra un errore’. Recentemente si è cercato di estendere il significato di igma all’opinione pubblica. Tale operazione ha trovato tuttavia l’opposizione della dottrina tradizionalista poiché rappresenterebbe una evoluzione in senso moderno del diritto islamico.

Il procedimento analogico, o qiyas, è senza dubbio la fonte del diritto maggiormente controversa. Con questo termine si indica la possibilità di creare una regola giuridica partendo da un caso disciplinato espressamente da cui si trae un principio che serve a regolamentare un altro caso simile. Questo procedimento divide profondamente le varie scuole giuridiche del mondo musulmano.

Accanto a queste quattro ‘radici del diritto’, alcune scuole giuridiche considerano la consuetudine una ulteriore fonte di produzione normativa. Come anche per il diritto canonico, il riconoscimento della consuetudine è servito ad adattare il diritto islamico alle tradizioni ed alle esigenze di comunità molto differenti. Tale fenomeno, in qualche caso, ha anche agevolato l’introduzione nelle comunità musulmane di alcuni elementi tipici di diritto occidentale.

Come già osservato, il contenuto normativo del Corano non é sufficiente per regolamentare tutte le fattispecie del quotidiano vivere. Inoltre, gli stessi enunciati di natura giuridica, nella maggior parte dei casi, non sono di agevole comprensione. La necessità di adeguare questa legge religiosa alle differenti realtà ha perciò richiesto, nel corso dei secoli, un’intensa attività di elaborazione di dottrine giuridiche. Nell’Islam quest’opera è stata svolta esclusivamente da dottori della legge che, dal I secolo dell’Islam, cominciarono a riunirsi in ‘scuole giuridiche’. All’inizio, queste scuole venivano identificate solo in base alla collocazione geografica (Medina, Mecca, Kufa e Basra), ma in un secondo momento presero i nomi dai loro fondatori. Nel corso del tempo, le scuole giuridiche (madhhab) vennero a differenziarsi non solo nella regolamentazione dei singoli istituti, ma anche sulle stesse fonti del diritto. Attualmente, le scuole giuridiche sunnite attive sono quattro. La loro sopravvivenza deve attribuirsi certamente al valore delle dottrine professate, ma anche al favore dei sovrani o all’influenza dei fondatori.

Le quattro scuole sunnite sono:

1) la scuola hanafita, la più seguita e contraddistinta da un ampio utilizzo del ragionamento analogico;

2) la scuola malikita, molto diffusa nel Maghreb, si basa prevalentemente sulla sunna e sul rilievo dato alle intenzioni su cui poggia ogni singola azione;

3) la scuola hanbalita la quale respinge l’uso del qiyas essendo una scuola molto rigida che trova applicazione in Arabia Saudita;

4) la scuola shafiita prende il nome da Al-Shàf’I, considerato il vero fondatore della scienza del fiqh, è diffusa in Indonesia e nel subcontinente indiano.

Questa sintesi sul significato della sharia è parsa necessaria perché spesso si intende la sharia come norma unicamente religiosa, mentre in realtà è essa stessa anche norma giuridica o, quanto meno, ispiratrice nel processo di formazione del diritto musulmano.

Ora, la pretesa applicazione della sharia da parte delle comunità musulmane fuori dai loro Paesi di provenienza non può essere confusa con il diritto alla libertà religiosa.

Infatti, il diritto di professare la propria fede non viene negato nei Paesi occidentali che notoriamente riconoscono e tutelano i diritti fondamentali dell’individuo. Per quanto riguarda l’Italia, sebbene non sia stata varata nessuna delle bozze d’intesa con le varie comunità islamiche, le moschee risultano funzionanti e consentono di professare liberamente la religione musulmana.

Le intese non sottoscritte confermano, peraltro, la persistenza di problemi insoluti. Primo fra tutti, la mancanza di un organismo unico di rappresentanza musulmana disposto a sottoscrivere un’intesa con lo Stato italiano. La frammentarietà delle varie comunità non consente di risolvere la ‘questione italiana’ a differenza di altri Paesi europei dove alcune intese con le comunità islamiche locali sono state già da tempo siglate.

Considerato, quindi, che non si tratta del riconoscimento della libertà religiosa, quando le comunità musulmane reclamano l’applicazione della sharia questa vuol dire proprio l’applicazione della legge islamica che notoriamente non tutela i diritti fondamentali dell’individuo come il mondo occidentale è abituato a considerare. E questa riflessione non é determinata sulla base di una scala di valori tra ordinamenti, ma semplicemente su considerazioni di sistemi e ordinamenti giuridici con genesi diverse.

La sharia ha la particolarità di essere contemporaneamente regola religiosa e regola di vita che incide inevitabilmente sull’individuo parte di ogni comunità musulmana ovunque nel mondo. Essa ‘governa’ l’individuo in quanto musulmano, ovunque si trovi, e non in quanto cittadino di questo o quel Paese. Infatti, generalmente, quando i Paesi musulmani approvano le loro Costituzioni, pur ricalcando le Carte occidentali, nella gerarchia delle fonti, all’apice troviamo sempre la ‘loro’ legge, cioè la sharia. E l’uguaglianza dei cittadini è riferita davanti alla ‘loro’ legge che non garantisce la pari dignità degli individui secondo gli standard occidentali. Inoltre, la problematica non riguarda solo i cittadini stranieri di fede islamica, ma anche i cittadini italiani convertiti all’islam e sottoposti alle regole della sharia.

La superiorità dell’elemento confessionale su quello giuridico comporta la soggezione al diritto musulmano del credente in quanto tale, indipendentemente dalla sua appartenenza ad uno Stato. Da qui anche la diversità più profonda del diritto islamico rispetto all’idea laica di tipo europeo del diritto come emanazione del potere sovrano: poiché il potere sovrano spetta a Dio, in certi casi, viene meno anche ogni distinzione tra norme giuridiche e norme morali.

L’applicazione della sharia in occidente non può non destare qualche perplessità. Le norme di diritto internazionale privato non sono sufficienti per ‘consentire’ l’utilizzo di norme contrarie ai nostri valori costituzionali. É ovvio. In buona sostanza, se il marito musulmano ha il diritto di battere la moglie perché il Corano lo consente, questo non può essere tollerato nel nostro Paese in nome dell’applicazione della sharia o in nome della libertà religiosa (Cassazione Penale, sezione VI, 12.08.2009, n. 32824).

Spiegato in forma semplicistica, il fenomeno appare poco avvertito e poco praticabile. Tuttavia, in Europa sono ormai già presenti alcuni tribunali sciaraitici.

In Gran Bretagna, per esempio, sono stati autorizzati da una norma del 1996, mentre in Belgio sono di fatto tollerati ed applicano il loro ‘diritto parallelo’. In Norvegia è stata proposta una legge di autorizzazione alla loro istituzione, per ora respinta. Nei Paesi con forte presenza islamica, come la Germania, si realizza sempre più spesso l’applicazione de facto della sharia e non sempre le Autorità locali ne vengono a conoscenza, oppure tale applicazione viene semplicemente tollerata in nome dei cosiddetti ‘diritti di immigrazione’ tout court.

A tale riguardo, la Commissione europea è stata interpellata con diverse interrogazioni parlamentari circa l’applicazione della sharia in Europa. Le varie risposte scritte non sembrano rivelare sempre posizioni chiare. Esse ribadiscono soprattutto il diritto di libertà religiosa all’interno dell’Unione Europea, mentre la sharia viene definita un concetto generale comprendente vari aspetti giuridici oggetto di interpretazioni diverse sia nei Paesi in cui è applicata che tra gli esperti (E-001463/2011; G.U. C 294 E – 06.10.2011).

Nel nostro ordinamento esiste il divieto di istituzione di giudici straordinari o speciali (Costituzione art. 102) e quindi non appare possibile la presenza di un ‘diritto parallelo’ autorizzato per soddisfare le richieste delle comunità islamiche.

Tuttavia, sembra auspicabile il raggiungimento di una politica comune, da parte dell’Unione Europea, che possa portare a una normativa di carattere generale in materia di libertà religiosa al fine di attuare un modello di integrazione comune.

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (C.E.D.U.) di Strasburgo è stata chiamata a giudicare in merito all’applicazione della sharia. In occasione delle pronunce sul noto caso Refah Partisi (31.07.2001; 13.02.2003 - Gran Camera), la Corte ha dichiarato che i principi iscritti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo non consentono alcun ingresso alla sharia poiché l’ordinamento sciaraitico ha un carattere personale e confessionale, che esproprierebbe il ruolo statale di regolazione della vita sociale, introducendo distinzioni tra gli individui basati sulla religione.

La sharia è dunque contraria al principio irrinunciabile di unità legislativa e giudiziaria dello Stato. In particolare, nella seconda sentenza della Grande Chambre, la Corte ha dichiarato che la sharia è incompatibile con i principi fondamentali della democrazia. Naturalmente, la Corte non intende bandire l’islam dall’Europa, ma sottolinea la necessità di verificare, mediante l’utilizzo del principio di laicità, la compatibilità dei comportamenti imposti dalla sharia con i principi fondamentali che reggono le democrazie europee.

In definitiva, la via da percorrere pare sia proprio quella indicata dalla C.E.D.U., ovvero fare in modo che l’islam possa radicarsi nel contesto laico degli ordinamenti dei Paesi dell’Unione Europea nell’ambito dei quali la religione, pur essendo parte della vita sociale, è allo stesso tempo tenuta distinta da essa. Delicati sono infatti i problemi che nascono da queste nuove dimensioni di convivenza e che si pongono all’attenzione degli organi di governo con sempre maggiore intensità e frequenza. Ci si augura che un punto di incontro si possa trovare. E non solo per il diritto al rispetto della libertà religiosa, ma anche per favorire un giusto modello di integrazione e per contenere le occasioni di violazione delle regole costituzionali del nostro Paese e dei Paesi occidentali in generale.

Il fenomeno dei flussi migratori sta generando sempre maggiore interesse del mondo occidentale verso il diritto islamico, spesso indicato tout court anche come sharia. Il diritto islamico, ultimamente, sta cercando di recuperare la sua forma classica e tradizionale dopo aver conosciuto in alcuni Paesi musulmani una certa apertura verso i sistemi occidentali dopo l’avvenuta introduzione, a metà secolo XIX, di elementi provenienti dai codici europei. Si può condividere il giudizio di un autorevole studioso dell’islam secondo cui “il diritto musulmano è diventato oggi uno dei luoghi del conflitto tra tradizione e modernità all’interno del mondo islamico” (J. SCHACHT, Introduzione al diritto musulmano, Torino, 1995).

Tradizionalmente, lo studio comparato tra diritto islamico, o sharia, e ordinamenti giuridici occidentali non é stato sempre agevole per diversi motivi.

E’ indubbio che la difficoltà della conoscenza della lingua araba ha limitato le ricerche di settore. Infatti, soltanto quando i Paesi colonizzatori di comunità islamiche hanno realmente sentito la necessità di approfondire la conoscenza della sharia, sono stati pubblicati i primi testi sull’argomento, soprattutto in lingua francese. Appare opportuno precisare che, fino al XV secolo, ben poco si sapeva in occidente circa i principi fondamentali della religione islamica (J. HEERS, L’islam cet inconnu, Versailles, 2010). Inoltre, non si può negare l’estrema complessità del mondo giuridico musulmano che si è diversamente sviluppato nelle varie aree geografiche in base agli eventi storici del luogo.

Per poter comprendere le aspettative delle comunità islamiche in occidente, è d’obbligo una sintesi del significato della sharia, spesso definita, per praticità, anche diritto islamico o musulmano. In realtà, la sharia è la norma suprema, rispetto a tutte le altre del mondo musulmano, che impregna del suo valore ogni altra determinazione del quotidiano vivere islamico. La sharia per gli Stati islamici, in linea di principio, si pone come norma superiore anche a quelle costituzionali, e viene assunta come legittimazione del potere.

Il sistema del diritto islamico appare cioè connotato da un «diritto apicale comune» superiore a quello dei singoli Stati islamici. In questa prospettiva, la sharia non è una legge, un codice, un decalogo, una tavola, un documento, ma un vero e proprio sistema di valori che trascende il diritto, le diversità etniche, i luoghi, i tempi. E’ la base di ogni organizzazione istituzionale, di ogni ramo del diritto, di ogni politica, anche di ogni Costituzione. E’ la comunità, la patria, il mondo, la bussola nei momenti delle scelte tragiche, l’elemento unificante. In ultima analisi, rappresenta la coesione di un intero popolo che prescinde dalla sua appartenenza ad una nazione o ad un’altra (A. PREDIERI, Sharia e Costituzione, Roma – Bari 2006). La sharia è dunque ‘legge’ religiosa in generale che governa ogni situazione nella comunità musulmana.

Questa ‘norma superiore’ divide in cinque categorie le azioni umane: atti obbligatori, consigliati, liberi, sconsigliati e proibiti.

Tale classificazione si presta immediatamente ad una prima riflessione: il diritto islamico prevede la possibilità che vengano efficacemente posti in essere degli atti che siano oggetto di un giudizio negativo, ma la loro riprovazione non ne inficia la legittimità. Un esempio classico di questa categoria di atti è il ripudio. Così come avviene anche in altri ordinamenti confessionali, l’applicazione della legge religiosa si basa sulla irrilevanza del principio della territorialità, mentre la possibilità di una pluralità di interpretazioni deve sempre tenere conto di quel limite insormontabile che è costituito dalla non modificabilità della norma rivelata.

Accanto alla sharia c’è il fiqh, ovvero la conoscenza della legge religiosa che permette una lettura appropriata ed una corretta interpretazione della volontà divina operata dai dotti.

Le fonti di produzione del diritto che i musulmani chiamano invece ‘radici del diritto’ sono quattro: Corano, sunna, igma, qiyas (N. FIORITA, Dispense di diritto islamico, Firenze, 2002).

Il Corano è il libro delle rivelazioni che il Profeta Maometto afferma di aver ricevuto da Dio. I capitoli, in arabo sure, hanno una lunghezza molto variabile ed ugualmente molto diverse tra loro sono le materie prese in considerazione. Oltre alla parte propriamente religiosa e storica che riprende anche alcuni testi biblici, le sure riguardano diversi settori. Si va dal diritto di famiglia all’usura, dalla compravendita al diritto di guerra, dalla situazione giuridica degli Ebrei a quella dei Cristiani. A volte vi si trovano norme di carattere contraddittorio che però lo stesso Corano giustifica stabilendo la congruità di una rivelazione progressiva prevedendo che Dio possa abrogare alcune sue precedenti disposizioni sostituendole con delle nuove. Nasce quindi l’esigenza di conoscere quale sia il versetto cronologicamente anteriore che viene abrogato e quale sia quello posteriore. Tale esigenza risulta spesso di difficile soddisfazione. Non tutti i versetti coranici hanno un vero e proprio contenuto giuridico, data la commistione con prescrizioni di carattere religioso. In buona sostanza, questi versetti possono essere considerati il fulcro del diritto islamico, essendo immodificabili, ma non riescono a regolamentare tutte le relazioni umane. Ecco perché per molti fatti i musulmani, anche se partono dal Corano nella costruzione del sistema giuridico, hanno poi l’esigenza di andare oltre e costruire una normativa ‘derivata’ dal Corano.

Per integrare quindi il Corano interviene la sunna, ovvero la ‘tradizione’ intesa come tutto quello che riguarda la vita del Profeta e gli atti più rilevanti dei primi quattro Califfi a lui succeduti. Il comportamento, gli assensi taciti, le azioni, i silenzi, le parole del Profeta compongono la sunna e diventano norma poiché la sua vita è considerata ispirata dalla divinità. Tutto ciò è ricostruito attraverso i racconti dei comportamenti di Maometto, o hadith, trasmessi prima oralmente e poi trascritti. Le raccolte di hadith sono sei e vennero fissate definitivamente solo tra l’870 e il 915. Problema rilevante fu quello di verificare l’autenticità dei racconti e l’elemento decisivo fu individuato nella reputazione dei trasmettitori del racconto.

Accanto alle due fonti scritte, Corano e sunna, il diritto islamico pone due fonti di tipo orale: igma e qiyas.

Con il termine igma si intende il consenso della comunità in merito a questioni religiose. L’accordo dei fedeli, o meglio dei dottori rappresentanti della comunità, produce diritto sulla base di un detto attribuito a Maometto: ‘la mia comunità non si troverà mai d’accordo sopra un errore’. Recentemente si è cercato di estendere il significato di igma all’opinione pubblica. Tale operazione ha trovato tuttavia l’opposizione della dottrina tradizionalista poiché rappresenterebbe una evoluzione in senso moderno del diritto islamico.

Il procedimento analogico, o qiyas, è senza dubbio la fonte del diritto maggiormente controversa. Con questo termine si indica la possibilità di creare una regola giuridica partendo da un caso disciplinato espressamente da cui si trae un principio che serve a regolamentare un altro caso simile. Questo procedimento divide profondamente le varie scuole giuridiche del mondo musulmano.

Accanto a queste quattro ‘radici del diritto’, alcune scuole giuridiche considerano la consuetudine una ulteriore fonte di produzione normativa. Come anche per il diritto canonico, il riconoscimento della consuetudine è servito ad adattare il diritto islamico alle tradizioni ed alle esigenze di comunità molto differenti. Tale fenomeno, in qualche caso, ha anche agevolato l’introduzione nelle comunità musulmane di alcuni elementi tipici di diritto occidentale.

Come già osservato, il contenuto normativo del Corano non é sufficiente per regolamentare tutte le fattispecie del quotidiano vivere. Inoltre, gli stessi enunciati di natura giuridica, nella maggior parte dei casi, non sono di agevole comprensione. La necessità di adeguare questa legge religiosa alle differenti realtà ha perciò richiesto, nel corso dei secoli, un’intensa attività di elaborazione di dottrine giuridiche. Nell’Islam quest’opera è stata svolta esclusivamente da dottori della legge che, dal I secolo dell’Islam, cominciarono a riunirsi in ‘scuole giuridiche’. All’inizio, queste scuole venivano identificate solo in base alla collocazione geografica (Medina, Mecca, Kufa e Basra), ma in un secondo momento presero i nomi dai loro fondatori. Nel corso del tempo, le scuole giuridiche (madhhab) vennero a differenziarsi non solo nella regolamentazione dei singoli istituti, ma anche sulle stesse fonti del diritto. Attualmente, le scuole giuridiche sunnite attive sono quattro. La loro sopravvivenza deve attribuirsi certamente al valore delle dottrine professate, ma anche al favore dei sovrani o all’influenza dei fondatori.

Le quattro scuole sunnite sono:

1) la scuola hanafita, la più seguita e contraddistinta da un ampio utilizzo del ragionamento analogico;

2) la scuola malikita, molto diffusa nel Maghreb, si basa prevalentemente sulla sunna e sul rilievo dato alle intenzioni su cui poggia ogni singola azione;

3) la scuola hanbalita la quale respinge l’uso del qiyas essendo una scuola molto rigida che trova applicazione in Arabia Saudita;

4) la scuola shafiita prende il nome da Al-Shàf’I, considerato il vero fondatore della scienza del fiqh, è diffusa in Indonesia e nel subcontinente indiano.

Questa sintesi sul significato della sharia è parsa necessaria perché spesso si intende la sharia come norma unicamente religiosa, mentre in realtà è essa stessa anche norma giuridica o, quanto meno, ispiratrice nel processo di formazione del diritto musulmano.

Ora, la pretesa applicazione della sharia da parte delle comunità musulmane fuori dai loro Paesi di provenienza non può essere confusa con il diritto alla libertà religiosa.

Infatti, il diritto di professare la propria fede non viene negato nei Paesi occidentali che notoriamente riconoscono e tutelano i diritti fondamentali dell’individuo. Per quanto riguarda l’Italia, sebbene non sia stata varata nessuna delle bozze d’intesa con le varie comunità islamiche, le moschee risultano funzionanti e consentono di professare liberamente la religione musulmana.

Le intese non sottoscritte confermano, peraltro, la persistenza di problemi insoluti. Primo fra tutti, la mancanza di un organismo unico di rappresentanza musulmana disposto a sottoscrivere un’intesa con lo Stato italiano. La frammentarietà delle varie comunità non consente di risolvere la ‘questione italiana’ a differenza di altri Paesi europei dove alcune intese con le comunità islamiche locali sono state già da tempo siglate.

Considerato, quindi, che non si tratta del riconoscimento della libertà religiosa, quando le comunità musulmane reclamano l’applicazione della sharia questa vuol dire proprio l’applicazione della legge islamica che notoriamente non tutela i diritti fondamentali dell’individuo come il mondo occidentale è abituato a considerare. E questa riflessione non é determinata sulla base di una scala di valori tra ordinamenti, ma semplicemente su considerazioni di sistemi e ordinamenti giuridici con genesi diverse.

La sharia ha la particolarità di essere contemporaneamente regola religiosa e regola di vita che incide inevitabilmente sull’individuo parte di ogni comunità musulmana ovunque nel mondo. Essa ‘governa’ l’individuo in quanto musulmano, ovunque si trovi, e non in quanto cittadino di questo o quel Paese. Infatti, generalmente, quando i Paesi musulmani approvano le loro Costituzioni, pur ricalcando le Carte occidentali, nella gerarchia delle fonti, all’apice troviamo sempre la ‘loro’ legge, cioè la sharia. E l’uguaglianza dei cittadini è riferita davanti alla ‘loro’ legge che non garantisce la pari dignità degli individui secondo gli standard occidentali. Inoltre, la problematica non riguarda solo i cittadini stranieri di fede islamica, ma anche i cittadini italiani convertiti all’islam e sottoposti alle regole della sharia.

La superiorità dell’elemento confessionale su quello giuridico comporta la soggezione al diritto musulmano del credente in quanto tale, indipendentemente dalla sua appartenenza ad uno Stato. Da qui anche la diversità più profonda del diritto islamico rispetto all’idea laica di tipo europeo del diritto come emanazione del potere sovrano: poiché il potere sovrano spetta a Dio, in certi casi, viene meno anche ogni distinzione tra norme giuridiche e norme morali.

L’applicazione della sharia in occidente non può non destare qualche perplessità. Le norme di diritto internazionale privato non sono sufficienti per ‘consentire’ l’utilizzo di norme contrarie ai nostri valori costituzionali. É ovvio. In buona sostanza, se il marito musulmano ha il diritto di battere la moglie perché il Corano lo consente, questo non può essere tollerato nel nostro Paese in nome dell’applicazione della sharia o in nome della libertà religiosa (Cassazione Penale, sezione VI, 12.08.2009, n. 32824).

Spiegato in forma semplicistica, il fenomeno appare poco avvertito e poco praticabile. Tuttavia, in Europa sono ormai già presenti alcuni tribunali sciaraitici.

In Gran Bretagna, per esempio, sono stati autorizzati da una norma del 1996, mentre in Belgio sono di fatto tollerati ed applicano il loro ‘diritto parallelo’. In Norvegia è stata proposta una legge di autorizzazione alla loro istituzione, per ora respinta. Nei Paesi con forte presenza islamica, come la Germania, si realizza sempre più spesso l’applicazione de facto della sharia e non sempre le Autorità locali ne vengono a conoscenza, oppure tale applicazione viene semplicemente tollerata in nome dei cosiddetti ‘diritti di immigrazione’ tout court.

A tale riguardo, la Commissione europea è stata interpellata con diverse interrogazioni parlamentari circa l’applicazione della sharia in Europa. Le varie risposte scritte non sembrano rivelare sempre posizioni chiare. Esse ribadiscono soprattutto il diritto di libertà religiosa all’interno dell’Unione Europea, mentre la sharia viene definita un concetto generale comprendente vari aspetti giuridici oggetto di interpretazioni diverse sia nei Paesi in cui è applicata che tra gli esperti (E-001463/2011; G.U. C 294 E – 06.10.2011).

Nel nostro ordinamento esiste il divieto di istituzione di giudici straordinari o speciali (Costituzione art. 102) e quindi non appare possibile la presenza di un ‘diritto parallelo’ autorizzato per soddisfare le richieste delle comunità islamiche.

Tuttavia, sembra auspicabile il raggiungimento di una politica comune, da parte dell’Unione Europea, che possa portare a una normativa di carattere generale in materia di libertà religiosa al fine di attuare un modello di integrazione comune.

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (C.E.D.U.) di Strasburgo è stata chiamata a giudicare in merito all’applicazione della sharia. In occasione delle pronunce sul noto caso Refah Partisi (31.07.2001; 13.02.2003 - Gran Camera), la Corte ha dichiarato che i principi iscritti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo non consentono alcun ingresso alla sharia poiché l’ordinamento sciaraitico ha un carattere personale e confessionale, che esproprierebbe il ruolo statale di regolazione della vita sociale, introducendo distinzioni tra gli individui basati sulla religione.

La sharia è dunque contraria al principio irrinunciabile di unità legislativa e giudiziaria dello Stato. In particolare, nella seconda sentenza della Grande Chambre, la Corte ha dichiarato che la sharia è incompatibile con i principi fondamentali della democrazia. Naturalmente, la Corte non intende bandire l’islam dall’Europa, ma sottolinea la necessità di verificare, mediante l’utilizzo del principio di laicità, la compatibilità dei comportamenti imposti dalla sharia con i principi fondamentali che reggono le democrazie europee.

In definitiva, la via da percorrere pare sia proprio quella indicata dalla C.E.D.U., ovvero fare in modo che l’islam possa radicarsi nel contesto laico degli ordinamenti dei Paesi dell’Unione Europea nell’ambito dei quali la religione, pur essendo parte della vita sociale, è allo stesso tempo tenuta distinta da essa. Delicati sono infatti i problemi che nascono da queste nuove dimensioni di convivenza e che si pongono all’attenzione degli organi di governo con sempre maggiore intensità e frequenza. Ci si augura che un punto di incontro si possa trovare. E non solo per il diritto al rispetto della libertà religiosa, ma anche per favorire un giusto modello di integrazione e per contenere le occasioni di violazione delle regole costituzionali del nostro Paese e dei Paesi occidentali in generale.