C’era una volta la Cina (2)

Cina
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I caratteri ideografici erano tradizionalmente apprezzati come massima espressione artistica e nei pressi di parchi pubblici si incontravano anziani che li tracciano sui marciapiedi con pennelli ed acqua, per osservarli evaporare lentamente al sole, come tutte le cose umane.

Di mattina presto nei giardini veniva praticato (lo è tuttora) il “taijiquan”, la lenta lotta contro le ombre, che si manifesta fluida come una danza e mantiene in efficienza ed equilibrio corpo e mente al contempo.

Altra grande passione era l’ascolto del canto degli uccelli, che permetteva una maggiore sintonia con la natura. Le loro eleganti gabbiette, costruite da esperti artigiani, venivano fatte dolcemente dondolare per permettere ai piccoli campioni canori di fare ginnastica sulle zampe.

La gente viveva in una povertà dignitosa ed il massimo desiderio era di poter accedere ad una bicicletta, un televisore, un frigorifero. Per acquistare cibo o vestiario erano in uso tessere annonarie che assicuravano prezzi calmierati, ma per quantità limitate.

Non esisteva varietà di colori nell’abbigliamento, solo abiti tutti uguali grigi, blu o verdi, ma a buon mercato, che consentivano a tutti di avere di che vestire. Le calzature più diffuse erano di pezza di cotone nera. I bimbi piccoli portavano calzoncini con uno spacco dietro, ed erano educati a fare i bisognini accucciandosi, senza necessità di pannolini. Per loro gli adulti costruivano bellissime carrozzine in bambù.

Non c’erano automobili, solo rari taxi o macchine ministeriali. In compenso le strade della capitale erano percorse da fiumi di biciclette, in un fruscio silenzioso. Ci si spostava anche con autobus a due carrozze, spesso guidati da ragazze, mentre da una città all’altra si ricorreva a treni a carbone, con una polvere nera e finissima che all’arrivo ci si accorgeva essere entrata dappertutto, anche sotto gli abiti.

Le abitazioni erano tradizionalmente basse, a forma di U rovesciata e di colore grigio. Al loro interno era un cortile al quale si accedeva dalla porta di ingresso, oltre la quale vi era un muro: evitava che i curiosi sbirciassero dentro, ma anche, secondo la credenza popolare, che gli spiriti maligni (che non sanno deviare direzione, ma solo avanzare diritti) potessero entrare. Il riscaldamento era effettuato mediante mattonelle tonde di polvere di carbone pressato.

Il centro di Pechino era reso unico dalla presenza degli “hutong”, i vicoli nei quali era vivo il tessuto sociale fatto di relazioni e mestieri. Nelle zone più periferiche, dove gli edifici erano più alti, si vedevano canne di bambù sporgere dalle finestre con i panni da asciugare. Rari erano gli alberghi.

Per le donne i tagli di capelli erano limitati alle trecce o al caschetto, mentre il trucco era proibito. Sarebbe stato considerato non appropriato se due giovani innamorati avessero osato camminare tenendosi per mano, non parliamo di effusioni come baci.

Per prendere un taxi si dovevano fornire e registrare le proprie generalità, l’ora e la destinazione; per spostarsi da una città all’altra bisognava ottenere permessi e notificare il proprio arrivo alla polizia. Insomma, tutto doveva essere regolato secondo la morale socialista vigente.

Nei giardini, tuttavia, a volte giovani ragazzi si facevano una foto con occhiali da sole, cravatta ed una valigetta 24 ore in mano, passandosi velocemente questi oggetti presi in prestito da uno all’altro, a testimonianza che, dopo la penuria vissuta, il mito era costituito dall’Occidente.