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C’era una volta l’Africa italiana

Libia
Libia

Il primo lembo d'Africa a divenire italiano fu la baia di Assab, a sud dell'attuale Eritrea, che nel 1869 venne venduta all'esploratore Giuseppe Sapeto dai sultani arabi di Raheida per seimila talleri di Maria Teresa, la moneta all'epoca più diffusa nell'area del Mar Rosso. Un contratto fra privati, dunque, perché Sapeto agiva per conto della compagnia genovese Rubattino, che si occupava di navigazione e commercio di merci e aveva bisogno di una base navale per estendere i propri traffici verso l'oriente. La ratifica del contratto risale all'11 marzo 1870 e fu allora che per la prima volta il tricolore sventolò in terra d'Africa, sia pure per pochissimo: alcuni giorni dopo le truppe egiziane rioccuparono l'area, non riconoscendo l'autorità dei sedicenti sultani locali, la baracca in legno tirata su da Sapeto venne distrutta e la nostra bandiera ammainata.

Il primo vagito del colonialismo italiano fu quindi transitorio e tutt'altro che glorioso, dato che poi bisognò aspettare altri nove anni per arrivare al secondo contratto di acquisto, questa volta spalleggiato ufficialmente dal governo italiano, che fece accompagnare gli emissari di Rubattino da un piccolo corpo di spedizione dell'esercito. Il giorno di Natale del 1879 la baia di Assab divenne italiana e due anni dopo la compagnia genovese la cedette allo Stato italiano al prezzo di 416 mila lire. Con regio decreto del 1° gennaio 1890, firmato da re Umberto I e dal presidente del Consiglio Francesco Crispi, veniva creata la colonia eritrea e cominciava ufficialmente la storia delle colonie italiane in Africa. Fin da subito in contrasto con gli interessi della Gran Bretagna, che avvalendosi dei servigi del governo egiziano spadroneggiava sull'area del Mar Rosso e dell'Africa orientale.

A distanza di 130 anni che cosa resta in Italia di quell'esperienza storica, ma anche umana, militare e culturale, che si chiuse poi ufficialmente il 27 marzo del 1941 con la sconfitta nella sanguinosa ed eroica battaglia di Cheren di fronte alle truppe britanniche? Ben poco, verrebbe da dire dal punto di vista dell'influenza geopolitica, economica e commerciale che l'Italia ha con le sue ex colonie. Molto di più, se invece teniamo conto dell'eredità culturale, architettonica, dello stile di vita e in qualche modo del patrimonio rimasto nella mentalità collettiva, sia italiana, sia delle popolazioni di Eritrea, Somalia, Libia e, in misura molto minore, Etiopia.

In fenomeno coloniale italiano in Africa è durato quindi poco più di mezzo secolo, con durata e intensità molto differenti fra loro: l'Eritrea è stata la “colonia primigenia” e di fatto è stata anche l'ultima a crollare sotto i cingoli dei carri armati britannici a Cheren, dove peraltro pagarono un enorme e valoroso tributo di sangue migliaia di soldati eritrei inquadrati nel Regio Esercito, i famosi ascari. La Somalia diventò colonia italiana nel 1908, mentre la conquista della Libia (occupata dall'Egitto) risale al 1911 e la campagna d'Etiopia iniziò nell'autunno del 1935 con la proclamazione ufficiale dell'impero il 5 maggio del 1936.

E se la “decolonizzazione” avvenne quasi ovunque in contemporanea, con la sconfitta militare della Seconda guerra mondiale, in realtà la presenza italiana non più a livello istituzionale (ma bensì economico, culturale, sociale e anche di appoggio politico) quasi ovunque rimase solida almeno fino ai primi anni Settanta. Poi con l'espulsione degli italiani di Libia ad opera del regime di Gheddafi (1970) e l'avvento al potere dei marxisti del Derg di Menghistu in Etiopia (1974), le forti comunità italiane di Tripoli, Asmara e Addis Abeba furono costrette ad abbandonare case e averi e a rientrare in Italia. Un Paese che molti di loro, italo-africani da generazioni, neppure conoscevano. Una tragedia simile a quella dei pieds-noir francesi cacciati dall'Algeria che, tuttavia, non ha praticamente avuto riscontri sulla società italiana, neppure a livello letterario o cinematografico (fatta eccezione per i romanzi di Erminia Dell'Oro sull'Eritrea e per i gialli di Roberto Costantini, che raccontano di striscio il dramma degli italiani di Libia). Un po' com'era accaduto trent'anni prima ai profughi istriani e dalmati, gli italiani di Libia, Etiopia ed Eritrea rientrarono nell'Italia ideologizzata e rancorosa degli anni Settanta con appiccicata addosso l'etichetta di “colonialisti”, quindi ipso facto di fascisti. E come tali vennero accolti.

Rimase in piedi sino alla fine degli anni Ottanta il forte legame con la Somalia, dove grazie anche al decennio di amministrazione fiduciaria che l'Onu affidò all'Italia (1950-1960) la nostra presenza si consolidò a tutti i livelli: economico, culturale (l'università di Mogadiscio era gestita dagli italiani), sanitario, militare (i cadetti delle forze armate somale venivano da noi a studiare e ad addestrarsi), malgrado alcuni scandali ed episodi di corruzione e malcostume. Poi, nel 1991, con la caduta di Siad Barre e l'inizio di una sanguinosa guerra civile, ci fu l'ultimo esodo degli italiani rimasti in terra africana e i vincoli tra Italia ed Africa orientale cominciarono ad allentarsi.

Di fatto l'Italia si è affacciata al terzo millennio recidendo le radici che l'avevano tenuta aggrappata alle sue colonie africane. Dal 2000 ad oggi i legami già sfilacciati, che avevano resistito all'usura del tempo e della storia, sono diventati sottilissimi fili che tengono più che altro per ragioni di memoria e sentimento. Ma del resto come pretendere di più da un Paese che nell'ultimo ventennio ha completamente abdicato al proprio ruolo internazionale e geopolitico? Come pensare a una sorta di “commonwealth” con popoli che un tempo parlavano italiano e giuravano fedeltà al tricolore se l'Italia non è neppure in grado di tutelare e difendere i propri interessi nazionali oltre le acque territoriali? E talvolta neppure all'interno di esse?

Eppure le premesse ci sarebbero tutte. Anzi, c'erano, perché la Storia galoppa veloce e ormai molte occasioni sono irrimediabilmente perdute. Basta dare un'occhiata all'attuale situazione politica ed economica delle nostre ex colonie per capire che sarebbe comunque difficile riannodare i fili del passato. Addirittura impossibile, con questa classe politica. Della Libia sappiamo tutto o quasi: dalla caduta di Gheddafi, propiziata da una manovra anglo-francese spudoratamente anti-italiana, la nostra influenza su quel Paese è di fatto ridotta a zero, tanto da dover assistere alla pietosa passerella pre-natalizia di Conte e Di Maio per andare a recuperare i pescatori siciliani sequestrati per tre mesi dal generale Haftar. Non è il caso di soffermarsi più di tanto: dall'imbarazzante giravolta del governo Berlusconi nel 2011 (ricordate i precedenti baciamano, la tenda beduina a Roma e il trattato di amicizia fra i due Paesi?) in poi, nei confronti della Libia Roma non ne ha più azzeccata una, talvolta per incapacità di chi sedeva a Palazzo Chigi e alla Farnesina, spesso per intrinseca debolezza.

La Somalia è da quasi trent'anni un buco nero nel quale si agitano clan tribali, gruppi terroristici islamici e faccendieri di mezzo mondo; e la presenza italiana, dopo la poco brillante partecipazione all'operazione “Restore Hope” del 1993, si è ridotta a un centinaio di uomini che rientrano nei programmi internazionali di addestramento delle forze armate somale e nell'attività anti-pirateria nell'oceano Indiano. Oltre al fondamentalismo islamico, sulla nostra ex colonia è da tempo in atto la penetrazione economica e commerciale cinese e persino della Turchia di Erdogan. La presenza di aziende italiane è sporadica e promossa da iniziative delle varie camere di commercio, quindi del tutto aliena da una strategia nazionale.

Più o meno quel che accade in Etiopia ed Eritrea, un'area dove negli ultimi dieci anni l'influenza cinese si è fatta più forte e l'arretramento dell'Italia è evidente sono solo in campo economico: è di un paio di mesi fa la notizia della chiusura della storica Scuola italiana di Asmara, fondata nel 1903, un istituto prestigioso nel quale ancora studiavano un migliaio di allievi, di cui solo il dieci per cento italiani. Le colpe non sono solo nostre, se è vero che ai tagli dei fondi italiani si sono affiancate certe resistenze del governo eritreo, che non ha rinnovato la licenza statale. Tuttavia è un segno tangibile dell'arretramento strategico dell'Italia nel Corno d'Africa, persino nel Paese dove sono più forti i legami culturali e sentimentali.

Da tre anni Asmara, la “piccola Roma”, è stata dichiarata città patrimonio dell'Unesco, ma al di là di alcuni articoli sui giornali e qualche servizio in tivù, non ci sono state altre manifestazioni di interesse. Eppure Asmara è patrimonio anche nostro, prima di tutto nostro: sia detto senza revanchismo né nostalgie coloniali. È una città italiana sin dalla sua fondazione, è stata il manifesto e il fiore all'occhiello dell'architettura e dell'urbanistica razionalista degli anni Trenta e gli eritrei hanno avuto l'intelligenza e la saggezza di conservarla così com'era, sentendola come una risorsa nazionale e non come un'imposizione straniera.

Intorno a un progetto globale su Asmara come fulcro dell'architettura e dell'urbanistica del Novecento andrebbe incentrata una nuova e più attiva presenza italiana in Eritrea, che parta dalla cultura e si estenda poi al turismo, all'economia, alle relazioni commerciali. E di lì, data la recente ripresa dei rapporti fra i due Paesi, estendersi anche alla vicina Etiopia, un colosso che rappresenta un mercato emergente di cento milioni di persone, oltreché una potenza regionale di primo piano. Qualcuno ci penserà? Sperare è lecito, dubitare è d'obbligo, visti gli ultimi vent'anni di nulla assoluto in materia di politica estera nazionale.

Se non altro possiamo ancora andare con il pensiero a tutto ciò che hanno rappresentato le colonie africane nel nostro immaginario collettivo del passato, nel bene e nel male. Alle sfolgoranti immagini pubblicitarie degli anni Trenta sui prodotti coloniali, alle canzonette che hanno segnato l'epoca dei nostri nonni e bisnonni, ai film in bianco e nero che mostravano a un popolo di contadini che non aveva mai viaggiato che esistevano Paesi straordinari al di là del mare. E alla “via italiana al colonialismo”, che a differenza di analoghe esperienze avviate in precedenza da Francia, Gran Bretagna e Belgio, non si limitava a conquistare e depredare un Paese africano ma “pretendeva” di riprodurvi la nostra civiltà, fecondandola con il lavoro di centinaia di migliaia di “coloni”. Fermo restando che il fenomeno fu tutt'altro che rose e fiori, soprattutto nella sanguinosa e feroce guerra con l'Abissinia di Hailé Selassié e nella successiva repressione dei patrioti etiopi e del clero copto che li appoggiava. Ma come spesso capita in Italia, anziché fare serenamente i conti col passato c'è chi preferisce rimuoverlo.