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Certificati casellario giudiziale e carichi pendenti: quando il datore di lavoro non può richiederli al lavoratore

datore di lavoro
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Indice:         

1. Introduzione sul certificato generale del casellario giudiziale e sui carichi pendenti

2. Il certificato generale del casellario giudiziale: cos’è, quanto costa e dove richiederlo

3. Il certificato dei carichi pendenti: cos’è, quanto costa e dove richiederlo

4. Quando il datore di lavoro NON può richiedere tali certificati ai propri dipendenti o aspiranti tali

 

1. Introduzione sul certificato generale del casellario giudiziale e sui carichi pendenti

Prassi alquanto diffusa ma, spesso, inopportuna oltre che potenzialmente illecita, è quella di richiedere ai propri dipendenti, o aspiranti tali, il certificato generale del casellario giudiziale, nonché il certificato dei carichi pendenti, onde appurare che quanti lavorano per noi o per la nostra azienda siano persone “serie”, “corrette” e soprattutto “affidabili”.

 

2. Il certificato generale del casellario giudiziale: cos’è, quanto costa e dove richiederlo

Al fine di meglio comprendere di cosa stiamo parlando, è bene chiarire cosa debba intendersi per “certificato del casellario giudiziale” e cosa per “certificato dei carichi pendenti”.

Come chiarito dal Ministero della Giustizia, il certificato del casellario giudiziale “contiene i provvedimenti in materia penale, civile e amministrativa (i provvedimenti penali di condanna definitivi e i provvedimenti afferenti all’esecuzione penale, i provvedimenti relativi alla capacità della persona – interdizione giudiziale, inabilitazione, interdizione legale, amministrazione di sostegno – i provvedimenti relativi ai fallimenti – i quali non sono più iscrivibili dal 1°gennaio 2008 – i provvedimenti di espulsione e i ricorsi avverso questi)”.

Salvo ricorra uno dei casi particolari previsti dalla legge (per esempio, quando necessario nell’ambito di una controversia di lavoro - cfr. D.P.R. 642/72, Tabella B), il certificato del casellario non è gratuito: per ottenerlo si pagano €3,87= per diritti di certificato (D.M. 04 luglio 2018), oltre a bolli per €16,00= ogni 2 pagine (l. 71/2013).

Poiché, però, il certificato non è disponibile immediatamente all’atto della richiesta, essendo necessari alcuni giorni per la sua emissione, laddove il richiedente ne avesse bisogno immediatamente, sarà per lui necessario aggiungere ulteriori €3,87= per diritti d’urgenza (D.M. 04 luglio 2018). Il certificato è rilasciato dagli uffici locali del casellario, siti presso ogni Procura della Repubblica.

 

3. Il certificato dei carichi pendenti: cos’è, quanto costa e dove richiederlo

Se il certificato generale del casellario giudiziale è in genere richiesto per appurare che un dato soggetto non abbia riportato condanne penali passate in giudicato, il certificato dei carichi pendenti si richiede per sapere se quel dato soggetto ha attualmente in corso procedimenti penali non ancora definiti.

Anche per il certificato dei carichi pendenti valgono i medesimi costi e le medesime esenzioni viste per il certificato del casellario giudiziale.

Il certificato dei carichi pendenti è rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale avente giurisdizione nel luogo di residenza del soggetto a cui si riferisce il certificato.

Come chiarito dal Ministero della Giustizia, “il certificato è rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale che ha giurisdizione sul luogo di residenza dell’interessato e riporta i procedimenti pendenti presso detto ufficio nonché quelli in corso presso le procure distrettuali antimafia (“DDA”), di cui ha ricevuto comunicazione. Non sussistono comunque divieti al rilascio da parte di una Procura diversa da quella di residenza, in tal caso il certificato riporterà i soli procedimenti pendenti presso il relativo Tribunale”.

 

4. Quando il datore di lavoro NON può richiedere tali certificati ai propri dipendenti o aspiranti tali

Con riferimento alla possibilità per il datore di lavoro di richiedere il certificato del casellario e quello dei carichi pendenti ai propri dipendenti o aspiranti tali, rilevano due distinte questioni.

A. La qualificazione del datore di lavoro

La prima questione attiene alla qualificazione del datore di lavoro: laddove, infatti, tale soggetto fosse una Pubblica Amministrazione oppure un “Privato gestore di pubblico servizio” (articolo 40, D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), non vi sarebbe la possibilità né per lui di richiedere detti certificati, né per il dipendente (o potenziale tale) di produrli a tale soggetto.

In questi casi, infatti, è possibile richiedere e presentare unicamente delle dichiarazioni c.d. “sostitutive”, procedendo poi il datore di lavoro alla verifica delle dichiarazioni stesse, senza alcun costo per la parte dichiarante.

Non a caso, infatti, ai sensi dell’articolo 40 del D.P.R. 445/2000 (come modificato dall’articolo 15, co. 1, lett. a) della l. 183/2011), nei certificati del casellario giudiziale e dei carichi pendenti viene apposta, a pena di nullità, la dicitura: “A partire dal 1° gennaio 2012 il presente certificato non può essere prodotto agli organi della pubblica amministrazione o ai privati gestori di pubblici servizi (Articolo 40 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445)”.

B. La sussistenza di una base giuridica idonea al trattamento di dati personali relativi a condanne penali e reati, ai sensi del Regolamento (UE) 2016/679 - GDPR

La seconda questione attiene alla liceità del trattamento di dati personali, nella specie, dati personali relativi a condanne penali e reati, di cui all’articolo 10 del GDPR.

Sul punto, l’Autorità garante per la protezione dei dati personali ha precisato (da ultimo, Provv. Garante del 22 maggio 2018, n° 314) che il datore di lavoro può richiedere tali certificati solo ove sussista ”un’idonea base giuridica (legislativa o regolamentare)”, valutando se “risultano applicabili al caso concreto disposizioni dell’ordinamento che prevedano il trattamento dei dati giudiziari dei dipendenti in relazione alle attività svolte dalla società (analogamente a quanto espressamente previsto dal legislatore per determinate attività; v. ad es.: articolo 25-bis, D.P.R. 14.11.2002, n. 313 in relazione allo svolgimento di attività professionali o volontarie organizzate che comportino contatti diretti e regolari con minori; articolo 76, d. lgs. 7.9.2005, n. 209 e succ. mod. e D.M. 11.11.2011, n. 220 con riferimento ai soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione e di controllo presso le imprese di assicurazione e di riassicurazione; D.M. 29.7.2015, articolo 2, comma 4, con riferimento ai dipendenti del titolare di un’autorizzazione generale nel settore postale)”.

Inoltre, il Garante privacy ha tenuto a precisare che persino “il rinvio al contratto collettivo nazionale di lavoro” può non essere “idoneo, parimenti, a costituire nel caso specifico adeguata base giuridica del trattamento, alla luce di quanto stabilito dalla richiamata disciplina europea di [al tempo, ndr] imminente piena applicazione nell’ordinamento; in ogni caso la citata disciplina, espressione dell’autonomia collettiva, appare generica laddove si limita a prevedere la possibilità di acquisire dati giudiziari indipendentemente dal tipo di mansioni svolte dal dipendente (pur con riferimento ad un comparto assai vasto e variegato quanto alla tipologia di attività ivi ricomprese)”.

Sempre il Garante privacy ha affermato poi che il datore di lavoro deve comunque individuare “tassativamente e in applicazione del principio di indispensabilità il novero delle fattispecie al ricorrere delle quali ritenere il lavoratore inidoneo allo svolgimento di determinate attività.

In aggiunta a quanto sopra, occorre qui precisare che anche la giurisprudenza di legittimità (da ultimo, Cass. Civ., Sez. Lav., Sentenza 17 luglio 2018, n. 19012) è intervenuta sul punto, addirittura ponendo un limite ben preciso all’interpretazione della normativa che – diremmo  oggi – può essere richiamata quale base giuridica legittimante il trattamento di dati personali relativi a condanne penali e reati e, dunque, al trattamento relativo ai certificati di cui si tratta.

Nello specifico, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato un ricorso di Poste Italiane, la quale sosteneva che “l’espressione ‘certificato penale’ di cui al [CCNL di riferimento, ndr] debba essere intesa in senso ampio, comprensiva anche del certificato dei carichi pendenti perché la ratio della norma è quella di garantire il datore di lavoro nella fase dell’assunzione e rileva che la certificazione negativa dei carichi pendenti è un documento dal quale la società, per l’importanza dell’attività che svolge, non può prescindere”.

Nel precisare la ratio del rigetto di tale interpretazione, la Cassazione ha chiarito che “la richiesta del certificato penale (di cui al CCNL, ndr) integra un limite rispetto alla previsione di cui all’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori (‘è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi (...) su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore’), che si giustifica con la rilevanza ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore della conoscenza di date informazioni relative all’esistenza di condanne penali passate in giudicato. Tale limite, in assenza di espressa previsione contrattuale, non può essere dilatato per via interpretativa fino a ricomprendere informazioni relative a procedimenti penali in corso[...], ciò specie in considerazione del principio costituzionale della presunzione d’innocenza. Peraltro, nella specie, la Corte territoriale, non si è limitata al dato letterale, ma ha correttamente escluso la possibilità di ricomprendere tra i documenti da presentare ai fini dell’assunzione anche il certificato dei carichi pendenti evidenziando che il solo status di imputato (e cioè di soggetto che si sia venuto a trovare ad avere un procedimento penale pendente a suo carico) non è previsto nel medesimo c.c.n.l. quale motivo di giusta causa di licenziamento il che renderebbe incongrua una previsione che, invece, interpretata nel senso prospettato dalla società, attribuisca rilevanza a tale status al momento dell’assunzione”.