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Infortunio sul lavoro: per ottenere il “danno differenziale” è valido il fatto accertato in sede civile

Casa rossa Castiglione della Pescaia -Riserva naturale Diaccia Botrona
Ph. Maria Cristina Sica / Casa rossa Castiglione della Pescaia -Riserva naturale Diaccia Botrona

Indice

1. La vicenda e il danno differenziale

2. Il significato giuridico del “danno differenziale” e il definitivo superamento della pregiudizialità del giudicato penale

 

1. La vicenda e il danno differenziale

Nell’ambito di un giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione per l’impugnativa di una sentenza di appello con la quale, tra l’altro, erano state accolte la domanda di regresso proposta dall’INAIL a fronte del danno da infortunio sul lavoro occorso ad un dipendente nonché quella di quest’ultimo di pagamento delle somme dovutegli a titolo di “danno differenziale”, si denunciava, con ricorso incidentale, la violazione dell’articolo 7 comma 3-bis della Legge n. 123 del 2007, nonché degli artt. 10 e 11 del T.U. n. 1124 del 1965 e dell’articolo 2059 Codice Civile per avere la Corte territoriale riconosciuto detto “danno differenziale” nonostante fosse mancata qualunque condanna in sede penale per l’infortunio e il danno biologico fosse già stato liquidato dall’INAIL.

La Corte Suprema (Sezione Lavoro - Sentenza n. 7477 dell’8 marzo 2022), invece, sullo specifico punto dichiarava infondato il ricorso incidentale proposto ritenendo valido e regolare l’accertamento del fatto lesivo costituente l’infortunio sul lavoro eseguito dal giudice civile, senza la necessità di un preventivo giudicato penale.

 

2. Il significato giuridico del “danno differenziale” e il definitivo superamento della pregiudizialità del giudicato penale

Con questa interessante sentenza la Corte di Cassazione interviene efficacemente ad ulteriore chiarimento di un dilemma giuridico e processuale che, in materia di risarcimento del danno da infortunio sul lavoro, evidentemente ancora oggi viene dibattuto nelle nostre aule di giustizia.

Intendiamo più esattamente riferirci ai presupposti di accertamento del c.d. “danno differenziale”, come è noto comunemente inteso come quella voce di danno determinata dalla differenza tra la capitalizzazione di quanto corrisposto dall’INAIL a titolo di rendita e/o indennizzo e quanto complessivamente spettante al soggetto infortunato per danno civilistico, ivi compreso l’incremento percentuale di legge o di prassi a titolo di personalizzazione dello stesso danno.

Detto danno è infatti costituito, in concreto,

dal danno biologico (inferiore alla percentuale del 6%), quale risarcimento per la lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore,

dal danno patrimoniale, quale ristoro delle spese e dei costi sostenuti dal lavoratore nonché del mancato guadagno da questi subito,

dal danno morale (Cass. n. 2228/2012), conseguente al turbamento dello stato d’animo venutosi a determinare in capo al dipendente e

dal danno esistenziale (Cass. n.14402/2011), quale pregiudizio sofferto sempre dal lavoratore tale da averne alterato le abitudini e gli assetti relazionali al punto da averne peggiorato sensibilmente la qualità della vita (vedi per tutte Cass. Sezioni Unite, sentenza n. 13546 del 12 giugno 2006).

Come possiamo vedere, si tratta, in ogni caso, di termini e concetti giuridici ben noti in materia di infortunistica sul lavoro e non solo, variamente esaminati ed elaborati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità nel corso del tempo, ma che comunque, almeno con riferimento alla problematica specifica in esame, evidenziano la rilevanza giuridica e sostanziale che tale danno assume nella generale considerazione del pregiudizio subito dal lavoratore infortunato.

In argomento, deve anzitutto rilevarsi il recente intervento normativo avutosi con la Legge di Bilancio del 2019 ed il Decreto Legge n. 34 del 2019 che hanno introdotto alcune fondamentali previsioni in materia, andando in particolare a modificare l’articolo 10 del D.P.R. n. 1124/1965 (Testo Unico sull’assicurazione degli infortuni sul lavoro) che, ai commi 6, 7 e 8, testualmente così recita: Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell’indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai  suoi  aventi diritto. Quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità’ liquidate a norma degli articoli 66 e seguenti. Agli effetti dei precedenti commi sesto e settimo l’indennità d’infortunio è rappresentata dal valore capitale della rendita liquidata, calcolato in base alle tabelle di cui all’articolo 39”.

Per completezza espositiva, vi è altresì da rammentare che, almeno fino all’introduzione del Decreto Legislativo n. 38 del 23 febbraio 2000 (“Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144”) l’Istituto in parola ha sempre ritenuto di riconoscere come indennizzabile la sola perdita della capacità lavorativa, escludendo dunque tutti quei danni alla salute di natura esistenziale, relazionale ed estetica che, invece, sono stati poi ricompresi, proprio grazie al predetto Decreto Legislativo, nel più ampio concetto giuridico di “danno biologico” e, quindi, in una più generalizzata concezione della tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore.

Successivamente, peraltro, anche con questa decisiva apertura legislativa, l’Inail, pur adeguandosi alla mutata disciplina, di fatto ha proseguito nell’indennizzare solo una parte di tutte le conseguenze lesive di un infortunio o di una malattia professionale, al punto da indurre il lavoratore a rivolgersi al datore di lavoro, ovvero agli altri soggetti responsabili dell’evento, per ottenere il risarcimento di questo danno, chiamato per ciò stesso “differenziale”.

Anche la trattazione processuale di tale problematica, oltretutto, non è stata mai esente da contrasti interpretativi, come del resto confermato proprio dalla sentenza oggi in commento, soprattutto con riguardo alla determinazione del presupposto, per così dire processuale, attraverso il quale giungere all’accertamento ed alla liquidazione di questo danno, generalmente fondata sull’asserzione di una violazione dell’articolo 7 comma 3-bis della Legge n. 123 del 2007 nonché degli artt. 10 e 11 del citato T.U. n. 1124 del 1965 e finanche dell’articolo 2059 c.c. per la rilevata assenza, in questi casi, di una preventiva condanna penale per l’infortunio occorso.

I detrattori della tesi prevalente, oggi per l’ennesima volta ribadita dalla Corte di Cassazione, si rifanno al dato testuale citato articolo 10 che ai suoi commi 2 e 3 dispone che “permane la responsabilità civile a carico di coloro che abbiano riportato condanna penale per il fatto dal quale l’infortunio è derivato. Permane, altresì, la responsabilità civile del datore di lavoro quando la sentenza penale stabilisca che l’infortunio sia avvenuto per fatto imputabile a coloro che egli ha incaricato della direzione o sorveglianza del lavoro, se del fatto di essi debba rispondere secondo il Codice civile”.  

A giudizio di tali interpreti, dunque, il riferimento esplicito ed esclusivo del Legislatore alla “condanna penale” ed alla “sentenza penale” farebbe ritenere necessario l’accertamento del fatto lesivo in sede penale per poter esso costituire il fondamento della successiva determinazione del c.d. “danno differenziale”.

La Cassazione, invece, da tempo ormai ha disatteso questa posizione ermeneutica estremamente rigida e formale ma, si badi bene, essa ciò ha fatto sulla base di un illuminato ripetuto intervento della Corte Costituzionale che già con le sentenze n. 102 del 1981 e n. 118 del 1986 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 10 comma 5 del citato T.U. n. 1124 del 1965 nella parte in cui non consentiva che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL o del risarcimento del danno differenziale in favore del lavoratore infortunato, l’accertamento del fatto di reato potesse essere compiuto dal giudice civile.

Più concretamente, con la sentenza n. 102 del 1981 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del citato articolo 10 comma 5 “nella parte in cui non consente che, ai fini dell’esercizio del diritto di regresso dell’INAIL, l’accertamento del fatto reato possa essere compiuto dal giudice civile anche nei casi in cui il procedimento penale nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi sia provvedimento di archiviazione” nonché delle norme interessate “nella parte in cui precludono al giudice civile di valutare i fatti dinanzi a lui dedotti in maniera diversa da quella ritenuta in sede penale, anche nei confronti del datore di lavoro che non sia stato posto in condizioni di partecipare al relativo procedimento”.

La successiva sentenza n. 118 del 24-30 aprile 1986 (in G.U. 07.05.1986 n. 20) ha poi esteso questa declaratoria di illegittimità anche ai casi in cui il procedimento penale, avviato nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, si sia concluso con un provvedimento di archiviazione o proscioglimento in sede istruttoria e con la sentenza n. 372 del 1988 si perviene alla definitiva affermazione che pure il diritto di regresso dell’Inail prescinda “dalla sorte contingente del procedimento penale”.

Effettivamente, la disposizione di cui al comma 5 dell’articolo 10 si prestava necessariamente ad una sua rivisitazione poiché essa nel prescrivere che “Qualora sia pronunciata sentenza di non doversi procedere per morte dell’imputato o per amnistia, il giudice civile, in seguito a domanda degli interessati, proposta entro tre anni dalla sentenza, decide se, per il fatto che avrebbe costituito   reato, sussista la responsabilità civile a norma dei commi secondo, terzo e quarto del presente articolo “, sembrava delimitare l’intervento accertativo del giudice civile in materia alle sole due tipologie di sentenza penale sopra indicate.

I Giudici di legittimità, invece, alla luce anche di questi rilevanti interventi costituzionali, opportunamente oggi sottolineano come il giudicato civile sia a tutti gli effetti valido ed efficace, in luogo di quello penale, ai fini dell’accertamento “dei presupposti del regresso o dell’azione risarcitoria secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso e a tale proposito riprendono il proprio conforme e più recente orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 12041 del 2020 e da ultimo anche sentenza della stessa Sezione Lavoro n. 7471 dell’08 marzo 2022).

Gli stessi Giudici, inoltre, sostanziano la propria decisione anche sulla rilevata “diversità strutturale e funzionale tra la prestazione ai sensi del Decreto Legislativo n. 38 del 2000, ex articolo 13, ed il risarcimento del danno secondo i criteri civilistici”, tale da non consentire di ritenere che le somme versate dall’istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, anche in questo caso rifacendosi sempre a propri analoghi precedenti (Cass. n. 9116 del 2019) ed escludendo del tutto il rischio, paventato dal soggetto ricorrente, che in tal modo si possa determinare una presunta sovrapposizione di poste risarcitorie simili.

Si tratta, dunque, di un indirizzo, certamente condivisibile, che conferisce rilevanza giuridica all’accertamento, anche incidentale, che in sede civile venga operato del fatto che costituisca reato, dal momento che la Corte sottolinea in proposito come lo stesso debba essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso, senza dunque la richiesta assoluta necessità di un giudicato penale.

Peraltro, questa interpretazione ermeneutica ci appare assolutamente coerente con i fondamentali principi di diritto che sostanziano l’equivalenza tra azione civile ed azione penale e che, naturalmente, fatti salvi i casi eventualmente previsti dalla legge, escludono di massima la vincolatività preventiva del processo penale come presupposto indefettibile per l’esercizio di un proprio diritto risarcitorio.

Oltretutto, la rilevata necessità, ricordata non a caso anche dalla Corte Suprema, che il fatto determinante l’evento lesivo sia accertato, anche solo dal giudice civile e persino in maniera del tutto incidentale, “secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale” conforta adeguatamente sulla rispondenza di tali presupposti processuali rispetto ad un giudicato penale che, per le sue implicite conseguenze personali, potrebbe apparire maggiormente puntuale, completo, rispettoso delle prerogative del soggetto obbligato al risarcimento del danno.

La posizione, però, volutamente assunta sul tema dalla Corte di Cassazione emerge, in termini molto più chiari e completi rispetto a quelli di cui alla pronuncia oggi in commento, nella recentissima e conforme sentenza sempre della sua Sezione Lavoro n. 7390 del 07 marzo 2022, con la quale gli Ermellini ribadiscono come l’accertamento della responsabilità del datore di lavoro con criteri di tipo civilistico sia perfettamente rispondente al proprio consolidato orientamento (Cass. n. 9166/2017; Cass. n. 27699/2017; Cass. n. 12041/2020; Cass. n. 17655/2020).

Più concretamente, in questa del pari recentissima sentenza viene evidenziato come “da una panoramica complessiva del sistema normativo vigente e della giurisprudenza costituzionale sul tema dei rapporti tra giudizio civile e penale emerge come l’attuale sistema si caratterizzi per la pressoché completa autonomia e separazione tra i due giudizi, per cui il giudizio civile inizia e procede senza essere condizionato da quello penale”, al punto da decretare sostanzialmente la fine della pregiudizialità penale (anche in sede di legittimità è pacifico che l’Istituto non debba necessariamente attendere l’instaurazione o l’esito del giudizio penale – vedi per tutte Cass. n. 9601 del 2001 e Cass. n. 5578 del 2003).

La Corte poi opportunamente ci ricorda come “questo progressivo percorso di autonomizzazione del giudizio civile da quello penale è culminato con l’adozione del nuovo codice di procedura penale, che ha abbandonato il principio di unità della giurisdizione e di prevalenza del giudizio penale, in favore di quello della parità dei diversi ordini giurisdizionali e della loro reciproca indipendenza, soprattutto a seguito della modifica dell’articolo 295 c.p.c., che ha limitato i casi di sospensione necessaria alle ipotesi previste dall’articolo 75 c.p.p., comma 3, da interpretarsi restrittivamente, stante il favore per la separazione dei giudizi con implicita accettazione del rischio di giudicati difformi”.

Da quanto si legge, dunque, emerge chiaramente come in tal modo si voglia tutelare prioritariamente l’esigenza di assicurare alla vittima dell’infortunio, per quei profili non coperti da indennizzo, un’integrale riparazione del danno alla persona subito, con conseguente superamento del dato meramente testuale rinvenibile, come è noto, al comma 2 dell’articolo10 del D.P.R. n. 1124 del 1965 e, segnatamente, alla locuzione “condanna penale” in essa contenuta.

Dall’evoluzione, normativa ma soprattutto giurisprudenziale anche di livello costituzionale, che nel tempo si è avuta al riguardo, risulta evidente come questa formulazione, sebbene ancora oggi presente nella norma in parola, abbia perduto completamente la sua valenza prescrittiva non solo, e non tanto, perché appunto sostituita nella pratica giudiziale dall’accertamento, in sede civile, del fatto che costituisce reato, ma soprattutto perché essa si è dimostrata ormai inadatta ad assolvere alla sua primigenia funzione di disciplinare i rapporti di un pregiudiziale e prevalente procedimento penale rispetto a quello civile.

La conclusione cui perviene la Cassazione è rispondente a questi principi e muove dal fatto che l’esercizio del potere giudiziario e dibattimentale rimesso al giudice civile, sotto un profilo squisitamente probatorio, non ha nulla di diverso rispetto a quello eventualmente svolto dal Collega penale, per cui laddove in sede civile il fatto lesivo costituente reato venga accertato secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in relazione all’elemento soggettivo della colpa e al nesso causale fra lo stesso fatto e l’evento dannoso, ben può ritenersi integrata, ad un tempo, sia l’illiceità penale di esso fatto come prescritta dall’articolo 10 T.U., che la sussistenza dei requisiti di legge occorrenti per la liquidazione del “danno differenziale”.

Ancora una volta, dunque, ritorna in auge la centralità assoluta della sicurezza del lavoro e sul lavoro, come prospettiva giuridica da assicurare e valore costituzionale da proteggere in una alla vita ed all’incolumità fisica dei lavoratori, per cui emblematica diverta l’asserzione della Corte nel ritenere, a nostro parere in maniera corretta, che “laddove vi sia la violazione dell’articolo 2087 Codice Civile è sempre astrattamente configurabile un fatto di reato”!