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Docente didatticamente incapace: natura della dispensa dal servizio

Analisi della recente pronuncia della Cassazione 6742/2022 e della triplice tipologia di risoluzione del contratto del docente
DOCENTE
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Docente didatticamente incapace: natura della dispensa dal servizio


Abstract

La vicenda che ci occupa nasce dall’impugnativa della sentenza di appello con la quale era stata rigettata, anche in secondo grado, la domanda, proposta da un docente nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nonché dell’Ufficio Scolastico Regionale e dell’Istituto Superiore d’istruzione Statale competenti, al fine di ottenere l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento del Dirigente Scolastico di dispensa dal servizio ex art. 512 del D.Lgs. n. 297/1994 e la conseguente richiesta di condanna alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro ed al risarcimento dei danni.

La Corte Suprema (Cassazione Civile – sentenza n. 6742 del 1° marzo 2022), invece, su detto specifico punto ha dichiarato infondato il ricorso proposto affermando la piena regolarità della dispensa dal servizio disposta dal Dirigente Scolastico.

La Corte Suprema, dunque, anche nella sentenza oggi in esame riconferma questa impostazione di fondo, ribadendo la sussistenza di questa triplice tipologia di risoluzione del contratto del docente e sottolineandone opportunamente i dati distintivi, per cui se l’accertata inidoneità fisica dell’insegnante presuppone l’impossibilità, assoluta o relativa, allo svolgimento delle mansioni derivante, purtroppo, proprio dalle precarie sue condizioni di salute psico-fisica, la “incapacità didattica” propriamente intesa dello stesso lo rende non idoneo alla sua funzione individuandone la causa testualmente nella “inettitudine assoluta e permanente a svolgere le mansioni inerenti l’insegnamento … che deriva da deficienze obiettive, comportamentali, intellettive o culturali, che solo come conseguenza inducono prestazioni insoddisfacenti”.

In sintesi, dunque, per gli Ermellini questa seconda fattispecie, al pari della “inidoneità fisica”, non dipenderebbe da cause volontarie, che per intenderci sono quelle che invece contraddistinguono la terza ipotesi dello “scarso rendimento”, ma piuttosto da fatti oggettivi o, per meglio dire, quasi incontestabili nel loro divenire, al punto da privare il docente di qualsivoglia possibilità di ribaltamento del giudizio negativo sul suo operato.

Il che, sinceramente, ci sembra una autentica anomalia giuridica!

Il ragionamento, infatti, seguito dai Giudici di legittimità è, almeno sotto un profilo squisitamente contenutistico, quanto mai chiaro: solo per l’ipotesi di “scarso rendimento” è lecito porre una questione di compatibilità della normativa dettata dal D.Lgs. n. 297/1994 con i principi generali regolanti il procedimento disciplinare.

Al contrario, secondo la Corte Suprema la fattispecie della “incapacità didattica” non discende da comportamenti colpevoli dell’insegnante e, pertanto, non implica una responsabilità di quest’ultimo né postula un giudizio di proporzionalità della sanzione applicabile.

A nostro avviso, quindi, probabilmente è giunto il momento che la “incapacità didattica” del docente, quale causa specifica di risoluzione del contratto lavorativo, si riconduca finalmente nell’alveo delle cause da procedimento disciplinare e, di conseguenza, assuma la natura di condizione soggettiva dell’insegnante suscettibile sì di valutazione da parte dell’Amministrazione scolastica, come del resto connaturato ad ogni rapporto di lavoro, ma non più arbitrariamente sottratta al potere valutativo, anche difforme, degli organi giudiziari.

In conclusione, riteniamo non si possa sfuggire più dalla individuazione della “incapacità didattica” come un vero e proprio “ibrido giuridico” e, dunque, una fattispecie pericolosamente ancora a metà tra le anzidette due altre ipotesi di risoluzione del contratto del docente, e pensiamo che per far sì che anche essa riceva quella tutela costituzionalmente garantita, a dispetto di un testo normativo ancora legato ad un dato testuale eccessivamente rigoroso e di una giurisprudenza di legittimità tuttora orientata a farlo rispettare, le si debba riconoscere la natura sanzionatoria e disciplinare in essa connaturata ponendo fine ad una assurda presunta oggettivizzazione del giudizio negativo che stride con ogni fondamentale regola del diritto.


La vicenda

La vicenda che ci occupa nasce dall’impugnativa della sentenza di appello con la quale era stata rigettata, anche in secondo grado, la domanda, proposta da un docente nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nonché dell’Ufficio Scolastico Regionale e dell’Istituto Superiore d’istruzione Statale competenti, al fine di ottenere l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento del Dirigente Scolastico di dispensa dal servizio ex art. 512 del D.Lgs. n. 297/1994 e la conseguente richiesta di condanna alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro ed al risarcimento dei danni.

Il docente, invero, ha ritenuto la sentenza impugnata emessa in violazione del diritto al contraddittorio e di difesa del lavoratore nonché delle primarie garanzie procedimentali, rilevando in proposito che, sebbene il procedimento di dispensa dal servizio non preveda l’audizione dell’insegnante, tuttavia la Corte territoriale avrebbe dovuto fornire delle norme applicate un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto del predetto principio del contraddittorio e, di conseguenza, rifarsi alle disposizioni che regolano il procedimento disciplinare.

La Corte Suprema, invece, su detto specifico punto ha dichiarato infondato il ricorso proposto affermando la piena regolarità della dispensa dal servizio disposta dal Dirigente Scolastico.


La “incapacità didattica” del docente ed i suoi presupposti normativi

La recente e molto interessante sentenza della Corte di Cassazione oggi in commento ci permette di approfondire, sia pure in un settore molto specifico quale è appunto quello del comparto Scuola, l’istituto, particolarmente discusso, della dispensa dal servizio per “incapacità didattica” del docente.

Intanto è a dirsi che la locuzione “incapacità didattica”, nel suo significato propriamente semantico, lascia intravedere un sotteso giudizio negativo per le competenze professionali e di insegnamento del docente, quasi che tale incapacità derivi, ex se, unicamente da una lacunosa, o addirittura del tutto mancante, predisposizione dell’insegnante alla didattica ed alla trasmissione dei contenuti di insegnamento che della professione del docente rappresenterebbero i presupposti indefettibili.

In realtà, dalla lettura delle disposizioni normative che disciplinano la materia emerge chiaramente come non sia propriamente così, dal momento che, quanto meno in linea generale, essa rappresenta solo una delle tre diverse ipotesi, certamente la meno chiara e dunque la più controversa, di risoluzione del rapporto di lavoro del docente.

Le norme di riferimento di questa problematica sono infatti contenute nell’art. 129 del DPR n. 3/1957 (“può essere dispensato dal servizio l’impiegato [...] che abbia dato prova di incapacità o di persistente insufficiente rendimento [...]. All’impiegato proposto per la dispensa dal servizio è assegnato un termine per presentare, ove creda, le proprie osservazioni”) e, soprattutto, per quanto riguarda il comparto Scuola, negli artt. 512 e 513 del D.Lgs. n. 297/1994 nella primigenia loro elaborazione (“il personale di cui al presente titolo è dispensato dal servizio per inidoneità o incapacità o persistente insufficiente rendimento [...]. I provvedimenti di dispensa sono adottati dal provveditore agli studi, sentito il consiglio scolastico provinciale”).

Con queste ultime disposizioni, invero, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 14 del DPR n. 275/1999 il provvedimento in questione è divenuto ormai di esclusiva competenza del Dirigente Scolastico, per quanto sia logico ritenere che questi, nell’adottarlo, non possa comunque prescindere da una necessaria logica di progressività nella sua definitiva inflizione.

In realtà, quest’ultima precisazione non è supportata da alcuna prescrizione normativa, dal momento che è previsto, soprattutto a livello di circolari ministeriali del settore, che esso Dirigente Scolastico nel solo caso di inidoneità del docente per “scarso rendimento” sia tenuto a seguire la nuova procedura relativa ai procedimenti disciplinari descritta nell’art. 55-bis del D.Lgs. n. 165 del 30 marzo 2001 (meglio conosciuto come “Testo Unico sul Pubblico Impiego o TUPI”), come introdotto dall’art. 69 del D.Lgs. n. 150/2009 (“Disposizioni relative al procedimento disciplinare”).

Solo in questa specifica ipotesi, dunque, è dato riscontrare la sussistenza di tutte quelle prerogative, anche procedimentali e di difesa, che sostanziano qualunque provvedimento di risoluzione del rapporto lavorativo avente natura sanzionatoria e/o disciplinare, ivi compresa quella, non irrilevante per il docente incriminato di tale condotta, di essere assistito da un procuratore o da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o abbia conferito mandato.

Oltretutto, solo in questa ipotesi, per così dire di estrema responsabilità professionale, il paventato provvedimento di dispensa dal servizio per persistente insufficiente rendimento viene a comportare un parere espresso dal Consiglio Scolastico Provinciale nonché il preventivo intervento ispettivo di un dirigente tecnico che fornisca ulteriori elementi all’espressione di un parere ponderato.

In definitiva, quindi, possiamo certamente affermare che il richiamato art. 512 del D.lgs. n. 297/1994 prevede, appunto, queste tre distinte fattispecie di risoluzione del rapporto, tutte accomunate tra loro dal fatto di essere riconducibili all’istituto della dispensa dal servizio, ma in alcun modo ritenute, anche dalla giurisprudenza di legittimità, sovrapponibili, almeno per quanto riguarda le cause che determinino, per ciascuna di esse, tale dispensa.

La Corte Suprema, dunque, anche nella sentenza oggi in esame riconferma questa impostazione di fondo, ribadendo la sussistenza di questa triplice tipologia di risoluzione del contratto del docente e sottolineandone opportunamente i dati distintivi, per cui se l’accertata inidoneità fisica dell’insegnante presuppone l’impossibilità, assoluta o relativa, allo svolgimento delle mansioni derivante, purtroppo, proprio dalle precarie sue condizioni di salute psico-fisica, la “incapacità didattica” propriamente intesa dello stesso lo rende non idoneo alla sua funzione individuandone la causa testualmente nella “inettitudine assoluta e permanente a svolgere le mansioni inerenti l’insegnamento … che deriva da deficienze obiettive, comportamentali, intellettive o culturali, che solo come conseguenza inducono prestazioni insoddisfacenti”.

Come poi sopra ricordato, la terza ipotesi è rappresentata dallo “scarso o insufficiente rendimento” del docente, che si configura qualora quello stesso effetto delle prestazioni lavorative insufficienti sia prodotto non da un’oggettiva assenza di capacità dell’insegnante, ma piuttosto da un suo inadeguato o carente impegno didattico o ancora dalla grave violazione dei suoi doveri di ufficio.

In definitiva, quindi, nonostante la Cassazione si adoperi nel ritenere certa e quanto mai facilmente riscontrabile la differenza sostanziale, giuridica e di presupposti tra le anzidette tre fattispecie, in realtà questa sicura individuazione in un certo senso ci sfugge poiché tutte risultano contrassegnate da gradazioni di responsabilità personale e professionale che si compenetrano tra loro al punto da non essere, a nostro parere, sempre perfettamente distinguibili.

Se, infatti, nel primo caso, quello della “inidoneità fisica” del docente, giustamente si prescinde del tutto da qualsivoglia concetto di colpa e/o di negligenza per ovvie ragioni connesse intimamente alle problematiche di salute che, suo malgrado, vanno ad interessare l’insegnante compromettendone lo svolgimento della sua attività di docenza, nel secondo caso, quello della “incapacità didattica” propriamente detta, questo criterio colpevolistico sembra quasi solo accennato, come ricordato, nell’accezione negativa del termine utilizzato ma è come se non acquisisse una consistenza fattuale.

La Corte di Cassazione, infatti, in proposito utilizza una terminologia molto particolare poiché, come sopra riportato, accomuna la “incapacità didattica” alla “inettitudine assoluta e permanente a svolgere le mansioni inerenti l’insegnamento” ritenendo quest’ultima conseguenza di “deficienze obiettive, comportamentali, intellettive o culturali, che solo come conseguenza inducono prestazioni insoddisfacenti”.

In sintesi, dunque, per gli Ermellini questa seconda fattispecie, al pari della “inidoneità fisica”, non dipenderebbe da cause volontarie, che per intenderci sono quelle che invece contraddistinguono la terza ipotesi dello “scarso rendimento”, ma piuttosto da fatti oggettivi o, per meglio dire, quasi incontestabili nel loro divenire, al punto da privare il docente di qualsivoglia possibilità di ribaltamento del giudizio negativo sul suo operato.

Il che, sinceramente, ci sembra una autentica anomalia giuridica!


L’aberrazione giuridica della dispensa dal servizio per il docente “didatticamente incapace”.

Le conclusioni cui perviene la Cassazione con la sentenza in oggetto, in effetti, sollevano a nostro parere non pochi interrogativi.

Infatti, il ragionamento seguito dai Giudici di legittimità è, almeno sotto un profilo squisitamente contenutistico, quanto mai chiaro: solo per l’ipotesi di “scarso rendimento” è lecito porre una questione di compatibilità della normativa dettata dal D.Lgs. n. 297/1994 con i principi generali regolanti il procedimento disciplinare.

Al contrario, secondo la Corte Suprema la fattispecie della “incapacità didattica” non discende da comportamenti colpevoli dell’insegnante e, pertanto, non implica una responsabilità di quest’ultimo né postula un giudizio di proporzionalità della sanzione applicabile.

Sulla base, quindi, di questi, assolutamente non condivisibili, presupposti il provvedimento di dispensa dal servizio che venga comminato al docente “didatticamente incapace” si ritiene non assuma carattere sanzionatorio, trattandosi di semplice atto, sia pure espulsivo, che si limita a constatare l’oggettiva sua inidoneità a svolgere la funzione di insegnante.

La Corte, dunque, in questo modo finisce per escludere del tutto la natura discrezionale, e soggettiva, del giudizio negativo che si va ad esprimere sul docente interessato, e ciò essa fa sul presupposto che “si muove sul piano dell’accertamento, con la conseguenza che lo stesso, seppure necessariamente valutativo, si deve fondare su dati oggettivi convergenti tra loro e sintomatici della mancanza di attitudine all’impiego”.

Naturalmente, le conseguenze giuridiche di una tale impostazione sono di tutta evidenza poiché questa presunta oggettivizzazione della valutazione comporta l’inevitabile venir meno di tutta una serie di prerogative e di diritti della parte interessata strettamente collegati alle regole disciplinanti il sistema disciplinare genericamente inteso, facendo salva soltanto, a dire dei giudici di legittimità, “l’esigenza che il procedimento adottato garantisca effettivamente il necessario contraddittorio” (Cass. n. 10438/2012).

In realtà, la Cassazione non esplicita compiutamente su quali presupposti e criteri di fatto e di diritto debba fondarsi la tutela di questa minima, essenziale, esigenza di contraddittorio.

Anche nella sentenza in commento, infatti, essa per sostanziare il proprio ragionamento, che si afferma ormai consolidato sul tema, enuncia la regolarità dell’accertamento dei fatti eseguito dalla Corte territoriale e, segnatamente, sottolinea in proposito la forza probante decisiva di tutte “le fonti conoscitive” che nel caso concreto sarebbero state acquisite dall’amministrazione scolastica prima di disporre la dispensa del docente, nonché la presenza, “sempre e comunque in maniera ripetuta e coerente” di “accertamenti di allarmanti lacune, carenze e incapacità univoche e insormontabili”.

Ora, a nostro parere è proprio il riferimento a fatti e/o dati di fatto propriamente intesi in ambito processuale che determinerebbe comunque la necessità di involgere le questioni conseguenti ad una misura così estrema e pregiudizievole in un processo di valutazione molto più ampio ed articolato che tenga conto della posizione, e delle difese, del dipendente e che, soprattutto, venga rimesso alla decisione di un organo terzo.

Se, pertanto, un tale giudizio negativo deve ritenersi fondato sull’accertamento di “lacune, carenze ed incapacità”, per usare testualmente la terminologia della Cassazione, si badi bene pur sempre eseguito dalla parte forte del rapporto contrattuale quale è, appunto, l’Amministrazione scolastica, ci chiediamo come sia possibile discernere così facilmente tale ipotesi da quella dello “scarso rendimento”, invece soggetta, giustamente, a tutte le prerogative e le tutele del procedimento disciplinare.

Occorre infatti sempre rammentare che ci si trova davanti ad un dipendente, l’insegnante, di per sé professionalmente qualificato non fosse altro che per gli studi affrontati e per l’abilitazione conseguita, comunque culturalmente formato nel tempo, oggettivamente preparato anche da approfondimenti ed aggiornamenti conoscitivi e tecnici, per cui prima di accertarne, con tanta e tale sicurezza, la “incapacità didattica” per le predette sue “lacune e carenze” riteniamo sia legittimo e fondato nutrire qualche dubbio.

Il ritenere, poi, che in questi casi la garanzia del contraddittorio possa essere assicurata, come attestato anche nel caso in esame, per il solo fatto che l’insegnante sia portato a conoscenza dell’avvio del procedimento e sia messo in condizione di accedere agli atti e di interloquire con l’amministrazione prima dell’adozione dell’atto espulsivo, ci sembra una conclusione banalmente superficiale e sbrigativa, soprattutto se rapportata ad un effetto, quello della definitiva perdita del proprio posto di lavoro, dalle conseguenze personali, familiari, sociali assolutamente irrimediabili.

Ci sia consentito, dunque, almeno in questa sede di approfondimento, dissentire apertamente da una lettura normativa ed ermeneutica eccessivamente formale come è, appunto, quella propugnata oggi dalla Cassazione e aderire, piuttosto, alla tesi della parte ricorrente in sede di legittimità non a caso mirante a sollevare una questione di illegittimità costituzionale che la Corte ha tuttavia disatteso perché “dedotta in relazione agli artt. 25 e 55 quater del D.lgs. n. 165/2001 anziché all’art. 512 del D.lgs. n. 297/1994” oltre che “infondata risulta essere priva della necessaria rilevanza nella fattispecie, atteso che la T. ha esercitato il diritto di difesa, sia pure attraverso atti scritti e non in sede di audizione personale”.

Al di là, infatti, delle disquisizioni meramente giuridiche, è significativa la circostanza che, da parte del docente, si sia rilevato un vulnus normativo tale da indurre ad una riconsiderazione del testo legislativo, qualunque sia quello correttamente applicabile alla fattispecie in esame in termini di legittimità costituzionale, e dall’altra si sia potuto anche solo pensare che le garanzie di difesa e di contraddittorio possano essere espletate, in un contesto procedimentale così delicato, mediante soli “atti scritti” e senza nemmeno una, seppur invocata, “audizione personale”.

Come se ciò non bastasse a legittimare tutte le nostre perplessità, occorre anche rammentare che il Legislatore ha ulteriormente soffocato le giuste esigenze di difesa individuando nella persona del Dirigente Scolastico il soggetto unico legittimato a disporre la dispensa dal servizio del docente ex art. 512 del D.Lgs. n. 297 del 16 aprile 1994 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado”).

Come è dato leggere, infatti, in questa norma, si dispone testualmente che “Salvo quanto previsto dall’art. 514 per l’utilizzazione in altri compiti, il personale di cui al presente titolo, è dispensato dal servizio per inidoneità fisica o incapacità o persistente insufficiente rendimento”, prevedendo, appunto, al  successivo art. 514 1° comma che “Il personale dichiarato inidoneo alla sua funzione per motivi di salute può a domanda essere collocato fuori ruolo ed utilizzato in altri compiti tenuto conto della sua preparazione culturale e professionale”.

Ebbene, in questa stringata disposizione normativa si va a racchiudere un potere dispositivo, ed a nostro parere incontestabilmente sanzionatorio e disciplinare, quanto mai ampio e spropositato ed oltretutto stridente con quelli che sono i fondamentali principi di diritto in tema di tutela dei posti di lavoro e di garanzia dell’occupazione per il semplice fatto che esso venga riconosciuto in capo ad una Istituzione, il Dirigente Scolastico, che non ha certamente in sé quell’imprescindibile requisito di terzietà di cui dovrebbe ammantarsi chiunque debba adottare decisioni di tale portata e rilievo giuridico.

A ciò si aggiunga altresì che, sempre e unicamente sulla base di una stringente lettura della normativa di legge sopra richiamata, per ciò stesso a nostro parere chiaramente lacunosa, in questa sola fattispecie di c.d., “incapacità didattica” l’effetto espulsivo viene considerato automatico e definitivo, non potendo esso soggiacere ad alcuna possibilità di “recupero lavorativo” della risorsa professionale” incapace” in altre mansioni o differenti funzioni della stessa amministrazione scolastica.

Mentre dunque il docente “inidoneo per ragioni di salute” trova giustamente il suo provvidenziale salvagente nel richiamato art. 514 1° comma e nella sua riallocazione ad altro servizio e quello ritenuto colpevole di “scarso rendimento” gode comunque delle prerogative e delle difese del procedimento disciplinare, l’insegnante “didatticamente incapace” risulta totalmente privo di qualsivoglia garanzia personale e completamente in balìa del sistema scolastico e di chi lo rappresenta nello specifico Istituto.

È pertanto ovvio chiedersi, da parte di chi opera nel diritto e nel rispetto dei principi e dei valori costituzionali che lo presiedono, in base a quali criteri, che dobbiamo presumere siano oggettivi e soprattutto univoci per tutti gli istituti scolastici perché così espressamente delineati dalla stessa Corte di Cassazione, possa mai individuarsi questa asserita “incapacità” del docente allo svolgimento del proprio ruolo e del proprio lavoro.

È evidente dunque come ci si muova su un terreno estremamente pericoloso, reso oltretutto ancora più insidioso proprio da norme e vuoti legislativi che nel pretendere una propria testuale applicazione finiscono quasi per delegittimare la giurisprudenza, rea di non avere avuto, almeno sino ad oggi, un atto di coraggio e di “legittima ribellione alla lettera normativa” che, invece, in tante altre occasioni ed in differenti contesti lavorativi pure ha lodevolmente manifestato, come si conviene in un sistema giuridico in divenire e proteso ad una interpretazione corrispondente alla realtà sociale sempre mutevole.

A nostro avviso, quindi, probabilmente è giunto il momento che la “incapacità didattica” del docente, quale causa specifica di risoluzione del contratto lavorativo, si riconduca finalmente nell’alveo delle cause da procedimento disciplinare e, di conseguenza, assuma la natura di condizione soggettiva dell’insegnante suscettibile sì di valutazione da parte dell’Amministrazione scolastica, come del resto connaturato ad ogni rapporto di lavoro, ma non più arbitrariamente sottratta al potere valutativo, anche difforme, degli organi giudiziari.

La didattica, oltretutto, nel suo significato semantico è essa stessa espressione di un insieme variegato di nozioni, concetti, dati, conoscenze ed informazioni tutti riconducibili all’insegnamento ed ai relativi metodi, e nell’ambito di questi la componente tecnica e/o specialistica è di tutto rilievo per cui ancora più incomprensibile ci appare la posizione giurisprudenziale ancora oggi assunta dalla Cassazione dinanzi alla possibile difficoltà, questa sì oggettiva, del Dirigente Scolastico investito del potere esclusivo della dispensa dal servizio di accertare la dedotta incapacità dell’insegnante con la dovuta certezza.

Emerge, dunque, l’abnormità di un sistema scolastico che demanda queste decisioni di così rilevante impatto a figure apicali dell’Amministrazione scolastica non sempre dotate anche di quella dose di imparzialità e di obiettività di pensiero così indispensabili nell’adozione di una decisione così delicata.

Per chi, infatti, conosce l’universo della Scuola, sia che lo frequenti nella sua veste di docente o di operatore scolastico che nella sua qualità di genitore, è facile pensare al fuorviante condizionamento che misure espulsive di tal genere possono, purtroppo, subire da giudizi e/o valutazioni a volte del tutto arbitrari e soggettivi, se non addirittura superficiali, o da dinamiche interpersonali che finiscono per compromettere talvolta le serene relazioni tra la classe docente e altre due compagini maggiormente rappresentative del mondo scolastico; i genitori e gli studenti.

In conclusione, riteniamo non si possa sfuggire più dalla individuazione della “incapacità didattica” come un vero e proprio “ibrido giuridico” e, dunque, una fattispecie pericolosamente ancora a metà tra le anzidette due altre ipotesi di risoluzione del contratto del docente, e pensiamo che per far sì che anche essa riceva quella tutela costituzionalmente garantita, a dispetto di un testo normativo ancora legato ad un dato testuale eccessivamente rigoroso e di una giurisprudenza di legittimità tuttora orientata a farlo rispettare, le si debba riconoscere la natura sanzionatoria e disciplinare in essa connaturata ponendo fine ad una assurda presunta oggettivizzazione del giudizio negativo che stride con ogni fondamentale regola del diritto.