La ribellione anti-giuridica in età scolare

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La ribellione anti-giuridica in età scolare

 

La teoria delle opportunità

 

Secondo Cohen & Felson (1979)[1], “la teoria delle opportunità consente di rendere conto delle tendenze criminali formatesi dopo la seconda guerra mondiale, [ovvero] la circolazione accresciuta dei beni e delle persone o, ancora, la non stabilità del domicilio (conseguente al lavoro di entrambi i coniugi) hanno cagionato un aumento dei delitti appropriativi, poiché tali fattori moltiplicano le opportunità [di delinquere]”. Dunque, nella teoria delle opportunità, la parte lesa, con il proprio stile di vita, offre al reo la possibilità di porre in essere occasioni di devianza inimmaginabili nella vita quotidiana delle comunità rurali prebelliche. A tal proposito, assai pertinentemente, Miethe & Meier (1990)[2] asseriscono che “la teoria delle opportunità getta uno sguardo originale sulla genesi dell'atto deviante. Essa mette l'accento non sulla personalità del delinquente o su eventuali turbe affettive o psicologiche, o su una deficienza di socializzazione, o sull'immersione in una sotto-cultura particolare, me, piuttosto, sulle circostanze che rendono possibile, in una data situazione, l'atto deviante”. Come si può notare, Miethe & Meier (ibidem)[3] propongono una visione oggettivistica del crimine e non soggettivistica, in tanto in quanto viene messo in rilievo il contesto criminogeno che ha favorito il fatto antigiuridico; il che, tuttavia, non esclude l'intervento successivo di altri approcci legati alla personalità ed all'eventuale infermità del deviante.

Similmente, Osgood & Wilson & O'Malley & Bachman & Johnston (1996)[4] reputano che “l'atto [antinormativo] è, in una certa misura,spontaneo, fortuito, anziché pianificato dal delinquente ed esso dipende dal modo di vita del reo, dalle sue abitudini, dalle sue attività di routine, che occupano la sua vita quotidiana e che gli forniscono eventualmente delle opportunità di commettere un tale atto”. Pertanto, la teoria criminologica qui in esame sospende temporaneamente il giudizio afferente alla personalità ed alle caratteristiche borderline dell'infrattore. Dalla soggettività si passa alla fattualità ed ai relativi condizionamenti potenziali. Del pari, questa lettura oggettivizzante è proposta pure da Matza (1964)[5], a parere del quale, all'inizio della carriera del deviante, “i primi atti criminali sono spesso casuali, e non hanno come condizione necessaria che un vago distacco verso l'ordine costituito, una certa deriva, un'esitazione tra conformismo e devianza, ma non o, quantomeno, non ancora un consapevole e netto rigetto dei valori convenzionali”. Sicché, sulla scorta di Matza (ibidem)[6] si può affermare che la criminogenesi, ai suoi albori, non è quasi mai accompagnata da una volizione dolosa intensa, bensì da quello che l'italiofono Bettiol chiamava “un [semplice] sentore di antigiuridicità”. Ciò premesso, la società sarà, pertanto, meno attinta dal crimine diminuendo o azzerando le “opportunità” di delinquere.

Hundleby (1987)[7] nota che “le attività abitudinarie […] non hanno [ontologicamente] una finalità criminogenetica, ma esse, semplicemente, offrono delle opportunità, soprattutto se esse si svolgono al di fuori del domicilio, negli spazi pubblici o semi-pubblici. In effetti, le attività esterne al domicilio[...] sono statisticamente associate agli atti delinquenziali”. Oppure ancora, Wallace & Bachman (1991)[8] sottolineano che “le uscite ricreative notturne si rivelano come il miglior evento predittore dell'uso di droga” Non senza torto, con afferenza alla popolazione giovanile, Osgood & Wilson & O'Malley & Bachman & Johnston (ibidem)[9] osservano che “le attività fuori dal domicilio forniscono maggiori opportunità quando non sono [gerarchicamente] strutturate. Ciò accade quando si lascia una grande libertà agli adolescenti (p.e., la libertà di girare per strada piuttosto che di andare al cinema) […], e, soprattutto, [sono criminogene] le attività che si svolgono fuori dal controllo di qualsivoglia autorità (un adulto responsabile: un genitore, un insegnante, un poliziotto). Ecco che qui la teoria delle opportunità si unisce a quella del controllo sociale. P.e., è più facile fumare uno spinello quando il padre non è nei paraggi, a prescindere dal tipo di relazione tra padre e figlio”. Di eguale parere è Lagrange (1999)[10], ovverosia “non è la qualità, ma l'intensità delle relazioni familiari che ha un impatto sulle opportunità di devianza. Tali opportunità diventano più numerose in presenza dei coetanei: costoro facilitano certi atti di delinquenza ed accrescono il prestigio dell'adolescente innanzi al gruppo dei pari, poiché la delinquenza diventa una vera e propria performance se è compiuta di fronte ad un largo pubblico”. Anzi, Agnew (1990)[11] postula che “bazzicare in una sottocultura deviante è spesso presentato come la conseguenza di difficoltà socioeconomiche, [ma] la teoria delle opportunità fa l'ipotesi inversa: più il suo status socioeconomico è elevato, più un adolescente dispone delle risorse necessarie (tempo libero e denaro) per attività di routine suscettibili di generare delle situazioni propizie agli atti devianti”.

Secondo McCullagh & Nelder (1989)[12], esistono, nel soggetto in età adolescenziale, almeno tre variabili che acuiscono le “opportunità” di delinquere:

  1. svolgere attività abitudinarie apparentemente non criminogene, ma agite senza il controllo di un adulto (p.e., uscire di notte per andare in discoteca, al bar o a una festa)
  2. avere un controllo parentale indebolito da relazioni familiari “alterate” (p.e., i genitori nemmeno sanno dove il/la ragazzo/a trascorre il sabato sera)
  3. provenire da una famiglia benestante, dunque in grado di dare all'adolescente denaro impiegato dal/dalla figlio/a per frequentare locali notturni ed acquistare stupefacenti


“Social control” e devianze.

Secondo il francofono Lagrange (2000)[13], a differenza della teoria delle opportunità, quella del controllo sociale “mette l'accento sull'indebolimento dei legami sociali tra l'adolescente e le istituzioni familiari e scolastiche”. Ecco, in buona sostanza un approccio comportamentale di stampo soggettivistico non più limitato alla sola fattualità casuale delle opportunità criminogenetiche. La Dottrina del “social control” ri-valuta le deficienze omissive delle agenzie di controllo tradizionali. Inoltre, la Criminologia del controllo sociale afferma, in maniera assai democratica, che “la delinquenza generata da un controllo sociale insufficiente tange in maniera sensibilmente uniforme tutte le varie classi sociali” (Hirschi, 1969)[14]. Di più, Heimer & Matsueda (1994)[15] smontano il mito deterministico dell'influsso dei pari, giacché “non è necessariamente vero che una forte influenza dei coetanei si sostituisca sempre e comunque al controllo familiare per orientare l'individuo [in età giovanile] verso pratiche delinquenziali”.

Alcuni Autori francofoni, in maniera assai catalogica, hanno individuato almeno quattro caratteristiche connotanti l'insuccesso pedagogico del social control. In primo luogo, l'adolescente che delinque non ha o non ha sufficientemente un controllo familiare e, anzi, i devianti ultra-13enni di solito rigettano in maniera espressa l'autorità genitoriale. In secondo luogo, non esiste controllo sociale se l'infrattore si stacca precocemente dall'ambiente scolastico e abbandona presto gli studi dell'obbligo. In terzo luogo, il che aiuta a superare molti pregiudizi, le devianze antigiuridiche non dipendono dal ceto o dal reddito dei genitori, così come ininfluente è il titolo di studio dei familiari d'origine. Infine, il/la ragazzo/a inizia una carriera criminale anche a prescindere dalle relazioni amicali, tossiche o meno che esse siano. In definitiva, la teoria del controllo sociale insiste sul ruolo delle due agenzie di controllo della scuola e della famiglia, ma ciò indipendentemente dal ceto sociale e culturale di provenienza dei genitori. Ognimmodo, pare opportuno ribadire che la teoria delle opportunità non è alternativa, bensì complementare rispetto a quella del controllo sociale. Si tratta soltanto di due prospettive diverse nell'analizzare la medesima tematica.

Sotto il profilo statistico, gli Autori del social control hanno evidenziato che le infrattrici femmine sono meno dei devianti maschi, ma non muta di molto l'età in cui sono commessi i reati. In tutti i casi, tuttavia, i responsabili di delitti giovanili dichiarano di essere disagiati in ambito scolastico. Abbondante, tra gli adolescenti rei, è pure l'abbandono degli studi. Altrettanto notevoli sono i/le ragazzi/e che manifestano un pessimo rapporto con il loro padre, il quale spesso non sa dove il/la figlio/a trascorre il sabato sera. Buoni, di soluto, sono i rapporti con gli amici, ma questa variabile incide maggiormente, come suesposto, nella teoria delle opportunità.
 

Teorie della tensione e delle sottoculture.

Merton, in tutte le proprie Opere, evidenzia che ogni società propone degli obiettivi, ma non tutti i consociati sono in possesso degli strumenti legali per raggiungerli; donde la devianza criminale. La causa della carenza dei mezzi leciti, secondo la teoria mertoniana,  è costituita dalle ineguaglianze sociali. Per conseguenza, il fine della Criminologia consta nell'aiutare le Scienze Politiche a costruire un tessuto collettivo maggiormente democratico, in cui nessuno sia costretto a ricorrere ad espedienti contra legem. A tal proposito, Ogien (1995)[16] rimarca che “gli individui cresciuti in luoghi disagiati e/o in situazioni d'insuccesso scolastico avranno una spiccata tendenza  a rivolgersi a mezzi di riuscita illegittimi, quindi a pratiche delinquenziali”. Come si può notare, Ogien (ibidem)[17] rientra appieno nell'ambito della teoria delle sottoculture devianti, a parere della quale l'individuo borderline tende facilmente ad entrare in gruppi criminali che negano o contestano la scala di valori proposta dall'ordine costituito. Il sottogruppo deviante si isola e crea un microcosmo etico indipendente ed alternativo.

Come prevedibile, tale sistema anticonformistico è costituito, nella fattispecie della delinquenza giovanile, da coetanei che, secondo Cloward & Ohlin (1960)[18], “provocano un processo di socializzazione atipico, nel quale è incluso l'apprendimento delle tecniche e delle razionalizzazioni necessarie per il compimento di atti illegali”. Dunque, secondo la teoria delle sottoculture criminogene, l'adolescente svantaggiato corre il rischio di entrare a far parte di gruppi autoisolati nei quali domina l'utilizzo dell'antinormatività finalizzata al raggiungimento trasversale e meno faticoso delle finalità socialmente proposte. Interessanti sono pure Hagan & McCarthy (1998)[19], a parere dei quali non tutti i consociati dispongono lecitamente del “capitale sociale” necessario per la costruzione di una vita personale e familiare non in contrasto con le ordinarie regole della pacifica convivenza collettiva. Donde, la “distorsione” antigiuridica del menzionato capitale sociale all'interno di sottogruppi contrari alla normale legalità.

Tale anti-/a-socialità atipica viene sottolineata pure da Cohen (1955)[20], il quale, con afferenza ai giovani borderline, asserisce che “la delinquenza [nelle teorie della tensione e dei sottogruppi] non è una trasgressione esprimente una carenza affettiva o una mancanza di fiducia in sé, ma, al contrario, essa è un atto valorizzante ed integratore, attraverso il quale l'adolescente afferma la propria appartenenza al gruppo e, all'interno del medesimo, acquisisce prestigio”. Nuovamente, pertanto, nella teoria dei sottogruppi devianti torna il prezioso elemento della natura criminogenetica del gruppo dei coetanei. Dunque, la soggettività dell'antipedagogia dei pari prende il sopravvento sull'oggettività fattuale connotante la teoria delle opportunità, il che, ognimmodo, non impedisce un utilizzo congiunto di tali diversi parametri valutativi, che rimangono complementari e non tra di loro antinomici. Inoltre, come notato da Kernis & Granneman & Barclay (1989)[21] pongono l'accento sulla necessità, da parte della Criminologia, di investigare non soltanto l'oggettività del crimine, bensì anche la soggettività anomica e disturbata del criminale. Non si deve porre in rilievo soltanto la materialità del danno cagionato dal reato, ma anche la personalità del reo, al quale è quantomai necessario applicare un trattamento penitenziario attento anche alle particolari esigenze psicologiche del condannato. Analogo è il parere di Baumeister & Smart & Boden (1996)[22], secondo cui l'infrazione antigiuridica reca profili oggettivi, ma anche aspetti soggettivistici non meno importanti, come dimostra l'Art. 133 del Codice Penale italiano in tema di gravità del reato e di relativa valutazione agli effetti della pena.

Diverso è il parere di Matza (ibidem)[23], il quale evidenzia la non estirpabilità totale e definitiva dei sottogruppi nelle società, ovverosia “bisogna relativizzare l'approccio in termini di sottoculture: esse non sono interamente separabili dai valori dominanti, [poiché] l'individuo deve anche saper vivere in una società che ingloba la propria sottocultura; egli non se ne può isolare totalmente. L'adolescente che commette degli atti delittuosi si trova quindi preso tra due mondi, nei quali tentenna per un certo tempo, non avendo ancora scelto definitivamente l'uno o l'altro. Questa tensione è ansiogena e si può supporre che essa si manifesti nei sintomi depressivi giovanili”. Matza (ibidem)[24], alla stregua di Christie, è consapevole circa l'impossibilità di creare uno Stato di polizia imperniato sulla “tolleranza zero”. Il neoretribuzionismo è sempre fallimentare, in tanto in quanto rimane fondamentale rieducare il condannato, mantenendo, tuttavia, la consapevolezza che non si potrà mai addivenire ad una società perfetta priva di condotte antigiuridiche e/o antisociali. Parimenti, Choquet & Ledoux (1994)[25] hanno censito che l'adolescente in età scolare tende alla depressione, giacché egli non ha ancora interiorizzato i valori della società civile e, viceversa, percepisce il fascino ambiguo delle condotte borderline. L'errore del retribuzionismo, specialmente negli USA, è quello di pretendere dal minorenne e dal giovane adulto una veloce interiorizzazione dell'etica collettiva; molti, nella Criminologia occidentale, non percepiscono la ineliminabilità intrinseca di un moderato grado di criminogenesi sociale.

Pretendere di azzerare l'antisocialità borderline significa tornare agli atteggiamenti dittatoriali ed aggressivi del nazismo e del socialismo sovietico. Altrettanto erroneo è l'approccio lombrosiano di Choquet & Ledoux & Hassler (2001)[26], i quali, invertendo la prospettiva, ipostatizzano le depressioni giovanili e postulano che la pessima salute mentale degli adolescenti stia alla base delle infrazioni borderline. Viceversa, nella teoria della tensione, è la attrattività anticonformistica delle sottoculture a provocare ansia e disagio psichico. L'errore di Choquet & Ledoux & Hassler (ibidem)[27] consta nel confondere la patologia medica con il libero arbitrio del reo; il rischio è quello di confondere tra il Diritto Penale e le neuroscienze, estendendo ad libitum i concetti di infermità e di seminfermità mentale. Anche Owens (1994)[28] invita a non porre una perenne coincidenza tra antisocialità non eterolesiva e patologia psicologica.

Nel censimento di Rosenberg & Schooler & Schoenbach & Rosenberg (1995)[29] vengono individuate alcune caratteristiche perennemente tipiche dei sottogruppi criminali. In primo luogo, sperimentano la “tensione” verso la devianza soprattutto ragazzi/e provenienti da ceti sociali poveri e privi di ambizioni scolastico-culturali. In secondo luogo, l'ultra-13enne che entra nel mondo del crimine reca un curriculum scolastico pessimo. In terzo luogo, il sottogruppo è formato prevalentemente da coetanei che provocano una vera e propria iniziazione all'antinormatività penalmente rilevante. Da ultimo, il tipico minorenne/giovane adulto infrattore mescola momenti di eccessiva autostima a periodi di profonda depressione, specialmente nella fattispecie frequente del ragazzo dedito all'alcol e/o agli stupefacenti. All'opposto, non tendono a delinquere gli adolescenti caratterizzati da esaurimenti nervosi non accompagnati da un'elevata stima di sé. A parere di chi redige, Rosenberg & Schooler & Schoenbach & Rosenberg (ibidem)[30], nelle loro rilevazioni statistiche, commettono l'errore di analizzare, in maniera troppo dogmatica, il titolo di studio dei genitori del deviante, il che pare decisamente deterministico ed inopportuno. Si tratta del medesimo fraintendimento eugenetico di Lombroso e di Ferri. Viceversa, è incontestabile, pure nei menzionati Dottrinari del 1995, che le adolescenti femmine fanno registrare un tasso di criminalità nettamente inferiore rispetto ai coetanei maschi, connotati quasi sempre da una maggiore aggressività in danno di oggetti e persone.

Nell'ambito della teoria dei sottogruppi criminogeni, Cloward & Ohlin (ibidem)[31] evidenziano che esistono due tipi di sottocultura; la prima è “integrata”, poiché non genera disturbo sociale e provoca danni limitati; mentre la seconda è definita “disorganizzata”, poiché contempla atti di vandalismo completamente privi di una ratio e comprende anche atti causanti un notevole allarme collettivo. Pure Cohen (ibidem)[32] afferma che esiste una “violenza adolescenziale non utilitaria e caratterizzata da un edonismo a breve termine”; tale è la fattispecie del danneggiamento di beni pubblici privo di qualsivoglia intento predatorio o lucrativo. In ogni caso, l'eterolesività antigiuridica, come osservato da Cloward & Ohlin (ibidem)[33], è quasi sempre acuita da un abbondante consumo di bevande alcoliche. Assai diffusa, peraltro, è la piaga delle bande giovanili. Il francofono Coslin (1999)[34] reputa, con attinenza al contesto francese, che “le baby gangs non sono un fenomeno nuovo, […] ma oggi le difficoltà che incontrano i giovani nel mercato del lavoro possono incoraggiarli a perseverare in uno stile di vita deviante, che è un preludio della mancata integrazione sociale”.
 

Devianze giovanili e uso di stupefacenti

Ormai, negli Anni Venti del Duemila, è indubitabile che le devianze giovanili borderline, nella maggior parte dei casi, sono congiunte a stati di tossicodipendenza più o meno cronici. Già negli Anni Sessanta del Novecento, Anslinger & Oursler (1961)[35] rimarcavano che”la relazione tra delinquenza e uso di droghe è stata frequentemente esplorata; ed essa è divenuta un luogo comune, nutrito addirittura da films spettacolari”. Del pari, negli Anni Novanta del Novecento, Setbon (1995)[36] ha messo in evidenza che la tossicomania è “una risorsa per certi discorsi politici”, ove sono perennemente distinti i proibizionisti dai legalizzatori, senza contare i fautori della “riduzione del danno”. Tuttavia, Cohen (1999)[37] mette in guardia dalle troppe statistiche, su questo tema, politicizzate o demagogiche. Del resto, la tematica dell'uso di droghe viene spesso strumentalizzata. P.e.,  Sykes & Matza (1957)[38] puntualizzano che “la relazione [tra stupefacenti e criminalità] è statisticamente innegabile, ma essa va anche interpretata […]. I detenuti interrogati mettono spesso in causa le sostanze che essi hanno ingerito prima di commettere un crimine, [ma] bisogna relativizzare queste dichiarazioni, poiché sovente esse sono uno stratagemma per negare la piena responsabilità penale”.

Pertinentemente, dal punto di vista psico-patologico-forense, Osgood & Johnston & O'Malley & Bachman (1988)[39] sottolineano che “non vi è necessariamente una relazione di causa-effetto tra delinquenza e uso di sostanze psicoattive: esse potrebbero essere due sintomi dei medesimi problemi psicologici. In effetti, in origine, vi può essere una malessere ereditato da agenzie di controllo gravemente insufficienti. P.e., Brochu & Brunelle (1997)[40] puntano il dito non sugli stupefacenti in sé, bensì sull'intero “stile di vita” inadeguato dell'ultra-13enne. In maniera simile, Osgood & Wilson & O'Malley & Bachman & Johnston (ibidem)[41] affermano che spesso molti minorenni “recano uno stile di vita che include frequenti uscite fuori da qualsivoglia controllo parentale, con la conseguente e maggiore opportunità di far uso di sostanze illecite [e di alcol, ndr]”. Interessanti sono pure Parker & Auerhahn (1998)[42], a parere dei quali è ben difficile negare il trinomio alcol/droghe/violenza, ovverosia “da un lato, sotto il profilo degli effetti farmacologici indotti dalle differenti sostanze lecite o illecite, soltanto l'alcol è intrinsecamente associato ai comportamenti violenti; dall'altro lato, le relazioni tra utilizzo di sostanze e violenza dipendono anzitutto dal contesto sociale in cui questi utilizzi si consumano ed acquistano una significazione anche simbolica che unisce l'assuntore ai propri coetanei”.

Come si può notare, fatta eccezione per le bevande alcoliche, Parker & Auerhahn (ibidem)[43] mettono in risalto non solo gli aspetti tossicologici dell'assunzione di droghe, ma anche il ruolo emulativo e criminogeno del gruppo dei pari. La violenza eterolesiva non è riducibile ad una reazione fisiologica, bensì molto dipende dall'inserimento del reo all'interno di un sottogruppo deviato e deviante. A tal proposito, illuminanti sono pure Watts & Wright (1990)[44] secondo cui “in un contesto culturale particolare, che associa la sigaretta ad un simbolo di virilità, il tabagismo può rivelarsi correlato alla violenza, mentre l'uso di alcol o di sostanze illecite no”. Ecco, di nuovo, la ratio della pericolosità potenziale della rete relazionale amicale. Pure Fagan (1990)[45] punta il dito contro le bevande alcoliche, in tanto in quanto “l'alcol si trova più direttamente all'origine di atti di violenza. L'alcol disturba le interazioni tra individui, giacché una persona che ha bevuto viene a disporre di un registro comportamentale e verbale ridotto”. Analogamente, Parker & Auerhahn (ibidem)[46] osservano che “l'alcol gioca un ruolo disinibente che conduce spesso a trasgredire le norme usuali di ragionevolezza”. Nelle statistiche criminologiche francofone, l'alcol e la cannabis hanno sui giovani infrattori un notevole effetto disinibente, soprattutto nella fattispecie dello stupro di gruppo.
 

Conclusioni

È basilare, a titolo conclusivo, negare la distinzione rigida tra gli approcci criminologici alla delinquenza in età scolare. Ogni Autore non si pone quasi mai in conflitto con i propri Colleghi, bensì egli propone una lettura che mette in risalto aspetti non ampiamente analizzati da altri Dottrinari. P.e., negli Anni Settanta del Novecento, Kornhauser (1978)[47] negava una distinzione apodittica tra teoria della tensione, teoria del controllo sociale e teoria delle sottoculture devianti.

Merton (1938)[48] afferma, senza intenti polemici con le altre interpretazioni, che “l'uomo ha la tendenza a conformarsi alle regole stabilite, ed è la pressione dei desideri insoddisfatti ancorché legittimi che lo spinge a trasgredire”. Sempre Merton (1965)[49] specifica che “ogni società è caratterizzata da dei fini culturali (p.e., la riuscita materiale) e da dei mezzi istituzionali che permettono di raggiungerli. Un individuo che ha metabolizzato tali fini, ma non ha accesso ai mezzi corrispondenti, tenterà di raggiungerli con mezzi non riconosciuti come legittimi”.

Alternativo, ancorché non dogmaticamente polemico, è Hirschi (ibidem)[50], il quale asserisce che “la delinquenza risulta da una socializzazione inadeguata o carente, che non è riuscita a contenere e a regolare le passioni umane”.

Oppure ancora, senza chiusure deterministiche, Meier & Miete (1993)[51] reputano che “le norme di condotta non sono mai uniformi: in certi gruppi prevalgono delle norme contrarie a quelle della società dominante, e, nel corso della loro socializzazione, i loro componenti apprendono pratiche devianti”.

Magistralmente e correttamente, Kaplan (1995)[52] ribadisce la non rivalità culturale fra le tre teorie suesposte, dal momento che “è sempre possibile articolare tra di loro tali dottrine, integrarle in una prospettiva complementare. […]. Ovvero, si può ben dire che è la tensione tra fini recepiti e mezzi disponibili che crea la motivazione deviante, e che il passaggio all'atto criminale è favorito da una socializzazione deficiente, e, infine, che l'eventuale cronicizzazione dei comportamenti devianti implica l'adesione ad una sottocultura che li valorizza”. Parimenti, Cloward & Ohlin (ibidem)[53] tendono a conciliare teoria della tensione, del social control e dei sottogruppi culturali, poiché i mezzi illegittimi per il raggiungimento dei fini sociali sono sempre frutto di una sottocultura provocata da tensioni sociali. Dunque, nessuna delle Dottrine qui in esame si presneta come una monade chiusa e priva di correlazioni fattuali.

P.e., Heimer & Matsueda (ibidem)[54] postulano che “bisogna combinare queste differenti teorie, poiché, sul piano empirico, esse si rivelano spesso difficili da separare”. Oppure ancora, Janvrin & Arenes & Guilbert (1998)[55] ribadiscono che l'adolescente presenta molte sfumature caratteriali conoscibili solo applicandogli più di una prospettiva ermeneutica criminologica. P.e., in tema di fallimento scolastico, “l'insuccesso scolastico rivela l'incapacità di gestire i mezzi legittimi di accesso ai fini culturali, ma esso rivela anche un deficit di socializzazione o una messa in discussione delle norme dominanti […]. Evidentemente, le tre interpretazioni si possono rivelare tutte valide […] e, secondo la situazione, l'una o l'altra prevale”. Pure Lagrange (ibidem)[56] invita a non separare apoditticamente variabili criminologiche come la trasgressione, la criminalità iniziatica, le rotture con le agenzie pedagogiche, l'inserimento sociale e la situazione familiare d'origine.


[1]Cohen & Felson, Social change and crime rate trends: a routine activity approach, American Sociological Review, 44, 1979

 

[2]Miethe & Meier, Criminal opportunity and victimization rates: a structural choice theory of criminal victimization, Journal of Research in Crime and Delinquency, 27, 1990

 

[3]Miethe & Meier, op. cit.

 

[4]Osgood & Wilson & O'Malley & Bachman & Johnston, Routines activities and individual deviant behavior, American Sociological Review, 61, 8, 1996

 

[5]Matza, Delinquency and Drift, Wiley, New York, 1964

 

[6]Matza, op. cit.

 

[7]Hundleby, Adolescent drug use in a behavioral matrix: a confirmation and comparison of the sexes, Addictive Behaviors, 12, 1987

 

[8]Wallace & Bachman, Explaining racial/ethnic differences in adolescent drug use: the impact of background and lifestyle, Social Problems, 38, 1991

 

[9]Osgood & Wilson & O'Malley & Bachman & Johnston, op. cit.

 

[10]Lagrange, Crime et conjuncture socio-économique, Cahiers de l'observatoire sociologique du changement, n° 26, 1999

 

[11]Agnew, Adolescent resources and delinquency, Criminology, 28, 1990

 

[12]McCullagh & Nelder, Generalized Linear Models, Ed. Chapman and Hall, London, 1989

 

[13]Lagrange, Synthèse des travaux du Cycle de réunions sur la délinquance des mineurs sous la présidence du garde des Sceaux, site internet du ministère de la Justice, Paris, 2000

 

[14]Hirschi, Causes of Delinquency, University of California Press, Berkeley, California, 1969

 

[15]Heimer & Matsueda, Role-taking, role commitment, and delinquency: a theory of differential social control, American Sociological Review, 59, 6, 1994

 

[16]Ogien, Sociologie de la déviance, Armand Colin, Paris, 1995

 

[17]Ogien, op. cit.

 

[18]Cloward & Ohlin, Delinquency and Opportunity: a Theory of Delinquent Gangs, Free Press, Glencoe, Illinois, 1960

 

[19]Hagan & McCarthy, La théorie du capital social et le renouveau du paradigme des tension et des opportunités en criminologie sociologique, Sociologie et société, XXX, 1, 1998

 

[20]Cohen, Delinquent Boys: the Culture of the Gang, Free Press, Glencoe, Illinois, 1955

 

[21]Kernis & Granneman & Barclay, Stability and level of self esteem as predictors of anger arousal and hostility. Journal of Personality and Social Psychology, 56, 1989

 

[22]Baumeister & Smart & Boden, Relation of threatened egotism to violence and aggression: the dark side of self esteem, Psychology Review, 103, 1, 1996

 

[23]Matza, op. cit.

 

[24]Matza, op. cit.

 

[25]Choquet & Ledoux, Adolescents, enquete nationale, INSERM, Documentation Francaise, Paris, 1994

 

[26]Choquet & Ledoux & Hassler, Rapport ESPAD 1999, contribution INSERM, rapport OFDT, 2001

 

[27]Choquet & Ledoux & Hassler, op. cit.

 

[28]Owens, Two dimensions of self-esteem: reciprocal effects of positive self-worth and self-deprecation on adolescent problems, American Sociological Review, 59, 3, 1994

 

[29]Rosenberg & Schooler & Schoenbach & Rosenberg, Global self-esteem and specific self-esteem, American Sociological Review, 60, 1, 1995

 

[30]Rosenberg & Schooler & Schoenbach & Rosenberg, op. cit.

 

[31]Cloward & Ohlin, op. cit.

 

[32]Cohen, op. cit.

 

[33]Cloward & Ohlin, op. cit.

 

[34]Coslin, Déviances et délinquances à l'adolescence, in Lemel & Roudet, Filles et garcons jusqu'à l'adolescence. Socialisations différentielles, l'Harmattan, Paris, 1999

 

[35]Anslinger & Oursler, Les trafiquants de la drogue, Fayard, Paris, 1961

 

[36]Setbon, Drogue, facteur de délinquance ? D'une image à son usage, Revue francaise de science politique, 45, 5, 1995

 

[37]Cohen, Alcohol, drugs and crime: is “crime” really one-third of the problem ? Addiction, 94, 5, 1999

 

[38]Sykes & Matza, Techniques of neutralization: a theory of delinquency, American Sociological Review, 22, 1957

 

[39]Osgood & Johnston & O'Malley & Bachman, The generality of deviance in late adolescence and early adulthood, American Sociological Review, 53, 1988

 

[40]Brochu & Brunelle, Toxicomanie et délinquance. Une question de style de vie ? Psychotropes, revue internationale des toxicomanies, 4, 1997

 

[41]Osgood & Wilson & O'Malley & Bachman & Johnston, op. cit.

 

[42]Parker & Auerhahn, Alcohols, drugs and violence, Annual Review of Sociology, 24, 1998

 

[43]Parker & Auerhahn, op. cit.

 

[44]Watts & Wright, The drug use-violent delinquency link among adolescent Mexican-Americans, in Drugs and Violence: Causes, Correlates, Consequences, NIDA Res. Monogr. No. 103, Washington, 1990

 

[45]Intoxication and aggression in drugs and crime, in Tonry & Wilson, Crime and Justice: a Review of Research, University of Chicago Press, Chicago, 1990

 

[46]Parker & Auerhahn, op. cit.

 

[47]Kornhauser, Social Sources of Delinquency. An Appraisal of Analytical Models, The University of Chicago Press, Chicago, 1978

 

[48]Merton, Social structure and anomie, American Sociological Review, 3, 5, 1938

 

[49]Merton, Structure sociale, anomie et déviance, in Merton, Elements de théorie et de méthode sociologique, Plon, Paris, 1965 (traduction et adaptation par Mendras, The Social Structure and anomie: Revisions and Extensions, 1949)

 

[50]Hirschi, op. cit.

 

[51]Meier & Miethe, Understanding theories of criminal victimization, Crime and Justice: a Review of Research, 17, 1993

 

[52]Kaplan, Drugs, crime and other deviant adaptations, in Kaplan, Drugs, Crime and Other Deviant Adaptations, Longitudinal Studies, Plenum Press, New York, 1995

 

[53]Cloward & Ohlin, op. cit.

 

[54]Heimer & Matsueda, op. cit.

 

[55]Janvrin & Arenes & Guilbert, Violence, suicide et conduits d'essai, in Arenes & Janvrin & Baudier, Baromètre santé jeunes, 97/98, Editions CFES, Vanves, 1998

 

[56]Lagrange, op. cit.