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Infortunio sul lavoro

Il danno da regresso in favore dell’INAIL è solo quello civilistico
Infortunio sul lavoro
Infortunio sul lavoro

Infortunio sul lavoro: il danno da regresso in favore dell’INAIL è solo quello civilistico

Il danneggiato assume a pieno titolo il diritto a godere di due tutele: il risarcimento del danno civile non patrimoniale e il riconoscimento dell’indennizzo previdenziale


La vicenda in esame trae origine dal ricorso in Cassazione avverso la sentenza del Giudice di Appello con la quale veniva respinta l’impugnativa proposta dagli eredi del titolare della ditta e del   direttore dei lavori ritenuti responsabili dell’infortunio sul lavoro occorso a un dipendente e dichiarati tenuti a risarcire l’Inail della somma dallo stesso Ente corrisposta per le prestazioni economiche erogate in relazione all’evento lesivo.

Con questa significativa ordinanza la Corte di Cassazione (Sezione Sesta Lavoro – ordinanza n. 14655 del 09 maggio 2022) detta un principio di diritto di fondamentale importanza giuridica e di rilevante applicazione pratica, determinando esattamente il criterio, univoco, di determinazione del quantum che l’INAIL può pretendere dai soggetti accertati responsabili per l’infortunio sul lavoro di un dipendente.

In un contesto legislativo, dunque, così ben delineato, oggi la Cassazione con la pronuncia in commento interviene efficacemente in un ambito interpretativo della normativa che non si distingue certamente per chiarezza interpretativa e per uniformità di applicazione pratica, ribadendo comunque la propria costante affermazione secondo la quale, in tema di regresso dell’INAIL, il soggetto responsabile civile ne sia obbligato solo entro gli stretti limiti della responsabilità per danno “civilistico” subito dal lavoratore.

I Giudici di legittimità, pertanto, opportunamente sottolineano che per detto danno deve intendersi quello derivante dall’applicazione dei criteri di diritto sanciti dagli articoli 1221 e 2056 del Codice Civile, rispettivamente in tema di “effetti della mora sul rischio” e ovviamente di “valutazione dei danni”, spettando poi al giudice del merito stabilire se l’importo richiesto in regresso dall’istituto rientri o meno in questo limite.

Il danneggiato, infatti, assume a pieno titolo il diritto a godere di due tutele: il risarcimento del danno civile non patrimoniale ex articolo 2059 Codice Civile e il riconoscimento dell’indennizzo previdenziale ai sensi dell’articolo 13 del Decreto Legislativo n. 38/2000 senza che su di esse si possa mai verificare una possibile sovrapposizione sistematica.

Secondo i giudici di legittimità, invero, questo ragionamento si è basato sull’erroneo convincimento che i criteri di liquidazione del diritto civile e quelli stabiliti dalla normativa in tema di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro vengano completamente a coincidere tra loro, quando invece in realtà essi non solo non collimano concettualmente, ma divergono anche quanto a modalità di calcolo delle percentuali di invalidità nonché alla misura dell’incidenza dell’invalidità sull’attitudine al lavoro.


La vicenda

La vicenda in esame trae origine dal ricorso in Cassazione avverso la sentenza del Giudice di Appello con la quale veniva respinta l’impugnativa proposta dagli eredi del titolare della ditta e del direttore dei lavori ritenuti responsabili dell’infortunio sul lavoro occorso a un dipendente e dichiarati tenuti a risarcire l’Inail della somma dallo stesso Ente corrisposta per le prestazioni economiche erogate in relazione all’evento lesivo.

In particolare, i ricorrenti sullo specifico punto in contestazione ritenevano la sentenza di appello censurabile in sede di legittimità ex articolo 360 Codice Procedura Civile comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 Codice Civile, in tema appunto di regolamentazione delle prove, nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia in merito alla determinazione ed alla esatta quantificazione delle somme pretese dall’Inail in sede di regresso.

La Corte Suprema, dunque, ha accolto detto motivo di ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando la causa dinanzi alla Corte d’Appello, in diversa composizione, per la delibazione del punto secondo le indicazioni di diritto appositamente formulate.


L’azione di regresso dell’INAIL e il suo quantum risarcitorio. Criteri e presupposti di diritto

Con questa significativa ordinanza la Corte di Cassazione detta un principio di diritto di fondamentale importanza giuridica e di rilevante applicazione pratica, determinando esattamente il criterio, univoco, di determinazione del quantum che l’INAIL possa pretendere dai soggetti accertati responsabili per l’infortunio sul lavoro di un dipendente.

Come è noto, infatti, la materia è disciplinata dal D.P.R. n. 1124 del 30 giugno 1965, meglio conosciuto come il Testo Unico sull’assicurazione degli infortuni sul lavoro, e segnatamente dall’articolo 11 che testualmente recita: “L’istituto assicuratore deve pagare le indennità anche nei casi previsti dal precedente articolo, salvo il diritto di regresso per le somme a qualsiasi titolo pagate a titolo d’indennità e per le spese accessorie nei limiti del complessivo danno risarcibile contro le persone civilmente responsabili. La persona civilmente responsabile deve, altresì, versare all’Istituto assicuratore una somma corrispondente al valore capitale dell’ulteriore rendita a qualsiasi titolo dovuta, calcolato in base alle tabelle di cui all’articolo 39 nonché da ogni altra indennità erogata a qualsiasi titolo.

Questa normativa, invero, oggetto di rilevanti modifiche con la Legge di bilancio n. 145 del 2018, ha stabilito che l’INAIL sia comunque tenuta ad erogare le prestazioni previdenziali poste a suo carico in favore del lavoratore infortunato, anche qualora sia riscontrata ed accertata una responsabilità civile del datore di lavoro, fermo restando poi il suo il diritto di agire nei confronti di quest’ultimo, ovvero del soggetto civilmente responsabile, per ottenerne il rimborso.

Già solo da questa impostazione di fondo, si denota chiaramente il rilievo imprescindibile che il Legislatore ha voluto riconoscere alla sicurezza sul lavoro come valore fondamentale del rapporto di lavoro e, dunque, del sinallagma civilistico che con questo si viene a creare tra il datore di lavoro ed il dipendente.

Si è inteso, infatti, in tal modo garantire in primis il lavoratore danneggiato assicurandogli immediatamente la prestazione previdenziale, salvo poi solo successivamente andando a regolare con il soggetto civilmente responsabile dell’infortunio le conseguenze economiche derivanti dall’evento lesivo, al fine anche di evitare che queste rimangano a carico della collettività nonostante l’accertata colpevole condotta individuale.

D’altra parte, il valore sociale indiscutibilmente individuabile da queste norme risiede anche nella statuizione con la quale sempre il soggetto civilmente responsabile del sinistro sia dichiarato tenuto a versare all’INAIL anche un importo pari al valore capitale della rendita dovuta e di ogni altra indennità liquidati a qualsiasi titolo, nonché nella possibilità per il giudice del merito di tenere in debito conto la condotta del responsabile civile sia prima che dopo l’evento lesivo e l’adozione, da parte dello stesso, delle misure necessarie per aumentare i livelli di sicurezza e salute sul lavoro, al fine di riconoscergli anche una riduzione del rimborso dovuto.

Si tratta, quindi, di una visuale complessiva della tematica in parola quanto mai illuminata che muove, appunto, da presupposti normativi assolutamente condivisibili e soprattutto trasversali e di autentica giustizia sociale, sol che si consideri come, ad esempio, il comma 3 del citato articolo 11 legittimi l’azione di regresso dell’INAIL addirittura nei confronti dello stesso lavoratore infortunato quando l’evento lesivo sia accaduto per dolo di quest’ultimo e ciò sia stato accertato nelle competenti sedi giudiziarie penali (Cass. civ. Sez. lavoro n. 21112 del 04 agosto 2008).

In un contesto legislativo, dunque, così ben delineato, oggi la Cassazione con la pronuncia in commento interviene efficacemente in un ambito interpretativo della normativa che non si distingue certamente per chiarezza interpretativa e per uniformità di applicazione pratica, ribadendo comunque la propria costante affermazione secondo la quale, in tema di regresso dell’INAIL, il soggetto responsabile civile ne sia obbligato solo entro gli stretti limiti della responsabilità per danno “civilistico” subito dal lavoratore.

I Giudici di legittimità, pertanto, opportunamente sottolineano che per detto danno deve intendersi quello derivante dall’applicazione dei criteri di diritto sanciti dagli articoli 1221 e 2056 del Codice Civile, rispettivamente in tema di “effetti della mora sul rischio” e ovviamente di “valutazione dei danni”, spettando poi al giudice del merito stabilire se l’importo richiesto in regresso dall’istituto rientri o meno in questo limite (la Corte Suprema, in particolare, rammenta le proprie sentenza n. 5385 del 2018, n. 255 del 2018 e n. 17960 del 2006).

Come affermato anche dalle Sezioni Unite (sentenza n. 12566 del 22 maggio 2018), le somme che il danneggiato si sia visto liquidare dall’INAIL a titolo di rendita per inabilità permanente vanno detratte dall’ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile civile, non avendo esso infortunato legittimazione all’azione risarcitoria per la quota corrispondente all’indennizzo assicurativo riscosso o riconosciuto in suo favore, ma conservando soltanto il diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla prestazione assicurativa.

In definitiva, dunque, si attesta ancora di più la totale distinzione ontologica e concettuale, oltre che giuridica, tra le anzidette due tipologie di danno alla persona, dal momento che quelle per danno “patrimoniale” e “non patrimoniale” (quest’ultimo contrassegnato dalle voci ormai note di danno biologico, esistenziale, morale, ecc.), proprie e tipiche del risarcimento civile, nulla hanno a che vedere con il differente “indennizzo previdenziale” corrisposto dall’INAIL, trattandosi in questo caso di una prestazione sostanzialmente sociale che, per la determinazione del danno patrimoniale, si basa su presunzioni che prescindono dall’esistenza di un danno effettivo.

Sotto un profilo squisitamente procedimentale, quindi, alla determinazione del danno c.d., “civilistico, concretamente individuato nella specificità del caso oggi trattato e generalmente calcolato secondo le tabelle (milanesi o a volte romane) che i vari Tribunali sono soliti applicare, deve seguire l’accertamento di quello “previdenziale” come effettivamente liquidato dall’INAIL (normalmente si considerano le voci elencate ai numeri da 1 a 6 dell’articolo 66 del D.P.R. 1124/1965 – indennità giornaliera “temporanea”; rendita “permanente”; assistenza personale continuativa; rendita “ai superstiti”; cure mediche, chirurgiche, accertamenti; apparecchi protesici).

Rimane, poi, interamente a carico del soggetto responsabile civile il danno “aggiuntivo” o anche noto come “differenziale” (vedi in proposito mia nota “Infortunio sul lavoro: per ottenere il “danno differenziale” è valido il fatto accertato in sede civile” in questa Rivista, 18 marzo 2022), consistente, appunto, in quelle voci escluse dall’indennizzo dell’Ente previdenziale, quali ad esempio il danno morale/esistenziale soggettivo non correlato al biologico (Cass. n. 9083 del 18 maggio 2020, Pres. Berrino Est. Negri della Torre, in Lav. nella giur. 2020, 996) o il danno alle cose (Cass. S.U. n. 13546 del 12 giugno 2006).

In definitiva, quindi, è ovvio che il danneggiato deve essere integralmente ristorato dei danni subiti dai due diversi soggetti a tanto tenuti, l’INAIL quale ente previdenziale e il responsabile civile, generalmente coincidente con il datore di lavoro ma talvolta anche individuato in altre figure del ciclo produttivo e del sistema aziendale della sicurezza sul lavoro, in modo che alcuna delle voci di danno possa essere illegittimamente duplicata e si possa verificare una indebita percezione di somme maggiorate rispetto al dovuto (in tal senso vedi sentenza Trib. Roma 08 gennaio 2009).

Il danneggiato, infatti, assume a pieno titolo il diritto a godere di due tutele: il risarcimento del danno civile non patrimoniale ex articolo 2059 Codice Civile e il riconoscimento dell’indennizzo previdenziale ai sensi dell’articolo 13 del Decreto Legislativo n. 38/2000 senza che su di esse si possa mai verificare una possibile sovrapposizione sistematica.

Nella regolamentazione poi dei rapporti di rivalsa o regresso tra l’Ente previdenziale e il soggetto responsabile civile, naturalmente, il primo avrà diritto a esercitare tale facoltà nei confronti del secondo esclusivamente in applicazione dei principi di diritto sopra ricordati ed oggi ulteriormente ribaditi dalla Corte Suprema (in tal senso si è espressa anche la Corte Costituzionale con sentenza n. 134 del 1971).

Con la sentenza in commento, infatti, la Cassazione ha giustamente stigmatizzato la decisione del Giudice dell’appello che aveva provveduto alla liquidazione dell’intera somma come richiesta dall’Inail in rivalsa e corrispondente esattamente a quanto erogato all’infortunato quale indennizzo per l’incidenza dell’invalidità sulla sua capacità lavorativa, omettendo di stabilire preventivamente quanto sarebbe spettato allo stesso in risarcimento dei danni patrimoniali in applicazione dei principi di diritto civile.

Secondo i giudici di legittimità, invero, questo ragionamento si è basato sull’erroneo convincimento che i criteri di liquidazione del diritto civile e quelli stabiliti dalla normativa in tema di assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro vengano completamente a coincidere tra loro, quando invece in realtà essi non solo non collimano concettualmente, ma divergono anche quanto a modalità di calcolo delle percentuali di invalidità nonché alla misura dell’incidenza dell’invalidità sull’attitudine al lavoro (vedi Cass. n. 25 del 2008).

Ontologicamente, del resto, già la prima differenziazione tra le due forme di tutela si ha anche solo sul piano definitorio, poiché ad esempio la definizione del danno biologico coperto dall’INAIL si basa sulla sussistenza di una lesione all’integrità psico-fisica del lavoratore suscettibile di valutazione medico legale secondo le ricadute di effetti dinamico relazionali di un uomo medio, mentre sotto il profilo civilistico esso assume i connotati della lesione alla stessa integrità psicofisica della persona ma secondo i canoni fissati dalla scienza medica.

La seconda differenziazione attiene inoltre alla diversità di azione e di soggetto attore di questa, dal momento che in sede civile il lavoratore infortunato può vantare la pretesa nei confronti del datore di lavoro del risarcimento del danno biologico, ma non può avanzare identica pretesa verso l’INAIL che, come detto, erogherebbe soltanto l’indennizzo previdenziale, né detto ente con un’azione di regresso ex articolo 10 Decreto Legislativo 38/2000 potrebbe mai farla valere confronti del datore di lavoro.

La terza differenziazione tra tutele riguarda poi il quantum della pretesa risarcitoria, poiché già l’indennizzo previdenziale viene erogato a partire da postumi pari al 6% e sulla base di tabelle INAIL che sono state introdotte appositamente dal D.M. 12 luglio 2000 ex articolo 13 D.Lgs. n. 38 del 2000, mentre il danno civilistico è liquidato sulla base di criteri elaborati dalle principali sedi di Tribunale.

Da ultimo, ma non meno importante, vi è anche una fondamentale differenza di funzione, dal momento che la disciplina delineata in sede previdenziale si ispira ai principi basilari dell’assicurazione INAIL e, come ampiamente detto, assolve ad una prioritaria esigenza sociale, mentre la tutela civilistica mira al ristoro del danno biologico in un rapporto negoziale strettamente inter partes.

La stessa Corte Costituzionale (Sent. n. 87/1991), del resto, ha chiarito come il danno previdenziale sia finalizzato a garantire la libertà dal bisogno, mentre il danno civile ha la funzione di sanzionare e prevenire l’illecito, e non è un caso che il Legislatore all’articolo 13 abbia voluto espressamente parlare di “indennizzo” e non di “risarcimento” come riscontrabile invece in sede di Codice civile.

Questa terminologia, infatti, non può essere ricondotta ad una mera disquisizione nominalistica, ma risponde piuttosto ad una precisa volontà di differenziazione della ratio tra le due tipologie oggi considerate, dal momento che il risarcimento ha lo scopo di ristorare il danno provocato da una condotta colposa o dolosa del datore di lavoro e presuppone la prova della condotta, dell’elemento soggettivo oltre che ovviamente del danno e del nesso causale, mentre l’indennizzo previsto nel sistema di assicurazione obbligatoria da infortuni sul lavoro è corrisposto solo se il danno sia conseguenza di evento avente origine in causa violenta ed accaduto in occasione di lavoro, senza che sul suo riconoscimento incidano né la colpa del datore di lavoro né la colpa del lavoratore, se non con il solo limite del rischio effettivo.

Ciò, oltretutto, determina anche una differente ed autonoma legittimazione costituzionale dei due rispettivi sistemi poiché quello indennitario trova il suo fondamento nell’articolo 38 Cost. che impone di garantire ai lavoratori colpiti da eventi lesivi causati dall’attività lavorativa mezzi adeguati alle esigenze di vita, mentre quello risarcitorio si basa sull’articolo 32 Cost. e, dunque, sull’esigenza di piena ed integrale tutela del diritto alla salute.

La natura altamente sociale della normativa previdenziale, del resto, spiega ampiamente il perché si sia voluto riconoscere la corresponsione di un minimum garantito anche nelle ipotesi in cui non sia ravvisabile la colpa di alcuno, per mezzo di un sistema di tutela che, appunto, indennizza, ma non risarcisce integralmente.

Devono quindi essere senz’altro confermate la coesistenza e la perfetta complementarietà tra le due forme di garanzia oggetto della nostra attenzione perché esse rappresentano il valore in termini assoluti nel nostro mercato del lavoro oltre che una delle più alte conquiste sociali in materia di tutela della sicurezza del lavoro.

Ecco dunque perché assurge a fondamentale principio di diritto la linea interpretativa giustamente adottata dalla Corte Suprema anche con la sentenza in commento che inibisce di fatto al giudice di merito di prendere in considerazione la valutazione effettuata dall’Ente previdenziale a mezzo dei propri sanitari ristabilendo in tal modo un’effettiva parità processuale che altrimenti sarebbe ingiustamente violata e lesa a vantaggio di una parte, oltretutto quella più forte economicamente, rispetto al soggetto o ai soggetti responsabili civili.

Questo, in definitiva, ribadisce nelle giuste intenzioni dei giudici di legittimità ancora una volta il primato del potere giurisdizionale e la supremazia di quelle che, nello svolgimento di detto potere, sono le risultanze probatorie del legittimo contraddittorio processuale, unici elementi di fatto e di diritto sui quali fondare una decisione così delicata quale appunto quella tendente al giusto ed integrale ristoro del danno subito a seguito di un infortunio sul lavoro.