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Art. 25-bis.1 - Delitti contro l’industria e il commercio [18]

1. In relazione alla commissione dei delitti contro l’industria e il commercio previsti dal codice penale, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:

a) per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-ter e 517-quater la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;

b) per i delitti di cui agli articoli 513-bis e 514 la sanzione pecuniaria fino a ottocento quote.

2. Nel caso di condanna per i delitti di cui alla lettera b) del comma 1 si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’ articolo 9, comma 2.

[18] Articolo inserito dall’art. 15, comma 7, lett. b), L. 23 luglio 2009, n. 99.

Elenco dei reati richiamati dalla norma

Art. 513 CP (Turbata libertà dell’industria o del commercio)

Art. 513-bis CP (Illecita concorrenza con minaccia o violenza)

Art. 514 CP (Frodi contro le industrie nazionali)

Art. 515 CP (Frode nell’esercizio del commercio)

Art. 516 CP (Vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine)

Art. 517 CP (Vendita di prodotti industriali con segni mendaci)

Art. 517-ter CP (Fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale)

Art. 517-quater CP (Contraffazione di indicazioni geografiche denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari)

Si ricorda che con Decreto ministeriale del 20 aprile 2015 (al quale sono seguiti due ulteriori Decreti del 30 aprile e del 27 luglio dello stesso anno) il Ministro della Giustizia ha istituito una commissione per l’elaborazione di proposte di intervento sulla riforma dei reati in materia agroalimentare, affidandone la presidenza al Dr. Giancarlo Caselli.

La commissione ha concluso i lavori il 14 ottobre del 2015 consegnando al Ministro uno schema di disegno di legge e le relative linee guida illustrative.

A pagina 18 di questo secondo documento si legge: “Nel vigente quadro applicativo, come risulta dai casi giudiziari più rilevanti, tre sono le esigenze più pressanti: estendere la responsabilità degli enti ai reati alimentari di maggiore gravità; incentivare l’applicazione concreta delle norme in tema di responsabilità degli enti, da parte dell’autorità di polizia giudiziaria e della stessa autorità giudiziaria; favorire l’adozione e l’efficace attuazione di più puntuali modelli di organizzazione e di gestione da parte delle imprese anche di minore dimensione.

A questo proposito, è apparso utile non limitarsi al semplice inserimento di una norma che estenda la responsabilità amministrativa a determinati reati alimentari, bensì costruire un’apposita e specifica disciplina dei modelli di organizzazione e di gestione con specifico riguardo agli operatori alimentari, in prospettiva esimente od attenuante della responsabilità, traendo spunto dalle modalità di applicazione della normativa in materia di sicurezza del lavoro”.

L’1° dicembre 2017 il Consiglio dei Ministri lo ha approvato e indirizzato alle Camere ma la fine della XVII legislatura ne ha impedito l’esame. Nell’attuale legislatura risultano avviate in Parlamento varie iniziative tra le quali una proposta di legge della senatrice Elena Fattori contenente nuove norme in materia di reati agroalimentari (Atto Senato n. 283), presentata il 18 aprile 2018 e di cui non è ancora iniziato l’esame, e un’ulteriore proposta del luglio 2018, presentata dal senatore De Petris ed altri, volta a istituire una commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione, dell’agropirateria e della violazione delle normative concernenti il commercio interno ed internazionale dei prodotti agroalimentari e del mare.

 

Rassegna di giurisprudenza

In generale

Chiunque detiene per la somministrazione un prodotto non conforme alla normativa deve rispondere a titolo di colpa per non aver fatto eseguire i controlli necessari ad evitare l’avvio del prodotto al consumo; pertanto il legale rappresentante od il gestore di una società è responsabile per le deficienze della organizzazione di impresa e per la mancata vigilanza sull’operato del personale dipendente, salvo che il fatto illecito non appartenga in via esclusiva ai compiti di un preposto, appositamente delegato a tali mansioni (Sez. 3, 16473/2013).

La delega di funzioni nell’esercizio di un’attività di impresa esonera il titolare dalla responsabilità penale connessa alla posizione di garanzia se è conferita per iscritto al delegato, essendo inidonea l’attribuzione in forma orale.

Ne consegue, ai fini della configurazione di un’eventuale responsabilità del delegato, che questa deve essere esclusa nel caso in cui vi sia l’attribuzione meramente verbale di una qualifica, non accompagnata dalla specifica individuazione delle funzioni e delle responsabilità che a tale qualifica conseguono (nel caso di specie, il giudice di merito non ha fatto corretta applicazione di tali principi, perché si è limitato a osservare che l’imputata era stata nominata verbalmente capo negozio e che dal verbale di sequestro risultava quale “responsabile del punto vendita”, e ha dedotto da tali elementi – oltre che dal richiamo a un non meglio precisato “documento di formazione ed addestramento del personale in materia di igiene alimentare” il cui contenuto non è stato riportato in sentenza neanche in forma riassuntiva – che l’imputata stessa fosse tenuta alla vigilanza sulla conservazione e la qualità dei prodotti, pur in presenza di un diverso soggetto che era stato delegato per iscritto e in modo specifico e circostanziato a tali incombenze nell’ambito dello stesso punto vendita (Sez. 3, 27413/2014).

 

Turbata libertà dell’industria o del commercio

Va ritenuto che, essendo il bene giuridico sacrificato dall’offesa descritta dalla norma dell’art. 513 CP il libero e normale svolgimento della industria e del commercio, il cui turbamento si riverbera sull’ ordine economico (Sez. 3, 3445/1995), se anche può rilevare l’offesa nei confronti del singolo imprenditore, è penalmente rilevante, però, unicamente una condotta fraudolenta che miri, appunto, al turbamento del normale svolgimento dell’industria e del commercio predetti, tale non essendo invece quella che si limiti a predisporre, come nella specie, atti di concorrenza sleale che, certamente, non possono incidere “a monte”, alterandola, sulla funzionalità dell’impresa “rivale” (nella specie, normalmente continuata) ma, unicamente, “a valle”, sulla destinazione dell’attività economica, ovvero sul target dell’attività produttiva e, cioè, sul raggiungimento del consumatore.

Ne è riprova il fatto che la condotta di illecita concorrenza trova collocazione penale nell’ambito della diversa figura di reato di cui all’art. 513-bis CP ove però accompagnata da violenza o minaccia, diversamente rivestendo, in assenza di tali requisiti, valenza di mero inadempimento di carattere civilistico ex art. 2958 CC (Sez. 3, 12227/2015).

La condotta di chi altera la concorrenza ricorrendo a mezzi fraudolenti integra il reato di cui all’art. 513 CP solo qualora l’azione sia posta in essere anche al fine specifico di turbare o impedire un’industria o un commercio e, cioè, di attentare alla libertà di iniziativa economica (Sez. 2, 20647/2010).

 

Illecita concorrenza con minaccia o violenza

Integra il delitto di cui all’art. 513-bis CP la condotta tesa a sovvertire il normale svolgimento delle attività imprenditoriali attraverso comportamenti violenti che incidono direttamente sul funzionamento dell’impresa; si configura, invece, il delitto di estorsione nel caso in cui l’azione violenta si risolva in coazione fisica e psichica dell’imprenditore e non si traduca in una manipolazione violenta e diretta dei meccanismi di funzionamento dell’attività economica concorrente (Sez. 2, 53139/2016).

In materia di illecita concorrenza con violenza o minaccia ai sensi dell’art. 513-bis CP, si è registrato nella giurisprudenza di legittimità un consapevole contrasto ermeneutico. Secondo un primo orientamento, ancorato al dato testuale della norma ed al principio di stretta legalità e tassatività, integrano il reato di cui all’art. 513-bis CP soltanto quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, mentre non vi rientrano gli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ostacolare l’altrui libera concorrenza (Sez. 2, 49365/2016).

Ne discende che, nell’ipotesi di condotte estrinsecantesi in azioni intimidatorie, poste in essere nell’esercizio di attività imprenditoriale, finalizzate a coartare e limitare l’altrui libera concorrenza, ma non integranti “atti di concorrenza” nel senso tecnico-giuridico, non è configurabile il reato di cui all’art. 513-bis CP, ferma restando, tuttavia, l’eventuale riconducibilità della fattispecie concreta ad altre ipotesi di reato (quali quelle di estorsione o di concussione).

Secondo un orientamento teleologicamente orientato, integra invece il reato d’illecita concorrenza con violenza o minaccia qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva configura un atto di concorrenza illecita (Sez. 3, 44169/2008).

Il principio è stato riaffermato alla luce del complessivo quadro normativo in tema di concorrenza risultante anche dalle fonti di matrice comunitaria, evidenziando come siano da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti sia “attivi” che “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, siano idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Sez. 2, 18122/2016).

Nel tentativo di comporre le opposte linee interpretative, di recente, si è affermato che la condotta materiale del delitto previsto dall’art. 513-bis CP può essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 CC, precisando altresì che detta norma - da interpretare alla luce della normativa comunitaria e della L.  287/1990 - contempla, ai numeri 1) e 2) i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, mentre, al n. 3), prevede una norma di chiusura, secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda (Sez. 3, 3868/2016).

A sostegno dell’affermazione di principio si è evidenziato, in prima battuta, come la ratio della disposizione, introdotta dalla L. Rognoni-La Torre (L. 464/1982), si individui nella “tutela della concorrenza” e, quindi, dell’ordine economico e del libero svolgimento di attività economiche senza interferenza con comportamenti di violenza o minaccia e come, d’altra parte, essendo stato espunto dal testo definitivo il riferimento alla criminalità organizzata, con l’inserimento dell’art. 513-bis CP nel Titolo VIII, l’ambito di applicazione sia diventato più esteso e non limitato ai comportamenti tipicamente mafiosi. Ciò posto, si è osservato come, in assenza di una nozione penalistica di “atto di concorrenza”, assuma rilievo fondante l’art. 2598 CC che individua gli atti di concorrenza sleale che trovano tutela in ambito civilistico.

Tale norma, anche alla luce degli arresti della giurisprudenza civile di legittimità, prevede diverse tipologie di atti di concorrenza sleale, fra cui al n. 3)  come già notato  anche tutti quei comportamenti, distinti e diversi da quelli tipizzati nei numeri 1) e 2), contrari “ai principi della correttezza professionale” ed idonei a danneggiare l’altrui azienda (Sez. 1 civile, 25652/2014; SU civili, 2018/1985 ed altre). Orbene, proprio prendendo spunto dal ragionamento svolto nella pronuncia da ultimo rammentata, si ritiene che, ai fini del reato di cui all’art. 513-bis CP, il concetto di “atti di concorrenza” debba essere interpretato tenendo conto della norma di riferimento in materia, id est all’art. 2598 CC.

Occorre, nondimeno, precisare come, nel momento in cui una disposizione prevista dall’ordinamento giuridico per disciplinare un fenomeno in campo civile sia utilizzata a fini ermeneutici per dare significato ad un concetto utilizzato in ambito penale, salvo una diversa indicazione normativa, detta disposizione non possa essere riduttivamente letta secondo l’ermeneusi seguita nell’applicazione giurisprudenziale in quello specifico settore del diritto (nella specie, civile), che  per definizione  è destinato a regolare il rapporto o l’accadimento sotto un’ottica completamente diversa da quella penalistica.

Si ritiene pertanto che il n. 3 dell’art. 2598 CC, là dove fa riferimento  con una espressione all’evidenza “aperta”  ad “ogni altro mezzo” “non conforme ai principi della correttezza professionale” e “idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, non possa non comprendere fra gli atti di “concorrenza sleale” anche quei comportamenti violenti o minacciosi in danno di un’azienda concorrente atti ad alterare la libera competizione fra imprese nel procacciamento degli affari, sia pure normalmente estranei al fenomeno della “concorrenza sleale” in ambito civilistico e commerciale cui appunto pertiene la disciplina dello stesso art. 2598 CC, in quanto condotte certamente integranti un “altro mezzo” “contrario” “alla correttezza professionale” ed “idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

Mette d’altronde conto di notare come tale lettura estensiva della disposizione  nell’abbracciare nel concetto di “atto concorrenziale” oggetto della previsione “aperta” dell’art. 2598 n. 3 CC qualunque comportamento che possa alterare la libera e leale concorrenza fra imprese  risulta armonica con il bene giuridico tutelato dalla fattispecie, che si individua non solo nel buon funzionamento dell’intero sistema economico, ma anche nella libertà delle persone di autodeterminarsi nello svolgimento delle attività produttive.

Diversamente opinando si dovrebbe pervenire all’irragionevole conclusione che i comportamenti costrittivi che – a prescindere dal fatto di integrare ulteriori condotte penalmente rilevanti – siano specificamente diretti a far recedere un competitor dal partecipare ad una gara volta all’aggiudicazione di un appalto, piuttosto che dal candidarsi ad eseguire talune opere, non siano idonei ad alterare l’ordinario ed il libero rapportarsi degli operatori in un’economia di mercato e non possano dunque inquadrarsi nel novero di “ogni altro mezzo” “non conforme ai principi della correttezza professionale” né “idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

Si deve quindi affermare il principio di diritto secondo il quale il reato di cui all’art. 513- bis CP è configurabile in tutti i casi in cui l’agire coercitivo connotato da violenza o minaccia, esplicato nell’ambito dell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o produttiva, integri un “atto tipicamente concorrenziale” e che, nondimeno, al fine di definire l’ambito di tale concetto, occorra avere riguardo alle ipotesi di “concorrenza sleale” previste dall’art. 2598 CC nella sua integralità.

Se ne inferisce che, ai fini della enucleazione degli “atti di concorrenza” rilevanti ai fini dell’incriminazione de qua, non potrà non considerarsi l’ipotesi prevista dal n. 3) del citato art. 2598 CC – residuale ed all’evidenza “aperta” –, alla stregua della quale “compie atti di concorrenza sleale chiunque” “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, fra questi non potendosi non annoverare tutti quei comportamenti violenti o minatori che siano specificamente diretti ad alterare l’ordinario ed il libero rapportarsi degli operatori in un’economia di mercato (Sez. 6, 50096/2018).

 

Frodi contro le industrie nazionali

È innegabile l’incertezza che pone l’espressione “nocumento all’industria nazionale”. La dottrina ha suggerito una serie di criteri che certamente possono contribuire a definire la nozione in questione e che il Collegio ritiene di dover senz’altro recepire siccome condivisi.

Si può senz’altro accedere alla prospettazione di danno all’industria nazionale inteso come ripercussione su un singolo settore, ma si deve ritenere che il danno medesimo, stante l’ampiezza della nozione di “industria nazionale”, debba essere comunque di proporzioni consistenti, tali da ingenerare, quale conseguenza, la diminuzione del volume di affari o l’offuscamento del buon nome dell’industria nazionale o di un suo settore, facendo venire meno negli acquirenti l’affidamento sulla originalità del prodotto del mercato nazionale.

Non è sufficiente, peraltro, il danno ad una singola azienda posto che nei casi in cui l’oggetto di tutela è stato ravvisato nella attività della singola impresa il legislatore ha utilizzato espressioni diverse quali “l’esercizio di un’industria” come è dato rilevare, ad esempio, dalla formulazione dell’art. 513 CP. Ciò posto ed in quanto di diretto interesse per il ricorso in esame, va in premessa aggiunto anche che, come già chiarito da questa Corte, il reato di cui all’art. 514 CP siccome prevede come punibile il commercio anche all’estero di prodotti industriali con marchi contraffatti, ove ne sia derivato nocumento all’industria nazionale, delinea un reato di evento e non di mera condotta.

La ricorrenza del delitto ex art. 514 CP richiede quindi l’immissione del prodotto sul mercato in misura tale da recare nocumento all’industria nazionale e quest’ultimo aspetto deve essere oggetto di prova. L’immissione del prodotto contraffatto sul mercato locale, specialmente se sporadica, potrà dunque rilevare solo se venga fornita la prova del riflesso in termini di danno della condotta accertata sull’andamento dell’industria nazionale.

Non possono essere ritenute sufficienti al riguardo mere considerazioni di ordine logico, né basta richiamare nella specie il numero degli esemplari contraffatti.

Ribadita, infatti, la necessità di prova circa il nocumento all’industria nazionale per la sussistenza del reato de quo, si deve necessariamente ritenere che il dato numerico degli esemplari contraffatti, se certamente concorre nella valutazione, non possa nel caso in esame da solo assumere carattere dirimente tenuto conto del fatturato annuo del settore.

Esclusa la ravvisabilità della fattispecie dell’art. 514 CP, è tuttavia indubbio che la condotta di porre in vendita o mettere comunque in circolazione prodotti industriali con marchi o segni distintivi nazionali contraffatti o alterati costituisca comunque il reato ex art. 474 CP (Sez. 3, 38906/2013).

 

Frode nell’esercizio del commercio

Il delitto ex art. 515 CP è posto a tutela della correttezza e del leale esercizio del commercio a fronte di condotte le quali si sostanzino nella messa in commercio di beni che presentino caratteristiche merceologiche diverse da quelle indicate nel marchio o nell’etichettatura, finanche sul versante della loro origine o provenienza, sempre più spesso evocativa, nel messaggio pubblicitario rivolto ai potenziali acquirenti, di un particolare pregio della materia prima ovvero di una specifica connotazione qualitativa del processo produttivo (Sez. 3, 34188/2017).

 

Fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale

Il reato di messa in circolazione di beni prodotti in violazione di un titolo di proprietà industriale, previsto dal secondo comma dell’art. 517-ter CP, ha natura di reato di pericolo, per la cui sussistenza è sufficiente l’astratta confondibilità del prodotto imitato, a prescindere dalla concreta induzione in errore dei consumatori circa la provenienza del prodotto dal titolare della privativa. Conseguentemente, il comprovato acquisto dei beni provenienti da tale delitto, integra il reato di ricettazione (Sez. 7, 10891/2018).

Il reato previsto dall’art. 517-ter CP, che tutela esclusivamente il patrimonio del titolare della proprietà industriale, ricorre sia nell’ipotesi di prodotti realizzati ad imitazione di quelli con marchio altrui, sia nell’ipotesi di fabbricazione, utilizzazione e vendita di prodotti “originali” da parte di chi non ne è titolare.

Tra questi rientra anche il modello di utilità che, a differenza dell’invenzione industriale, la quale implica il superamento delle preesistenti cognizioni tecniche attraverso la realizzazione di un prodotto nuovo suscettibile di concrete realizzazioni nel campo industriale, opera invece sul piano della maggiore efficacia e comodità di impiego di un oggetto preesistente al quale viene conferita un’utilità nuova ed ulteriore.

A tal fine, essendo il bene giuridico protetto dalla normativa penale in materia di marchi, brevetti e segni distintivi delle opere dell’ingegno o di prodotti industriali costituito dall’interesse pubblico preminente della fede pubblica, oltre a quello privato del soggetto inventore, la tutela necessaria a garantire una risposta repressiva efficace al fenomeno della contraffazione, deve essere apprestata sin dal momento in cui il modello di utilità, al pari di ogni altro segno distintivo, sia stato depositato e registrato nelle forme di legge all’esito della prevista procedura amministrativa presso l’ufficio competente.

Potendo tuttavia le norme incriminatrici in tema di contraffazione e alterazione di marchi o dei segni trovare applicazione sempre che siano state osservate le norme delle leggi interne o delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale, allorquando si assuma, così come eccepito nella specie dagli odierni indagati, che il marchio o il segno distintivo registrato difetti di validità, dovrà necessariamente essere condotto un giudizio di accertamento da parte del giudice di merito in tal senso, presupponendo l’invalidità dell’opera il suo riconoscimento formale.

Sebbene debba reputarsi la competenza del giudice penale a decidere in via incidentale, sulla validità o meno di un marchio, registrato sia in sede comunitaria che nazionale, quando la questione assuma rilevanza ai fini della qualificazione giuridica del fatto oggetto dell’imputazione, ciò vale per il solo giudizio di merito, risultando siffatto accertamento incompatibile con il procedimento cautelare, nel quale non è consentito instaurare un processo nel processo né è possibile, per l’assenza del supporto di riferimento dell’indispensabile attività istruttoria, effettuare valutazioni su elementi che vadano al di là del dato formale della pubblicità della registrazione, ma dovendo, invece, l’accertamento della fattispecie di reato essere condotta sulla base della congruità degli elementi rappresentati al fine di considerare se essi consentono di sussumere l’ipotesi formulata in quella tipica.

Il presupposto cautelare del “fumus commissi delicti” nei procedimenti per i reati di contraffazione e alterazione di marchi o segni distintivi è configurabile, in fase cautelare, ove questi ultimi risultino depositati, registrati o brevettati nelle forme di legge, non richiedendosi in tale fase alcuna indagine in ordine alla loro validità sostanziale (Sez. 3, 38847/2018).

Il delitto di fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale è integrato anche nel caso di opere di design industriale destinate alla produzione seriale, le quali sono tutelabili a norma dell’art. 2, n. 10, della L. 633/1941 ove ricorrano le condizioni normativamente indicate, date dal carattere creativo e dal contenuto artistico dell’opera (fattispecie avente ad oggetto la questione della tutelabilità autorale di modelli della produzione seriale della Thun SPA, in cui la Corte ha ritenuto correttamente integrato il reato di cui all’art. 517-ter CP, osservando che la caratteristica propria delle opere di cui all’art. 2, n. 10 Legge sul diritto di autore, risiede nel fatto che esse, a differenza di quelle figurative, rientranti nella categoria di cui al n. 4 dello stesso art. 2, trovano la loro collocazione nella fase progettuale di un oggetto destinato a una produzione seriale, quale è quella industriale) (Sez. 3, 2402/2018).

Ai  fini dell’integrazione dei reati di cui agli artt. 473 e 474 CP, posti a tutela del bene giuridico della fede pubblica, è necessaria la materiale contraffazione o alterazione dell’altrui marchio o segno distintivo che siano tali da ingenerare confusione nei consumatori e da nuocere al generale affidamento, a differenza del reato previsto dall’art. 517-ter CP, che tutela esclusivamente il patrimonio del titolare della proprietà industriale, il quale ricorre sia nell’ipotesi di prodotti realizzati ad imitazione di quelli con marchio altrui, sia nell’ipotesi di fabbricazione, utilizzazione e vendita di prodotti “originali” da parte di chi non ne è titolare (Sez. 3, 14812/2017).

 

Contraffazione di indicazioni geografiche denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari

il delitto previsto dall’art. 517-quater CP configura il nuovo reato di contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari. Si tratta di un delitto doloso procedibile d’ufficio e punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a 20.000 €. Il reato è integrato dalle condotte di contraffazione od alterazione dei segni distintivi (indicazioni e denominazioni) di origine geografica e da quelle di introduzione nel territorio dello Stato, detenzione per la vendita, offerta in vendita diretta ai consumatori e messa in circolazione dei prodotti con i segni mendaci.

Tale nuova figura di reato afferma in maniera esplicita la rilevanza penale della contraffazione e dell’alterazione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari, fornendo una tutela anche più ampia di quella riconducibile all’art. 517 CP, perché l’art. 517-quater CP non richiede l’idoneità delle indicazioni fallaci ad ingannare il pubblico dei consumatori, orientando la tutela verso gli interessi economici dei produttori titolati ad utilizzare le indicazioni geografiche o le denominazioni d’origine.

Per la sussistenza del reato non è richiesto che l’origine del prodotto agroalimentare sia tutelata, ai sensi dell’art. 11 D. Lgs. 30/2005 (codice della proprietà industriale), attraverso la registrazione di un marchio collettivo, la cui contraffazione potrà, dunque, integrare anche i reati di cui agli artt. 473 o 474 CP, attesa la diversità dei beni giuridici tutelati e la mancata previsione nell’art. 517-quater CP di clausole di riserva. La punibilità del reato è comunque condizionata dal quarto comma della disposizione al rispetto della normativa interna, comunitaria ed internazionale, posta a tutela delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (Sez. 3, 28354/2016).