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Diffamazione tramite Facebook: la semplice segnalazione o diffida di un utente non obbliga il gestore a chiudere la pagina

Diffamazione tramite Facebook: la semplice segnalazione o diffida di un utente non obbliga il gestore a chiudere la pagina
Diffamazione tramite Facebook: la semplice segnalazione o diffida di un utente non obbliga il gestore a chiudere la pagina

di Jacopo Antonelli

 

Tribunale di Roma, sez. Diritti della persona, ord. 22 giugno 2018 

 

Il gestore di una piattaforma informatica non è gravato da alcun onere di monitoraggio preventivo dei contenuti ivi pubblicati, ma è tenuto ad effettuare un controllo successivo in caso di segnalazione di fatto illecito da parte di un destinatario del servizio stesso. Un obbligo di rimozione di contenuti – in mancanza o comunque prima che intervenga un eventuale provvedimento giudiziale – può però ritenersi sussistente solo ove via sia una evidente illiceità degli stessi.

 La straordinaria diffusione di Facebook ha portato con sé, tra l’altro, l’amplificarsi del fenomeno della creazione, da parte di ignoti, di pagine specificamente dedicate a un argomento o a una persona, generalmente di una certa notorietà, in cui il fondamento e la ragione della creazione di questi spazi ad personam non è di norma una passione o un amore incondizionato verso quel determinato personaggio, quanto, al contrario, la contrarietà a ciò che quell’individuo rappresenta, alle sue idee politiche o al suo modo di vivere e la volontà di esprimere urbi et orbi il proprio dissenso.

L’ordinanza in commento è molto interessante perché si inserisce proprio in questo solco: un giornalista e politico italiano, piuttosto noto soprattutto per le sue posizioni “complottiste”, ha citato in giudizio Facebook con riferimento a una pagina a lui dedicata da un ignoto autore (chiamata “XY è un bugiardo”), sostenendo il carattere diffamatorio della stessa e lamentando il fatto che, nonostante la propria richiesta in tal senso, il provider gestore del servizio non avesse rimosso la pagina.

Nella prima parte del provvedimento in parola, il giudice ripercorre e ricorda in maniera sintetica ma molto precisa e puntuale la sostanziale differenza tra il diritto di cronaca e quello di critica, laddove il secondo non riferisce un fatto né descrive un accadimento, ma ne propone una valutazione e una lettura necessariamente soggettiva. Con la conseguenza che il requisito della verità – allorché si controverta in tema di sussistenza del diritto di critica – deve esser inteso unicamente come veridicità del fatto a partire dal quale la critica si esprime, dovendosi perciò ritenere ammissibile una rappresentazione non strettamente obiettiva del fatto medesimo.

Analogamente, poiché il diritto di critica è diretta espressione della libertà di pensiero di cui all’art. 21 della Costituzione ed è strettamente funzionale alla dialettica democratica, il giudice ricorda come debba ritenersi legittimo anche un affievolimento del profilo della continenza e come debba perciò ritenersi ammissibile non solo la critica che si realizzi in forma di pacata espressione di una valutazione personale dell’autore, ma anche quella in forma di aperto dissenso e persino il giudizio severo e irriverente, se collegato al dato fattuale che ne costituisce lo spunto e l’origine.

Applicando poi tali principi – come detto ormai consolidati nella giurisprudenza di merito e di legittimità e pienamente condivisibili – al caso di specie, il Tribunale ritiene che la pagina in questione (o meglio, l’unica schermata prodotta dal ricorrente e quindi utilizzabile dal giudice per la valutazione della vicenda) non travalichi i limiti del corretto esercizio del diritto di critica, sottolineando in particolare come lo spirito certamente polemico della pagina Facebook “incriminata” (evidenziato anche dalla scelta terminologica di attribuire al ricorrente la patente di “bugiardo”) rappresenti una sorta di contraltare all’analogo atteggiamento normalmente tenuto dal ricorrente allorché questi, nell’esprimere «con altrettanta veemenza» (come scrive testualmente il giudice) le proprie posizioni politiche, si scaglia contro «fake news e menzogna organizzata e amplificata dalle più importanti agenzie di informazioni». Una sorta di contrappasso, dunque, per cui se sei solito criticare aspramente, accusando genericamente i più importanti organi di informazione di mentire (anche con riguardo a fatti gravi, quali conflitti bellici), non puoi poi censurare chi ti ripaga con la stessa moneta.

Per quanto pungente, questa parte dell’ordinanza in commento – come anticipato – appare comunque muoversi nel solco tracciato da anni dalla giurisprudenza in materia, facendo puntuale e garantista applicazione dei principi in tema di esercizio del diritto di critica.

Più interessante e innovativa risulta, invece, la seconda parte del provvedimento, in cui il Tribunale analizza il tema della configurabilità di un obbligo di rimozione dei contenuti a carico dell’hosting provider: ci si domanda, in sostanza, se, a fronte della doglianza di un utente che lamenti la lesività di una pagina Facebook o di un contenuto di essa, il gestore debba procedere senza indugio né altri accertamenti all’immediata rimozione del convenuto “incriminato”. A tale interrogativo il giudice romano dà netta risposta negativa, affermando come non sia prospettabile alcun onere di monitoraggio preventivo dei convenuti pubblicati su una piattaforma informativa da parte dei gestori della stessa, posto che il solo dovere che grava su questi ultimi – e che trae fondamento normativo negli artt. 16, c. 1, lett. b) e 17 c. 1 e 2, lett. a) del d.lgs. 70/2003 – è quello di effettuare un controllo successivo su un determinato contenuto, a seguito di segnalazione di fatto illecito da parte di un destinatario del servizio stesso.

In altri termini, nel momento in cui riceve una formale diffida o una segnalazione o una richiesta di intervento su un possibile contenuto illecito di una pagina, il gestore è certamente tenuto ad attivarsi, ma la valutazione in merito al rispetto delle condizioni di utilizzo della piattaforma online è rimessa esclusivamente alla sua disamina e quindi alla sua responsabilità.

Diversamente opinando, del resto, ove cioè si ritenesse di configurare in capo al prestatore del servizio di hosting un immediato obbligo di censura e di conseguente rimozione del contenuto sulla sola base di una diffida da parte di un soggetto terzo, si determinerebbe una violazione di prerogative costituzionali di rango quantomeno analogo a quelle di cui il richiedente denuncia la lesione e un inammissibile sacrificio delle stesse, in assenza di un congruo e doveroso accertamento dell’effettiva sussistenza dell’illecito.

Ad avviso del Tribunale di Roma, dunque, non v’è dubbio che una segnalazione o una diffida faccia sorgere a carico del soggetto ospitante un obbligo di immediata valutazione dei contenuti denunciati, ma un obbligo di rimozione, prima e in assenza di un intervento giudiziale, può configurarsi solo ove appaia una manifesta ed evidente illiceità dei contenuti medesimi. In mancanza, l’obbligo di intervento in capo al provider, così come disciplinato dall’art. 16 del citato decreto legislativo, deve ritenersi subordinato alla preventiva emanazione di un provvedimento giudiziale che accerti la dedotta lesività del contenuto contestato.

Si tratta, in definitiva, di una decisione condivisibile, che pare effettuare un corretto contemperamento di opposte esigenze e di contrapposti diritti di rango costituzionale, responsabilizzando in maniera adeguata il gestore del servizio online, senza però gravarlo di un’inaccettabile – e insopportabile – ruolo di rigido censore.