Differenza di qualità, quantità, origine e valore nelle dichiarazioni doganali art. 303 T.U.L.D.
L’art. 303 T.U.LD. è uno tra i più “rognosi” da interpretare in quanto non solo è stato scritto in un tempo in cui non erano ancora entrati in vigore gli attuali C.D.C. e D.A.C., ma anche in quanto le sue previsioni devono essere integrate con quanto previsto dall’art. 8 c. 3 d.P.R. 374/1990.
La disposizione ha come fine quello di punire, limitatamente:
alle immissioni in libera pratica;
alle immissioni in deposito doganale;
alla spedizione ad altra dogana, ossia al transito;
le differenze, fra la situazione accertata e quella dichiarata, che abbiano ad oggetto i quattro elementi dell’accertamento doganale: l’origine, la qualità, la quantità ed il valore delle merci.
Invero, secondo un’interpretazione strettamente letterale, l’art. 303 T.U.L.D. dovrebbe colpire solo le differenze concernenti:
la qualità;
la quantità;
il valore;
delle merci dichiarate.
Nel suo testo, infatti, non si trova alcun riferimento all’origine, e ciò nonostante il fatto che, già sotto l’egida dell’art. 59 T.U.L.D. (soppresso a decorrere dal 12 giugno 1991 e sostituito dall’art. 8 d.P.R. 347/1990), questa fosse uno dei quattro elementi dell’accertamento doganale. Tale mancanza è sempre stata considerata un lapsus calami del legislatore con la conseguenza che sia la prassi applicativa sia, soprattutto, la giurisprudenza di merito si sono sempre schierate nel senso di ritenere applicabile la sanzione anche ai casi in cui venga riscontrata una differenza concernente l’origine delle merci (sia nel senso di merci originarie di un Paese diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione doganale sia nel senso di merci non fruenti delle preferenze generalizzate o particolari richieste in sede di dichiarazione e previste dalla disciplina vigente).
La fattispecie base ed i casi di esclusione dell’antigiuridicità previsti dal c. 2.
In tutti i sopra accennati casi di discrepanza, deve essere applicata una sanzione pecuniaria di importo variabile fra € 103,00 ed € 516,00 (ex art. 303 c. 1 T.U.L.D.).
La sanzione deve essere applicata separatamente per i diritti di confine e per l’I.V.A., salva applicazione – in sede di concreta determinazione del quantum della stessa – degli istituti della continuazione o del concorso formale.
Come noto, i diritti di confine sono costituiti, ex art. 34 c. 2 T.U.L.D.:
dai dazi di importazione e da quelli di esportazione (questi ultimi ormai non più previsti dalla TAR.I.C.);
dai prelievi e della altre imposizioni all’importazione o all’esportazione previsti da regolamenti comunitari e dalle relative norme di attuazione;
dai diritti di monopolio, dalle sovrimposte di confine e da ogni altra imposta o sovrimposta di consumo a favore dello Stato (ossia dalle accise).
A tale elenco va aggiunta, ma solo per i fini sanzionatori (in quanto, per tutto il resto, continua ad essere un tributo attinente la fiscalità interna di ciascuno Stato membro) stante il richiamo di cui all’art. 70 d.P.R. 633/1972, anche l’I.V.A..
Qualora la differenza di uno degli elementi dell’accertamento abbia determinato una auto-liquidazione inferiore rispetto al dovuto dovrà essere constatata (e successivamente contestata) una violazione per quanto concerne i diritti di confine ed una violazione per quanto riguarda l’I.V.A. afferente, e ciò anche nei casi in cui tale ultima imposta non sia stata materialmente corrisposta per utilizzo del plafond o perché la merce è stata immessa in un deposito I.V.A. ex art. 50-bis D.L. 331/1993.
In ogni caso, alla violazione – nella sua fattispecie “ordinaria” – consegue l’applicazione di una sanzione pecuniaria di importo sì variabile tra un minimo ed un massimo, ma scollegato rispetto all’ammontare dei diritti di confine evasi: è questa, infatti, la grande differenza fra la fattispecie ordinaria (qui in esame) e quella aggravata di cui al c. 3 che fra poco andremo ad esaminare.
Il legislatore, però, rendendosi conto del fatto che l’automatica applicazione di detta sanzione avrebbe avuto effetti dirompenti a danno dei dichiaranti doganali - specie in considerazione del fatto che spesso, le differenze fra il dichiarato e l’accertato non hanno ripercussioni di grande rilievo sul quantum dell’obbligazione doganale - ha previsto, al c. 2 dell’art. 303 T.U.L.D., alcune cause escludenti, ricorrendo le quali viene meno l’antigiuridicità del comportamento con conseguente impossibilità, per l’Ufficio delle Dogane, di irrogare la sanzione, ferma restando, ovviamente, la possibilità – anzi, il dovere – di riscuotere gli eventuali maggiori diritti di confine ed alla maggiore I.V.A. ancora dovuta.
Tali escludenti trovano applicazione:
nei casi di cui all’art. 57 c. 2 lett. d) T.U.L.D. (soppresso con decorrenza dal 12 giugno 1991 ed in pari data sostituito dall’art. 4 c. 2 lett. d ed e d.P.R. 347/1990), allorché, pur avendo indicato una denominazione tariffaria errata, il dichiarante ha correttamente indicato la denominazione commerciale della merce rendendo così possibile, per l’Ufficio delle Dogane, la corretta applicazione dei diritti di confine e dell’I.V.A. afferente.
La disposizione richiamata, modificata secondo quanto sopra indicato, disciplina il contenuto della dichiarazione doganale ed, in particolare, prevede che la stessa debba indicare: “d) la quantità e la natura dei colli con le marche, sigle o cifre identificative; e) la descrizione delle merci con l’indicazione della posizione di tariffa, della qualità, della quantità, del valore e di ogni altro elemento occorrente per la liquidazione dei diritti; in luogo della denominazione tariffaria, nei casi stabiliti con decreto del Ministero delle Finanze, può essere indicata quella commerciale, purché quest’ultima contenga tutti gli elementi che occorrono per l’applicazione della tariffa e per la liquidazione dei diritti”.
L’esimente, dunque, trova applicazione nei casi in cui il dichiarante, pur errando l’indicazione della posizione tariffaria (ossia della voce doganale) abbia indicato direttamente in sede di formalità doganale la reale denominazione commerciale della merce, rendendo così possibile per l’Ufficio delle Dogane l’immediato riscontro della difformità e la sua immediata rettifica[1].
La sua applicazione è indipendente dal fatto che l’errata indicazione abbia dato luogo o meno alla liquidazione di un maggiore diritto di confine o di una maggiore I.V.A. e dal loro ammontare[2];
limitatamente alle differenze di qualità, quando:
le merci dichiarate e quelle riconosciute in sede di accertamento sono considerate nella TAR.I.C. in differenti sottovoci di una medesima voce doganale;
e l’ammontare dei diritti di confine dovuti a seguito dell’accertamento è uguale a quello liquidato o lo supera di meno di 1/3.
La differenza rispetto al caso precedente è sottile: questa causa di esclusione, infatti, trova applicazione nei casi in cui il dichiarante abbia errato non solo l’indicazione della posizione tariffaria ma anche della denominazione commerciale della merce.
Ricorrendo una simile ipotesi, la non punibilità è subordinata al verificarsi di una doppia condizione:
anzitutto, che l’Ufficio delle Dogane abbia riconosciuto la merce quale classificabile in una diversa sottovoce della voce doganale indicata in sede di dichiarazione.
Il sistema della TAR.I.C. si fonda sulla previsione di una miriade di “classifiche” doganali sintetizzate in “voci” individuate da codici numerici di 10 cifre cadauna (in taluni casi – e segnatamente allorché siano previsti dazi antidumping o compensatori, ovvero si tratti di elementi agricoli o farmaci o prodotti CITES rientranti nella Convenzione di Washington o in alcune altre ipotesi – a questi segue un codice addizionale, il c.d. CADD, di quattro caratteri alfanumerici).
Delle 10 cifre costituenti il codice TAR.I.C., conformemente a quanto previsto dalla comunicazione della Commissione Europea n. 2003/C103/01 pubblicata sulla G.U.C.E. del 30 aprile 2003:
le prime due corrispondono al capitolo del sistema armonizzato;
le prime quattro corrispondono alla voce del sistema armonizzato;
le prime sei, alla sottovoce del sistema armonizzato;
le prime otto, alle suddivisioni della nomenclatura combinata, ossia alle voci doganali;
tutte e dieci le cifre, indicano la sottovoce doganale applicabile.
Pertanto, in soldoni, allorché la voce doganale indicata dal dichiarante e quella accertata dall’Ufficio delle Dogane siano esattamente corrispondenti per le prime otto cifre, l’esimente può trovare applicazione, a condizione, ovviamente, che ricorra anche la seconda condizione, ossia:
che da tale errore non sia derivata la liquidazione di un diritto di confine (da calcolare, come sopra detto, separatamente per ciascuna tipologia di diritto di confine) inferiore di oltre 1/3 rispetto a quello accertato dall’Ufficio delle Dogane.
limitatamente alle differenze in più o in meno nella quantità o nel valore delle merci dichiarate che non superino il 5% per ciascuna qualità delle merci dichiarate.
In sostanza, allorché dall’errata indicazione della quantità o del valore delle merci dichiarate risultino essere stati applicati i diritti di confine e l’I.V.A. in misura inferiore di meno del 5% rispetto a quanto realmente dovuto, l’Ufficio delle Dogane non potrà irrogare alcuna sanzione, dovendo all’opposto limitarsi a rettificare la dichiarazione per riscuotere quanto ancora dovuto maggiorato degli accessori di legge.
Il riferimento operato dall’art. 303 c. 3 lett. c) T.U.L.D. a “ciascuna qualità delle merci dichiarate” deve essere messo in relazione con quanto previsto dall’art. 198 c. 1 D.A.C. in virtù del quale “qualora una dichiarazione in dogana comporti più articoli, le indicazioni relative a ciascun articolo sono considerate costituire una dichiarazione separata”.
Pertanto, allorché il dichiarante presenti un D.A.U. composto di diversi articoli, ai fini dell’applicazione dell’esimente (esattamente come nel caso delle precedenti cause di esclusione dell’antigiuridicità):
ciascun articolo dovrà essere trattato come una dichiarazione a sé stante con la conseguenza che, in caso di molteplicità di errori in diversi articoli, taluni dei quali a vantaggio del dichiarante ed altri a suo svantaggio (ossia a vantaggio dell’Erario), ai fini dell’individuazione dei presupposti per l’applicazione della sanzione non potrà operarsi alcuna compensazione fra i maggiori diritti di confine liquidati in relazione ad un singolo e quelli minori liquidati in relazione ad un altro singolo dello stesso D.A.U.;
all’interno di ciascun articolo, il limite del 5% dovrà essere verificato separatamente per ciascuna tipologia di diritti di confine.
Da ciò consegue, con ovvia palmarità, che potrebbe ben aversi il caso di applicazione della sanzione ex art. 303 c. 1 o c. 3 T.U.L.D. per un’evasione daziaria con contemporanea applicazione della causa di esclusione dell’antigiuridicità per quanto concerne la conseguente evasione I.V.A. in tutti i casi quest’ultima imposta risulti ancora dovuta in misura comunque inferiore rispetto al 5% di quanto prima facie liquidato.
Una causa di esclusione dell’antigiuridicità “orizzontale”: l’art. 10 c. 3 L. 212/2000 (statuto del contribuente)
Oltre alle cause di esclusione dell’antigiuridicità di cui sopra, per lungo tempo si è dibattuto in ordine all’applicabilità, anche alla fattispecie qui in esame, della disposizione di cui all’art. 13 c. 4 D.Lgs. 472/1997 (come modificato dall’art. 6 D. Lgs. 422/1998) in forza della quale “nei casi di omissione o di errore, che non ostacolano un’attività di accertamento in corso e che non incidono sulla determinazione o sul pagamento del tributo, il ravvedimento esclude l’applicazione della sanzione se la regolarizzazione avviene entro tre mesi dall’omissione o dall’errore”.
Il dubbio che per lungo tempo – ossia fino all’introduzione dello “statuto del contribuente” – ha attanagliato la dottrina era se l’errore commesso dal dichiarante in materia di origine, quantità, qualità e valore e dal quale non derivasse alcuna maggiore pretesa tributaria potesse essere considerato o meno quale non idoneo ad ostacolare l’attività di accertamento.
La risposta ad un simile quesito non poteva che essere negativa, essendo proprio i quattro elementi di cui sopra oggetto dell’attività di accertamento, con la conseguenza che un qualsiasi errore commesso in sede di dichiarazione e relativo anche ad uno solo di essi non poteva essere considerato come integrante uno dei due presupposti oggettivi (l’altro era il ravvedimento “tempestivo” entro 3 mesi) richiesti per la non dall’irrogazione della sanzione.
Inoltre, proprio il meccanismo escogitato dal legislatore, qualificava l’escamotage non quale causa di esclusione dell’antigiuridicità ma quale semplice causa estintiva del potere sanzionatorio dell’Amministrazione.
A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 10 c. 3 L. 212/2000, in forza del quale “le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione …omissis… si traduce in una mera violazione forma senza debito di imposta”, i dubbi relativi alla perdurante applicabilità dell’art. 303 T.U.L.D. ai casi in cui la differenza tra l’accertato ed il dichiarato non comporti liquidazione di un maggiore diritto di confine o di una maggiore I.V.A. dovrebbero essere stati definitivamente fugati.
Rispetto alla precedente versione, lo “statuto del contribuente” non fa più alcun riferimento alle eventuali ripercussioni sull’accertamento dell’errore commesso (in buona o in mala fede che sia) da parte del dichiarante né tantomeno alla tempestività della reazione di questi, collegando invece la non punibilità al solo dato (oggettivo) dell’assenza di un maggiore tributo (nel nostro caso, di maggiori diritti di confine o della maggiore I.V.A.).
Il legislatore del 2000, pertanto, non solo ha modificato i presupposti richiesti per l’applicazione della disciplina di favore, ma ha anche trasformato in causa di esclusione dell’antigiuridicità ciò che prima era una semplice causa estintiva del potere sanzionatorio dell’Amministrazione.
Pertanto, è da ritenere che, oltre a quelle previste dall’art. 303 c. 2 T.U.L.D. già sopra viste, esista una quarta causa di esclusione avente uno spettro di applicazione “orizzontale”, tale da secare le fattispecie differenziali relative a tutti e quattro gli elementi dell’accertamento doganale ed applicabile alla sola condizione in cui da tale differenza non derivi la liquidazione di maggiori diritti di confine.
La fattispecie aggravata di cui all’art. 303 c. 3 T.U.L.D. e la speciale riduzione prevista per i casi di errori di calcolo, di conversione e di trascrizione.
L’art. 303 c. 3 T.U.L.D. prevede l’applicazione della sanzione in misura variabile fra uno e dieci volte i diritti di confine evasi e l’I.V.A. allorché la differenza tra quelli dovuti a seguito dell’accertamento e quelli liquidati dal dichiarante sia complessivamente superiore al 5%.
E’ interessante notare come la previsione del limite del 5% per l’integrazione dell’aggravante comporti, di fatto, l’inapplicabilità della sanzione nella misura “ordinaria” – salvi i casi di rideterminazione del quantum debendi cui tra poco si farà cenno in caso di evasioni percentualmente cospicue ma quantitativamente poco rilevanti – in tutti i casi in cui la falsità della dichiarazione abbia avuto ad oggetto la quantità o il valore in dogana delle merci:, l’art. 303 c. 2 lett. c), infatti, prevede l’esclusione dell’antigiuridicità in tutti i casi in cui i diritti di confine o l’I.V.A. liquidati in conseguenza dell’accertamento siano superiori, ma in misura inferiore al 5%, rispetto a quelli auto-liquidati dal dichiarante.
Come detto – a parte il fatto che, in caso di dichiarazione costituita di differenti singoli, ciascuno di questi deve essere considerato dichiarazione a sé stante - ai fini dell’applicazione dell’articolo qui in esame, in caso di liquidazione deficitaria di dei diritti di confine e dell’I.V.A., deve constatata una violazione e, conseguentemente, applicata una sanzione in relazione a ciascuno di tali tributi, e ciò nonostante l’uso, da parte del legislatore, della parola “complessivamente” (uso da mettere in correlazione con il fatto che il T.U.L.D. altro non è se non la riedizione della legge doganale degli anni ’40 e che, comunque, esso deve essere adeguato alle abrogazioni implicite intervenute nel corso degli anni da parte di successive disposizioni nazionali e comunque deve essere interpretato in modo conforme a quanto previsto dalla disciplina comunitaria in materia di dichiarazione doganale, costituisce ovvio “presupposto” all’applicazione della disciplina sanzionatoria qui in esame)..
Non infrequentemente accade che il limite del 5% di cui sopra risulti essere superato solo in relazione ai diritti di confine ma non in relazione all’I.V.A. (tipico è il caso di un maggiore dazio superiore al 5% rispetto a quanto liquidato ed una maggiore I.V.A. inferiore rispetto a tale limite): in tali casi, la fattispecie aggravata potrà essere applicata solo al tributo per il quale si è verificato l’effettivo superamento della soglia di cui sopra, con applicazione – agli altri – della sanzione pecuniaria nella misura prevista dal c. 1.
Ancora, talvolta, nonostante i diritti di confine dovuti a seguito dell’accertamento superino di oltre il 5% quelli liquidati dal contribuente, accade che l’applicazione dall’aggravante di cui al c. 3 derivi l’applicazione di una sanzione di importo minimo o massimo inferiore rispetto a quello previsto dalla fattispecie “ordinaria” di cui al c. 1. In questi casi, la sanzione dovrà essere applicata nella misura “ordinaria” di cui al c. 1, essendo contrario ad ogni criterio logico interpretare la disposizione – che costituisce circostanza aggravante ad effetto speciale – in modo che da essa possa derivare anziché un “danno”, un maggiore beneficio a carico del contribuente.
Il legislatore, però, pur volendo colpire in modo particolarmente duro i soggetti responsabili di evasioni dei diritti di confine e dell’I.V.A. di importo (percentuale) particolarmente rilevante, non ha calcato eccessivamente la mano in tutti quei casi in cui risulta chiaro che la violazione sia conseguenza di errori di “disattenzione”. Infatti, in tutti i casi in cui la violazione sia conseguenza:
di errori di calcolo, di conversione della valuta estera o di trascrizione commessi in buona fede nella compilazione della dichiarazione;
o dell’inesatta indicazione del valore, a condizione che il dichiarante abbia fornito tutti gli elementi necessari per l’accertamento del valore stesso;
la sanzione (sempre e solo nei casi “aggravati”) è applicabile in misura compresa fra un decimo e l’intero ammontare di ciascun singolo diritto di confine evaso.
Anche in questo caso, ovviamente, il minimum invalicabile (visto che si tratta pur sempre di una fattispecie aggravata) è costituito dalla sanzione “base” come determinabile ai sensi dell’art. 303 c. 1 T.U.L.D..
Regime del deposito doganale: limitata applicabilità dell’art. 303 c. 1 T.U.L.D. ed inconfigurabilità della fattispecie aggravata di cui al c. 3.
Particolare è il funzionamento dell’art. 303 T.U.L.D. allorché la differenza si riferisca ad una dichiarazione di immissione in deposito.
Come noto l’immissione in deposito è un regime economico e sospensivo, ossia un regime doganale che:
ha finalità di incentivazione dell’attività economica degli operatori comunitari;
consente la temporanea sospensione dell’obbligazione doganale, con la conseguenza che, nonostante la materiale “entrata” delle merci nel territorio della U.E., queste non vengono assoggettate (fino al momento dell’effettiva immissione in libera pratica) ai diritti di confine che rimangono “sospesi” (e da qui, la definizione di “regime sospensivo”).
Anche per il caso di vincolo al regime della immissione in deposito, l’art. 220 c. 1 D.A.C. prevede l’obbligatoria presentazione del D.A.U. (che sarà codificato come IM/7). Con questo non sempre devono essere presentati i documenti normalmente richiesti a corredo della “normale” dichiarazione doganale; in particolare:
nei casi normali, devono essere presentati solo:
la fattura sulla cui base viene dichiarato il valore in dogana delle merci;
la dichiarazione degli elementi per la determinazione del valore in dogana delle merci (ossia, il modello DV.1)[3]:
allorché le merci siano destinate ad un deposito di tipo D - ossia (secondo la definizione di cui all’art. 525 c. 2 D.A.C.) un deposito privato in esito al quale l’immissione in libera pratica si possa effettuare con la procedura della domiciliazione e si possa basare sulla specie, sul valore in dogana e sulla quantità di merci da prendere in considerazione al momento del vincolo al regime sospensivo – non è richiesta la presentazione di alcun documento a supporto della dichiarazione doganale.
Come già detto, caratteristica principale del regime dell’immissione in deposito è quello di “traslare” la nascita dell’obbligazione doganale al momento in cui le merci vengono svincolate, mediante dichiarazione di importazione definitiva o altra dichiarazione doganale, ovvero, in modo illegittimo, mediante perpetrazione del delitto di contrabbando.
In ogni caso, alla presentazione della dichiarazione di vincolo al regime dell’immissione in deposito non consegue la nascita di un’obbligazione debitoria a carico del dichiarante (se non limitatamente ai diritti portuali).
Non nascendo alcuna obbligazione, in tutti i casi di differenza di origine, qualità, quantità o valore, non potrà mai trovare applicazione l’aggravante di cui all’art. 303 c. 3 T.U.L.D., e ciò per l’ovvia ragione che non potrà mai considerasi avverato il presupposto del riaccertamento dei diritti di confine dovuti in misura superiore al 5% rispetto a quanto liquidato.
Tale assunto è ormai ius receptum tanto da costituire orientamento giurisprudenziale[4] e di prassi consolidato.
La non applicabilità dell’aggravante non comporta – o, meglio, non comporterebbe – alcuna conseguenza in ordine alla piena operatività dei c. 1 e 2 dell’art. 303 T.U.L.D., con conseguente applicabilità della sanzione pecuniaria in misura fissa.
Nondimeno, stante quanto sopra detto in ordine al contenuto dell’art.10 c. 3 L. 212/2000, non potendo ex se derivare, dall’errore commesso dal dichiarante, alcuna effettiva differenza di diritti di confine, a mio sommesso avviso deve ritenersi non più applicabile nemmeno la sanzione pecuniaria (impropriamente definita) fissa prevista dall’art. 303 c. 1 T.U.L.D..
[2] “La sanzione per irregolare dichiarazione doganale, ai sensi dell’art. 303, comma 2, d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43, non è dovuta quando, pur essendo errata l’indicazione del codice della tariffa, il dichiarante abbia comunque indicato con esattezza il tipo di merce in transito. Tale speciale causa di esenzione ha natura generale, e quindi trova applicazione sia nelle ipotesi previste dal comma 1 del citato art. 303 (assenza di evasione od evasione inferiore al 5% dell’importo totale del tributo dovuto); sia nelle più gravi ipotesi previste dal comma 3 dell’art. 303 (evasione superiore al 5% dell’importo totale del tributo dovuto)” (Corte Cass., Sezione III, 1 ottobre 1999, n. 10898, Min. fin. c. Soc. Figli di Angiuli, in Giust. civ. Mass. 1999, 2057).
[3] Modello la cui presentazione è obbligatoria in tutti i casi in cui la formalità doganale abbia per oggetto merci il cui controvalore complessivo abbia un valore statistico superiore ad € 10.000, e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di beni assoggettati ad aliquota daziaria nulla (ossia dello 0%).
In proposito, è utile la lettura della circolare n. 29/D del 20 luglio 2005 dell’Agenzia delle Dogane (peraltro conforme alla precedente circolare n. 345 del 12 dicembre 1988 del Ministero delle Finanze – Dipartimento Imposte Indirette)
[4] “Nel 1985, la SNAM s.p.a., nel convenire innanzi al Tribunale di Genova l’Amministrazione delle Finanze, dichiarò di essere stata incaricata dalla I.P. di Genova di curare lo scarico di 24.000.000 kg. di gasolio di provenienza norvegese e di trasferirlo, tramite oleodotti, a Rho.
Nell’esecuzione dell’incarico essa ebbe però la sensazione che la merce non fosse gasolio e fermò le operazioni di scarico, informandone anche la Dogana, dopo di che il prodotto fu introdotto nel deposito doganale; operazione che fu regolarizzata con la presentazione di una <dichiarazione per introduzione in deposito>. Il prodotto fu poi reimbarcato per la restituzione al fornitore, trattandosi di merce diversa da quella pattuita.
Dopo questi fatti, la Dogana di Genova contestò alla SNAM la violazione dell’art. 303 T.U.L.D., invitandola al pagamento della sanzione di circa 162 milioni, per difformità della dichiarazione doganale relativa alla qualità della merce introdotta nel deposito doganale (gasolio), rispetto a quella effettivamente immessa nel deposito stesso.
Quindi, anche a seguito di un provvedimento ministeriale riduttivo della sanzione - sollecitato dalla SNAM - l’Intendenza di Finanza notificò alla società una ingiunzione di pagamento per il corrispondente importo di 50 milioni oltre spese, contro la quale la società propose opposizione sostenendo, tra l’altro: a) che mancavano i presupposti per l’applicazione dell’art. 303, sui diritti di confine, non vertendosi in tema di importazione definitiva; b) che, nel calcolo dei diritti di confine, non si doveva tener conto del dazio, trattandosi di merce norvegese accompagnata da certificato di origine EUR 1; c) che, per modificare la dichiarazione d’importazione in relazione alla qualità della merce ed impedire, quindi, l’applicazione della sanzione pecuniaria, non avrebbe potuto promuovere la visita preventiva di cui all’art 53 del D.P.R. n. 43, giacché lo sbarco era già iniziato.
L’Amministrazione delle finanze replicò, tra l’altro, che il certificato EUR 1 non aveva, nella specie, alcun valore perché relativo a merce diversa da quella che accompagnava e che i benefici tariffari di cui agli accordi CEE-EFTA riguardavano i casi di importazione definitiva e non anche quelli di detenzione della merce in deposito doganale, come nella specie.
Il Tribunale di Genova, in accoglimento del primo motivo di opposizione, dichiarò l’illegittimità dell’ingiunzione.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 6 novembre - 12 dicembre 1990, confermò la decisione di primo grado, impugnata dall’Amministrazione delle finanze, affermando che l’obbligazione tributaria di cui all’art. 303 della legge doganale sorge ed è dovuta quando le merci introdotte nel territorio doganale siano destinate al consumo, mentre, nel caso di specie, si era avuta un’immissione in deposito doganale regolarmente denunciata, per cui si era in regime di sospensione dell’assolvimento dell’imposta. Nè poteva ritenersi corretta l’immutazione terminologica della locuzione <diritti dovuti>, adottata nel suddetto art. 303, con quella di <diritti che sarebbero stati dovuti>.
Contro tale sentenza, l’Amministrazione delle finanze ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Resiste la SNAM con controricorso, chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
Con il primo motivo di ricorso, l’Amministrazione delle Finanze denuncia la violazione degli artt. 36 e 303 T.U.L.D., sostenendo che l’art 303 prevede espressamente la sanzione pecuniaria sia per le dichiarazioni concernenti merci destinate all’importazione definitiva, sia per quelle concernenti merci destinate al deposito. Ritiene, inoltre, che quando la norma parla di diritti dovuti intende riferirsi anche ai diritti che sarebbero stati dovuti per le importazioni; e ciò non senza considerare che la fattispecie doveva essere inquadrata tra le vere e proprie importazioni di merce imponibili, dato che la certificazione esentatrice per il gasolio non corrispondeva alla merce effettivamente importata.
Con il secondo motivo, osserva che la Corte d’appello aveva dato per scontato che la merce non fosse stata destinata al consumo, senza considerare che, a norma dell’art. 36 della legge doganale, l’irregolare immissione di prodotto erroneamente indicato nella dichiarazione doganale integrava proprio gli estremi di una irregolare importazione e che quindi si era verificato il presupposto dell’obbligazione doganale relativa ai diritti di confine, essendo certo, nella specie, l’attraversamento della linea doganale della merce irregolarmente dichiarata ed immessa nel deposito. Rileva, inoltre, che dagli artt. 322 e 325 del Regolamento 13 febbraio 1896 n. 65, si trova ulteriore conferma di che cosa debba intendersi per diritti dovuti, in quanto vi si stabilisce che i diritti di confine si calcolano in base alla tariffa che sarebbe applicabile nel caso di importazione" e che la pena pecuniaria è applicabile anche se le merci siano esenti da diritti di confine.
È opportuno esaminare congiuntamente le due censure, data la loro stretta connessione.
Il ricorso è infondato. È opportuno, a tal fine, innanzitutto riportare - nei limiti delle parti che interessano la questione in esame - il testo della norma sanzionatoria applicata dall’Amministrazione doganale. L’art. 303 T.U.L.D. (il cui contenuto normativo è preceduto dalla rubrica Differenza rispetto alla dichiarazione di merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra dogana), al primo comma punisce con una sanzione pecuniaria di non elevato importo, il dichiarante le cui <dichiarazioni relative alla qualità...delle merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra dogana con bolletta di cauzione, non corrispondano all’accertamento>.
Dopo un secondo comma che esclude l’applicazione di questo precetto in ipotesi particolari, un terzo comma prevede, tra l’altro, un consistente aumento della sanzione nel caso che <i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l’accertamento sono maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza supera il cinque per cento>.
Secondo l’Amministrazione ricorrente, sussisterebbe uno stretto collegamento tra il primo ed il terzo comma del suddetto art. 303, con la conseguenza che il disposto del terzo comma si riferirebbe a tutte e tre le ipotesi di inesatta dichiarazione previste dal primo comma, nel senso che esso sarebbe applicabile tutte le volte in cui l’inesatta dichiarazione relativa alla qualità delle merci incida sull’importo dei diritti di confine dovuti, e pertanto non solo se le merci siano state destinate all’importazione definitiva, ma anche ed in particolare se siano state destinate al deposito doganale.
L’interpretazione della norma sostenuta dall’Amministrazione delle finanze non è corretta.
Bisogna partire, per evitare interpretazioni settoriali che non tengano conto dell’intero sistema costruito dal legislatore sui rapporti tra dichiarazione doganale ed accertamento tributario, dall’esame di una serie di norme che precedono quella sanzionatoria di cui all’art. 303.
Ebbene, dal Titolo II della legge (Rapporto doganale) e dal Capo I (L’obbligazione tributaria doganale), si desume che la legge (art. 34:Diritti doganali e diritti di confine) distingue nettamente tra diritti doganali in genere (definiti come tutti quei diritti che, in forza di una legge, la dogana è tenuta a riscuotere in relazione alle operazioni doganali eseguite: art. 34 c. 1) e diritti di confine, ossia quei particolari - e numerosi - diritti doganali che concernono solo le operazioni di importazione e di esportazione delle merci (art. 34 c. 2). Il successivo art. 36 (la cui rubrica è <Presupposto dell’obbligazione tributaria>) si riferisce espressamente alle merci soggette a diritti di confine, ossia, come già rilevato, a merci da importare o da esportare, e, per quanto riguarda quelle provenienti dall’estero, pone come presupposto dell’obbligazione, oltre a tale loro provenienza, che le merci stesse siano destinate al consumo entro il territorio doganale, intendendo per tali quelle dichiarate per l’importazione definitiva.
Una prima osservazione appare, quindi, necessaria; ossia che non tutte le operazioni doganali richiedono il pagamento dei diritti di confine. Questi sono dovuti solo in presenza di specifiche e tassative ipotesi, fuori delle quali è prescritto il pagamento soltanto degli altri diritti doganali, quali (solo ad esempio, giacché il loro numero è elevato) alcune delle c.d. tasse marittime, l’imposta di bollo, i diritti per visita sanitaria, le tasse sulle concessioni amministrative, l’IVA all’importazione (v. art. 70 d.P.R. 633/1972), ecc..
L’esame di queste regole sul rapporto doganale in genere e sui presupposti per il pagamento dei diritti di confine, rende necessaria un’ulteriore indagine, ossia quella di stabilire i rapporti tra la dichiarazione e l’accertamento.
A tal riguardo, va allora rilevato che, in base alle successive norme della legge doganale (delle quali si evidenzieranno gli elementi necessari per la decisione), le destinazioni doganali (art. 55) per le merci provenienti dall’estero (la destinazione, in forza dell’art. 57, deve essere precisata in occasione della dichiarazione doganale prescritta dall’art. 56) sono cinque: a) l’importazione definitiva; b) quella temporanea e la successiva riesportazione; c) la spedizione da una dogana all’altra; d) il transito; e) il deposito.
L’art. 57, poi, nello specificare le indicazioni necessarie da inserire nella dichiarazione doganale, vi ricomprende la destinazione della merce e la loro qualità.
Atteso che il pagamento dei diritti di confine, ai sensi dell’art. 36, è dovuto solo quando si tratti di importazione definitiva di merci straniere destinate al consumo nel territorio doganale, il collegamento tra questa norma e l’art. 55 porta alla logica conclusione che i diritti suddetti non siano dovuti quando la destinazione doganale della merce sia diversa da quella indicata alla lett. a) dell’art. 55 (ossia l’importazione definitiva). Il che, ovviamente, non significa che per le altre destinazioni non sia dovuto il pagamento di alcun diritto, ma solo che sono dovuti unicamente i diritti doganali diversi da quelli di confine enunciati dal I co. dell’art. 34.
Appare chiaro, allora, che la distinzione tra diritti doganali in genere e diritti di confine viene in rilievo in particolare nell’ambito delle norme sanzionatorie, sotto il duplice profilo che il legislatore ha previsto una pena diversa quando l’operatore doganale violi le disposizioni sui diritti di confine e che solo in tal caso ha preso tali diritti a base della determinazione della sanzione.
Ritornando, dunque, al punto di partenza di questa indagine, ossia all’interpretazione dell’art. 303 del d.p.r. n. 43 del 1973, questa Corte ritiene che il primo ed il terzo comma di tale norma sono solo parzialmente collegati. Infatti, nel primo comma essa punisce ogni ipotesi di falsa dichiarazione relativa alla qualità delle merci, siano queste destinate all ’importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra dogana; qualunque sia il diritto dovuto per l’operazione (diritto di confine o altro diritto doganale), fuori da ogni riferimento all’importo del diritto stesso.
Qualora, poi, per l’operazione doganale sia prescritto il pagamento dei diritti di confine (merci destinate all’importazione definitiva ed al consumo entro il territorio doganale) e dall’accertamento risulti che i diritti dovuti erano superiori di un quinto rispetto a quelli calcolati in base alla falsa dichiarazione, il terzo comma prevede una distinta sanzione pecuniaria, la cui commisurazione è collegata espressamente all’importo dei diritti evasi. In questo secondo caso, allora, il fatto accessorio rispetta alla fattispecie base della falsa dichiarazione (ossia che i diritti evasi superino il 5% di quelli calcolati sulla base della dichiarazione stessa) si configura come una circostanza aggravante dell’illecito amministrativo; una circostanza che aggrava, però, la sola ipotesi d’illecito, già prevista dal c. 1, in cui per l’esecuzione dell’operazione doganale sia dovuto il pagamento di diritti di confine (si tratti, cioè, di merci destinate all’importazione definitiva). Se, infatti, l’operazione doganale non prevede il pagamento di diritti di confine, neppure può ipotizzarsi, secondo logica, la comminatoria di una sanzione che venga collegata all’importo di tali diritti, che, per definizione, non sono dovuti.
Nè appare giuridicamente accettabile la tesi che, in caso di falsa dichiarazione circa la qualità della merce, la legge, benché la relativa operazione doganale non richieda il pagamento di diritti di confine, trasformi essa stessa fittiziamente la destinazione doganale della merce (da deposito a importazione definitiva), tal che questa destinazione venga qualificata automaticamente come importazione definitiva e la falsa dichiarazione sia assoggettata, quindi, alla sanzione pecuniaria che tale ipotesi presuppone.
E neppure, infine, può condividersi la tesi, pur prospettata dall’Amministrazione delle finanze e da tempo ripudiata dalla dottrina e dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’importazione definitiva (e quindi la destinazione al consumo nel territorio doganale) si sarebbe realizzata per il solo fatto che la merce aveva attraversato la linea doganale. Invero, anche indipendentemente dall’evidente distinzione che la vigente legge doganale opera tra le due fattispecie dell’importazione definitiva e del deposito doganale, questa Corte ha chiarito che la destinazione a deposito doganale individua una condizione giuridica delle merci antitetica rispetto a quella dell’importazione, pur potendo preludere ad essa. Il deposito doganale, infatti, presuppone proprio l’assenza di un’attuale destinazione della merce e risponde alla finalità di agevolare le operazioni internazionali, consentendo il mantenimento dell’originaria nazionalità della merce, ancorché abbiano oltrepassato la linea doganale fino a quando ad essa non venga data una destinazione definitiva. Quindi, prima di questa scelta, le merci non possono ritenersi importate, costituendo l’importazione definitiva solo una delle possibili destinazioni della merce, la quale si realizza soltanto allorquando verranno poste in essere le relative prescritte operazioni (cfr. Cass. 4 aprile 1980 n. 2223.).
In conclusione, pertanto, poiché, nella specie, la differenza rispetto alla dichiarazione effettuata dall’operatore doganale circa la qualità della merce importata - rilevata in sede di accertamento - riguardava certamente merci destinate al deposito e non all’importazione definitiva e per la cui destinazione, quindi, non era previsto il pagamento di diritti di confine, la sanzione comminata dal c. 3 dell’art. 303 T.U.L.D. non era applicabile.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione” (Corte Cass., Sezione I, 11 luglio 1995, n. 7563, Ministero delle Finanze c. SNAMC, in Giur. Civ. Mass. 1995, 1352).
L’art. 303 T.U.LD. è uno tra i più “rognosi” da interpretare in quanto non solo è stato scritto in un tempo in cui non erano ancora entrati in vigore gli attuali C.D.C. e D.A.C., ma anche in quanto le sue previsioni devono essere integrate con quanto previsto dall’art. 8 c. 3 d.P.R. 374/1990.
La disposizione ha come fine quello di punire, limitatamente:
alle immissioni in libera pratica;
alle immissioni in deposito doganale;
alla spedizione ad altra dogana, ossia al transito;
le differenze, fra la situazione accertata e quella dichiarata, che abbiano ad oggetto i quattro elementi dell’accertamento doganale: l’origine, la qualità, la quantità ed il valore delle merci.
Invero, secondo un’interpretazione strettamente letterale, l’art. 303 T.U.L.D. dovrebbe colpire solo le differenze concernenti:
la qualità;
la quantità;
il valore;
delle merci dichiarate.
Nel suo testo, infatti, non si trova alcun riferimento all’origine, e ciò nonostante il fatto che, già sotto l’egida dell’art. 59 T.U.L.D. (soppresso a decorrere dal 12 giugno 1991 e sostituito dall’art. 8 d.P.R. 347/1990), questa fosse uno dei quattro elementi dell’accertamento doganale. Tale mancanza è sempre stata considerata un lapsus calami del legislatore con la conseguenza che sia la prassi applicativa sia, soprattutto, la giurisprudenza di merito si sono sempre schierate nel senso di ritenere applicabile la sanzione anche ai casi in cui venga riscontrata una differenza concernente l’origine delle merci (sia nel senso di merci originarie di un Paese diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione doganale sia nel senso di merci non fruenti delle preferenze generalizzate o particolari richieste in sede di dichiarazione e previste dalla disciplina vigente).
La fattispecie base ed i casi di esclusione dell’antigiuridicità previsti dal c. 2.
In tutti i sopra accennati casi di discrepanza, deve essere applicata una sanzione pecuniaria di importo variabile fra € 103,00 ed € 516,00 (ex art. 303 c. 1 T.U.L.D.).
La sanzione deve essere applicata separatamente per i diritti di confine e per l’I.V.A., salva applicazione – in sede di concreta determinazione del quantum della stessa – degli istituti della continuazione o del concorso formale.
Come noto, i diritti di confine sono costituiti, ex art. 34 c. 2 T.U.L.D.:
dai dazi di importazione e da quelli di esportazione (questi ultimi ormai non più previsti dalla TAR.I.C.);
dai prelievi e della altre imposizioni all’importazione o all’esportazione previsti da regolamenti comunitari e dalle relative norme di attuazione;
dai diritti di monopolio, dalle sovrimposte di confine e da ogni altra imposta o sovrimposta di consumo a favore dello Stato (ossia dalle accise).
A tale elenco va aggiunta, ma solo per i fini sanzionatori (in quanto, per tutto il resto, continua ad essere un tributo attinente la fiscalità interna di ciascuno Stato membro) stante il richiamo di cui all’art. 70 d.P.R. 633/1972, anche l’I.V.A..
Qualora la differenza di uno degli elementi dell’accertamento abbia determinato una auto-liquidazione inferiore rispetto al dovuto dovrà essere constatata (e successivamente contestata) una violazione per quanto concerne i diritti di confine ed una violazione per quanto riguarda l’I.V.A. afferente, e ciò anche nei casi in cui tale ultima imposta non sia stata materialmente corrisposta per utilizzo del plafond o perché la merce è stata immessa in un deposito I.V.A. ex art. 50-bis D.L. 331/1993.
In ogni caso, alla violazione – nella sua fattispecie “ordinaria” – consegue l’applicazione di una sanzione pecuniaria di importo sì variabile tra un minimo ed un massimo, ma scollegato rispetto all’ammontare dei diritti di confine evasi: è questa, infatti, la grande differenza fra la fattispecie ordinaria (qui in esame) e quella aggravata di cui al c. 3 che fra poco andremo ad esaminare.
Il legislatore, però, rendendosi conto del fatto che l’automatica applicazione di detta sanzione avrebbe avuto effetti dirompenti a danno dei dichiaranti doganali - specie in considerazione del fatto che spesso, le differenze fra il dichiarato e l’accertato non hanno ripercussioni di grande rilievo sul quantum dell’obbligazione doganale - ha previsto, al c. 2 dell’art. 303 T.U.L.D., alcune cause escludenti, ricorrendo le quali viene meno l’antigiuridicità del comportamento con conseguente impossibilità, per l’Ufficio delle Dogane, di irrogare la sanzione, ferma restando, ovviamente, la possibilità – anzi, il dovere – di riscuotere gli eventuali maggiori diritti di confine ed alla maggiore I.V.A. ancora dovuta.
Tali escludenti trovano applicazione:
nei casi di cui all’art. 57 c. 2 lett. d) T.U.L.D. (soppresso con decorrenza dal 12 giugno 1991 ed in pari data sostituito dall’art. 4 c. 2 lett. d ed e d.P.R. 347/1990), allorché, pur avendo indicato una denominazione tariffaria errata, il dichiarante ha correttamente indicato la denominazione commerciale della merce rendendo così possibile, per l’Ufficio delle Dogane, la corretta applicazione dei diritti di confine e dell’I.V.A. afferente.
La disposizione richiamata, modificata secondo quanto sopra indicato, disciplina il contenuto della dichiarazione doganale ed, in particolare, prevede che la stessa debba indicare: “d) la quantità e la natura dei colli con le marche, sigle o cifre identificative; e) la descrizione delle merci con l’indicazione della posizione di tariffa, della qualità, della quantità, del valore e di ogni altro elemento occorrente per la liquidazione dei diritti; in luogo della denominazione tariffaria, nei casi stabiliti con decreto del Ministero delle Finanze, può essere indicata quella commerciale, purché quest’ultima contenga tutti gli elementi che occorrono per l’applicazione della tariffa e per la liquidazione dei diritti”.
L’esimente, dunque, trova applicazione nei casi in cui il dichiarante, pur errando l’indicazione della posizione tariffaria (ossia della voce doganale) abbia indicato direttamente in sede di formalità doganale la reale denominazione commerciale della merce, rendendo così possibile per l’Ufficio delle Dogane l’immediato riscontro della difformità e la sua immediata rettifica[1].
La sua applicazione è indipendente dal fatto che l’errata indicazione abbia dato luogo o meno alla liquidazione di un maggiore diritto di confine o di una maggiore I.V.A. e dal loro ammontare[2];
limitatamente alle differenze di qualità, quando:
le merci dichiarate e quelle riconosciute in sede di accertamento sono considerate nella TAR.I.C. in differenti sottovoci di una medesima voce doganale;
e l’ammontare dei diritti di confine dovuti a seguito dell’accertamento è uguale a quello liquidato o lo supera di meno di 1/3.
La differenza rispetto al caso precedente è sottile: questa causa di esclusione, infatti, trova applicazione nei casi in cui il dichiarante abbia errato non solo l’indicazione della posizione tariffaria ma anche della denominazione commerciale della merce.
Ricorrendo una simile ipotesi, la non punibilità è subordinata al verificarsi di una doppia condizione:
anzitutto, che l’Ufficio delle Dogane abbia riconosciuto la merce quale classificabile in una diversa sottovoce della voce doganale indicata in sede di dichiarazione.
Il sistema della TAR.I.C. si fonda sulla previsione di una miriade di “classifiche” doganali sintetizzate in “voci” individuate da codici numerici di 10 cifre cadauna (in taluni casi – e segnatamente allorché siano previsti dazi antidumping o compensatori, ovvero si tratti di elementi agricoli o farmaci o prodotti CITES rientranti nella Convenzione di Washington o in alcune altre ipotesi – a questi segue un codice addizionale, il c.d. CADD, di quattro caratteri alfanumerici).
Delle 10 cifre costituenti il codice TAR.I.C., conformemente a quanto previsto dalla comunicazione della Commissione Europea n. 2003/C103/01 pubblicata sulla G.U.C.E. del 30 aprile 2003:
le prime due corrispondono al capitolo del sistema armonizzato;
le prime quattro corrispondono alla voce del sistema armonizzato;
le prime sei, alla sottovoce del sistema armonizzato;
le prime otto, alle suddivisioni della nomenclatura combinata, ossia alle voci doganali;
tutte e dieci le cifre, indicano la sottovoce doganale applicabile.
Pertanto, in soldoni, allorché la voce doganale indicata dal dichiarante e quella accertata dall’Ufficio delle Dogane siano esattamente corrispondenti per le prime otto cifre, l’esimente può trovare applicazione, a condizione, ovviamente, che ricorra anche la seconda condizione, ossia:
che da tale errore non sia derivata la liquidazione di un diritto di confine (da calcolare, come sopra detto, separatamente per ciascuna tipologia di diritto di confine) inferiore di oltre 1/3 rispetto a quello accertato dall’Ufficio delle Dogane.
limitatamente alle differenze in più o in meno nella quantità o nel valore delle merci dichiarate che non superino il 5% per ciascuna qualità delle merci dichiarate.
In sostanza, allorché dall’errata indicazione della quantità o del valore delle merci dichiarate risultino essere stati applicati i diritti di confine e l’I.V.A. in misura inferiore di meno del 5% rispetto a quanto realmente dovuto, l’Ufficio delle Dogane non potrà irrogare alcuna sanzione, dovendo all’opposto limitarsi a rettificare la dichiarazione per riscuotere quanto ancora dovuto maggiorato degli accessori di legge.
Il riferimento operato dall’art. 303 c. 3 lett. c) T.U.L.D. a “ciascuna qualità delle merci dichiarate” deve essere messo in relazione con quanto previsto dall’art. 198 c. 1 D.A.C. in virtù del quale “qualora una dichiarazione in dogana comporti più articoli, le indicazioni relative a ciascun articolo sono considerate costituire una dichiarazione separata”.
Pertanto, allorché il dichiarante presenti un D.A.U. composto di diversi articoli, ai fini dell’applicazione dell’esimente (esattamente come nel caso delle precedenti cause di esclusione dell’antigiuridicità):
ciascun articolo dovrà essere trattato come una dichiarazione a sé stante con la conseguenza che, in caso di molteplicità di errori in diversi articoli, taluni dei quali a vantaggio del dichiarante ed altri a suo svantaggio (ossia a vantaggio dell’Erario), ai fini dell’individuazione dei presupposti per l’applicazione della sanzione non potrà operarsi alcuna compensazione fra i maggiori diritti di confine liquidati in relazione ad un singolo e quelli minori liquidati in relazione ad un altro singolo dello stesso D.A.U.;
all’interno di ciascun articolo, il limite del 5% dovrà essere verificato separatamente per ciascuna tipologia di diritti di confine.
Da ciò consegue, con ovvia palmarità, che potrebbe ben aversi il caso di applicazione della sanzione ex art. 303 c. 1 o c. 3 T.U.L.D. per un’evasione daziaria con contemporanea applicazione della causa di esclusione dell’antigiuridicità per quanto concerne la conseguente evasione I.V.A. in tutti i casi quest’ultima imposta risulti ancora dovuta in misura comunque inferiore rispetto al 5% di quanto prima facie liquidato.
Una causa di esclusione dell’antigiuridicità “orizzontale”: l’art. 10 c. 3 L. 212/2000 (statuto del contribuente)
Oltre alle cause di esclusione dell’antigiuridicità di cui sopra, per lungo tempo si è dibattuto in ordine all’applicabilità, anche alla fattispecie qui in esame, della disposizione di cui all’art. 13 c. 4 D.Lgs. 472/1997 (come modificato dall’art. 6 D. Lgs. 422/1998) in forza della quale “nei casi di omissione o di errore, che non ostacolano un’attività di accertamento in corso e che non incidono sulla determinazione o sul pagamento del tributo, il ravvedimento esclude l’applicazione della sanzione se la regolarizzazione avviene entro tre mesi dall’omissione o dall’errore”.
Il dubbio che per lungo tempo – ossia fino all’introduzione dello “statuto del contribuente” – ha attanagliato la dottrina era se l’errore commesso dal dichiarante in materia di origine, quantità, qualità e valore e dal quale non derivasse alcuna maggiore pretesa tributaria potesse essere considerato o meno quale non idoneo ad ostacolare l’attività di accertamento.
La risposta ad un simile quesito non poteva che essere negativa, essendo proprio i quattro elementi di cui sopra oggetto dell’attività di accertamento, con la conseguenza che un qualsiasi errore commesso in sede di dichiarazione e relativo anche ad uno solo di essi non poteva essere considerato come integrante uno dei due presupposti oggettivi (l’altro era il ravvedimento “tempestivo” entro 3 mesi) richiesti per la non dall’irrogazione della sanzione.
Inoltre, proprio il meccanismo escogitato dal legislatore, qualificava l’escamotage non quale causa di esclusione dell’antigiuridicità ma quale semplice causa estintiva del potere sanzionatorio dell’Amministrazione.
A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 10 c. 3 L. 212/2000, in forza del quale “le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione …omissis… si traduce in una mera violazione forma senza debito di imposta”, i dubbi relativi alla perdurante applicabilità dell’art. 303 T.U.L.D. ai casi in cui la differenza tra l’accertato ed il dichiarato non comporti liquidazione di un maggiore diritto di confine o di una maggiore I.V.A. dovrebbero essere stati definitivamente fugati.
Rispetto alla precedente versione, lo “statuto del contribuente” non fa più alcun riferimento alle eventuali ripercussioni sull’accertamento dell’errore commesso (in buona o in mala fede che sia) da parte del dichiarante né tantomeno alla tempestività della reazione di questi, collegando invece la non punibilità al solo dato (oggettivo) dell’assenza di un maggiore tributo (nel nostro caso, di maggiori diritti di confine o della maggiore I.V.A.).
Il legislatore del 2000, pertanto, non solo ha modificato i presupposti richiesti per l’applicazione della disciplina di favore, ma ha anche trasformato in causa di esclusione dell’antigiuridicità ciò che prima era una semplice causa estintiva del potere sanzionatorio dell’Amministrazione.
Pertanto, è da ritenere che, oltre a quelle previste dall’art. 303 c. 2 T.U.L.D. già sopra viste, esista una quarta causa di esclusione avente uno spettro di applicazione “orizzontale”, tale da secare le fattispecie differenziali relative a tutti e quattro gli elementi dell’accertamento doganale ed applicabile alla sola condizione in cui da tale differenza non derivi la liquidazione di maggiori diritti di confine.
La fattispecie aggravata di cui all’art. 303 c. 3 T.U.L.D. e la speciale riduzione prevista per i casi di errori di calcolo, di conversione e di trascrizione.
L’art. 303 c. 3 T.U.L.D. prevede l’applicazione della sanzione in misura variabile fra uno e dieci volte i diritti di confine evasi e l’I.V.A. allorché la differenza tra quelli dovuti a seguito dell’accertamento e quelli liquidati dal dichiarante sia complessivamente superiore al 5%.
E’ interessante notare come la previsione del limite del 5% per l’integrazione dell’aggravante comporti, di fatto, l’inapplicabilità della sanzione nella misura “ordinaria” – salvi i casi di rideterminazione del quantum debendi cui tra poco si farà cenno in caso di evasioni percentualmente cospicue ma quantitativamente poco rilevanti – in tutti i casi in cui la falsità della dichiarazione abbia avuto ad oggetto la quantità o il valore in dogana delle merci:, l’art. 303 c. 2 lett. c), infatti, prevede l’esclusione dell’antigiuridicità in tutti i casi in cui i diritti di confine o l’I.V.A. liquidati in conseguenza dell’accertamento siano superiori, ma in misura inferiore al 5%, rispetto a quelli auto-liquidati dal dichiarante.
Come detto – a parte il fatto che, in caso di dichiarazione costituita di differenti singoli, ciascuno di questi deve essere considerato dichiarazione a sé stante - ai fini dell’applicazione dell’articolo qui in esame, in caso di liquidazione deficitaria di dei diritti di confine e dell’I.V.A., deve constatata una violazione e, conseguentemente, applicata una sanzione in relazione a ciascuno di tali tributi, e ciò nonostante l’uso, da parte del legislatore, della parola “complessivamente” (uso da mettere in correlazione con il fatto che il T.U.L.D. altro non è se non la riedizione della legge doganale degli anni ’40 e che, comunque, esso deve essere adeguato alle abrogazioni implicite intervenute nel corso degli anni da parte di successive disposizioni nazionali e comunque deve essere interpretato in modo conforme a quanto previsto dalla disciplina comunitaria in materia di dichiarazione doganale, costituisce ovvio “presupposto” all’applicazione della disciplina sanzionatoria qui in esame)..
Non infrequentemente accade che il limite del 5% di cui sopra risulti essere superato solo in relazione ai diritti di confine ma non in relazione all’I.V.A. (tipico è il caso di un maggiore dazio superiore al 5% rispetto a quanto liquidato ed una maggiore I.V.A. inferiore rispetto a tale limite): in tali casi, la fattispecie aggravata potrà essere applicata solo al tributo per il quale si è verificato l’effettivo superamento della soglia di cui sopra, con applicazione – agli altri – della sanzione pecuniaria nella misura prevista dal c. 1.
Ancora, talvolta, nonostante i diritti di confine dovuti a seguito dell’accertamento superino di oltre il 5% quelli liquidati dal contribuente, accade che l’applicazione dall’aggravante di cui al c. 3 derivi l’applicazione di una sanzione di importo minimo o massimo inferiore rispetto a quello previsto dalla fattispecie “ordinaria” di cui al c. 1. In questi casi, la sanzione dovrà essere applicata nella misura “ordinaria” di cui al c. 1, essendo contrario ad ogni criterio logico interpretare la disposizione – che costituisce circostanza aggravante ad effetto speciale – in modo che da essa possa derivare anziché un “danno”, un maggiore beneficio a carico del contribuente.
Il legislatore, però, pur volendo colpire in modo particolarmente duro i soggetti responsabili di evasioni dei diritti di confine e dell’I.V.A. di importo (percentuale) particolarmente rilevante, non ha calcato eccessivamente la mano in tutti quei casi in cui risulta chiaro che la violazione sia conseguenza di errori di “disattenzione”. Infatti, in tutti i casi in cui la violazione sia conseguenza:
di errori di calcolo, di conversione della valuta estera o di trascrizione commessi in buona fede nella compilazione della dichiarazione;
o dell’inesatta indicazione del valore, a condizione che il dichiarante abbia fornito tutti gli elementi necessari per l’accertamento del valore stesso;
la sanzione (sempre e solo nei casi “aggravati”) è applicabile in misura compresa fra un decimo e l’intero ammontare di ciascun singolo diritto di confine evaso.
Anche in questo caso, ovviamente, il minimum invalicabile (visto che si tratta pur sempre di una fattispecie aggravata) è costituito dalla sanzione “base” come determinabile ai sensi dell’art. 303 c. 1 T.U.L.D..
Regime del deposito doganale: limitata applicabilità dell’art. 303 c. 1 T.U.L.D. ed inconfigurabilità della fattispecie aggravata di cui al c. 3.
Particolare è il funzionamento dell’art. 303 T.U.L.D. allorché la differenza si riferisca ad una dichiarazione di immissione in deposito.
Come noto l’immissione in deposito è un regime economico e sospensivo, ossia un regime doganale che:
ha finalità di incentivazione dell’attività economica degli operatori comunitari;
consente la temporanea sospensione dell’obbligazione doganale, con la conseguenza che, nonostante la materiale “entrata” delle merci nel territorio della U.E., queste non vengono assoggettate (fino al momento dell’effettiva immissione in libera pratica) ai diritti di confine che rimangono “sospesi” (e da qui, la definizione di “regime sospensivo”).
Anche per il caso di vincolo al regime della immissione in deposito, l’art. 220 c. 1 D.A.C. prevede l’obbligatoria presentazione del D.A.U. (che sarà codificato come IM/7). Con questo non sempre devono essere presentati i documenti normalmente richiesti a corredo della “normale” dichiarazione doganale; in particolare:
nei casi normali, devono essere presentati solo:
la fattura sulla cui base viene dichiarato il valore in dogana delle merci;
la dichiarazione degli elementi per la determinazione del valore in dogana delle merci (ossia, il modello DV.1)[3]:
allorché le merci siano destinate ad un deposito di tipo D - ossia (secondo la definizione di cui all’art. 525 c. 2 D.A.C.) un deposito privato in esito al quale l’immissione in libera pratica si possa effettuare con la procedura della domiciliazione e si possa basare sulla specie, sul valore in dogana e sulla quantità di merci da prendere in considerazione al momento del vincolo al regime sospensivo – non è richiesta la presentazione di alcun documento a supporto della dichiarazione doganale.
Come già detto, caratteristica principale del regime dell’immissione in deposito è quello di “traslare” la nascita dell’obbligazione doganale al momento in cui le merci vengono svincolate, mediante dichiarazione di importazione definitiva o altra dichiarazione doganale, ovvero, in modo illegittimo, mediante perpetrazione del delitto di contrabbando.
In ogni caso, alla presentazione della dichiarazione di vincolo al regime dell’immissione in deposito non consegue la nascita di un’obbligazione debitoria a carico del dichiarante (se non limitatamente ai diritti portuali).
Non nascendo alcuna obbligazione, in tutti i casi di differenza di origine, qualità, quantità o valore, non potrà mai trovare applicazione l’aggravante di cui all’art. 303 c. 3 T.U.L.D., e ciò per l’ovvia ragione che non potrà mai considerasi avverato il presupposto del riaccertamento dei diritti di confine dovuti in misura superiore al 5% rispetto a quanto liquidato.
Tale assunto è ormai ius receptum tanto da costituire orientamento giurisprudenziale[4] e di prassi consolidato.
La non applicabilità dell’aggravante non comporta – o, meglio, non comporterebbe – alcuna conseguenza in ordine alla piena operatività dei c. 1 e 2 dell’art. 303 T.U.L.D., con conseguente applicabilità della sanzione pecuniaria in misura fissa.
Nondimeno, stante quanto sopra detto in ordine al contenuto dell’art.10 c. 3 L. 212/2000, non potendo ex se derivare, dall’errore commesso dal dichiarante, alcuna effettiva differenza di diritti di confine, a mio sommesso avviso deve ritenersi non più applicabile nemmeno la sanzione pecuniaria (impropriamente definita) fissa prevista dall’art. 303 c. 1 T.U.L.D..
[2] “La sanzione per irregolare dichiarazione doganale, ai sensi dell’art. 303, comma 2, d.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43, non è dovuta quando, pur essendo errata l’indicazione del codice della tariffa, il dichiarante abbia comunque indicato con esattezza il tipo di merce in transito. Tale speciale causa di esenzione ha natura generale, e quindi trova applicazione sia nelle ipotesi previste dal comma 1 del citato art. 303 (assenza di evasione od evasione inferiore al 5% dell’importo totale del tributo dovuto); sia nelle più gravi ipotesi previste dal comma 3 dell’art. 303 (evasione superiore al 5% dell’importo totale del tributo dovuto)” (Corte Cass., Sezione III, 1 ottobre 1999, n. 10898, Min. fin. c. Soc. Figli di Angiuli, in Giust. civ. Mass. 1999, 2057).
[3] Modello la cui presentazione è obbligatoria in tutti i casi in cui la formalità doganale abbia per oggetto merci il cui controvalore complessivo abbia un valore statistico superiore ad € 10.000, e ciò indipendentemente dal fatto che si tratti di beni assoggettati ad aliquota daziaria nulla (ossia dello 0%).
In proposito, è utile la lettura della circolare n. 29/D del 20 luglio 2005 dell’Agenzia delle Dogane (peraltro conforme alla precedente circolare n. 345 del 12 dicembre 1988 del Ministero delle Finanze – Dipartimento Imposte Indirette)
[4] “Nel 1985, la SNAM s.p.a., nel convenire innanzi al Tribunale di Genova l’Amministrazione delle Finanze, dichiarò di essere stata incaricata dalla I.P. di Genova di curare lo scarico di 24.000.000 kg. di gasolio di provenienza norvegese e di trasferirlo, tramite oleodotti, a Rho.
Nell’esecuzione dell’incarico essa ebbe però la sensazione che la merce non fosse gasolio e fermò le operazioni di scarico, informandone anche la Dogana, dopo di che il prodotto fu introdotto nel deposito doganale; operazione che fu regolarizzata con la presentazione di una <dichiarazione per introduzione in deposito>. Il prodotto fu poi reimbarcato per la restituzione al fornitore, trattandosi di merce diversa da quella pattuita.
Dopo questi fatti, la Dogana di Genova contestò alla SNAM la violazione dell’art. 303 T.U.L.D., invitandola al pagamento della sanzione di circa 162 milioni, per difformità della dichiarazione doganale relativa alla qualità della merce introdotta nel deposito doganale (gasolio), rispetto a quella effettivamente immessa nel deposito stesso.
Quindi, anche a seguito di un provvedimento ministeriale riduttivo della sanzione - sollecitato dalla SNAM - l’Intendenza di Finanza notificò alla società una ingiunzione di pagamento per il corrispondente importo di 50 milioni oltre spese, contro la quale la società propose opposizione sostenendo, tra l’altro: a) che mancavano i presupposti per l’applicazione dell’art. 303, sui diritti di confine, non vertendosi in tema di importazione definitiva; b) che, nel calcolo dei diritti di confine, non si doveva tener conto del dazio, trattandosi di merce norvegese accompagnata da certificato di origine EUR 1; c) che, per modificare la dichiarazione d’importazione in relazione alla qualità della merce ed impedire, quindi, l’applicazione della sanzione pecuniaria, non avrebbe potuto promuovere la visita preventiva di cui all’art 53 del D.P.R. n. 43, giacché lo sbarco era già iniziato.
L’Amministrazione delle finanze replicò, tra l’altro, che il certificato EUR 1 non aveva, nella specie, alcun valore perché relativo a merce diversa da quella che accompagnava e che i benefici tariffari di cui agli accordi CEE-EFTA riguardavano i casi di importazione definitiva e non anche quelli di detenzione della merce in deposito doganale, come nella specie.
Il Tribunale di Genova, in accoglimento del primo motivo di opposizione, dichiarò l’illegittimità dell’ingiunzione.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 6 novembre - 12 dicembre 1990, confermò la decisione di primo grado, impugnata dall’Amministrazione delle finanze, affermando che l’obbligazione tributaria di cui all’art. 303 della legge doganale sorge ed è dovuta quando le merci introdotte nel territorio doganale siano destinate al consumo, mentre, nel caso di specie, si era avuta un’immissione in deposito doganale regolarmente denunciata, per cui si era in regime di sospensione dell’assolvimento dell’imposta. Nè poteva ritenersi corretta l’immutazione terminologica della locuzione <diritti dovuti>, adottata nel suddetto art. 303, con quella di <diritti che sarebbero stati dovuti>.
Contro tale sentenza, l’Amministrazione delle finanze ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Resiste la SNAM con controricorso, chiedendo il rigetto dell’impugnazione.
Con il primo motivo di ricorso, l’Amministrazione delle Finanze denuncia la violazione degli artt. 36 e 303 T.U.L.D., sostenendo che l’art 303 prevede espressamente la sanzione pecuniaria sia per le dichiarazioni concernenti merci destinate all’importazione definitiva, sia per quelle concernenti merci destinate al deposito. Ritiene, inoltre, che quando la norma parla di diritti dovuti intende riferirsi anche ai diritti che sarebbero stati dovuti per le importazioni; e ciò non senza considerare che la fattispecie doveva essere inquadrata tra le vere e proprie importazioni di merce imponibili, dato che la certificazione esentatrice per il gasolio non corrispondeva alla merce effettivamente importata.
Con il secondo motivo, osserva che la Corte d’appello aveva dato per scontato che la merce non fosse stata destinata al consumo, senza considerare che, a norma dell’art. 36 della legge doganale, l’irregolare immissione di prodotto erroneamente indicato nella dichiarazione doganale integrava proprio gli estremi di una irregolare importazione e che quindi si era verificato il presupposto dell’obbligazione doganale relativa ai diritti di confine, essendo certo, nella specie, l’attraversamento della linea doganale della merce irregolarmente dichiarata ed immessa nel deposito. Rileva, inoltre, che dagli artt. 322 e 325 del Regolamento 13 febbraio 1896 n. 65, si trova ulteriore conferma di che cosa debba intendersi per diritti dovuti, in quanto vi si stabilisce che i diritti di confine si calcolano in base alla tariffa che sarebbe applicabile nel caso di importazione" e che la pena pecuniaria è applicabile anche se le merci siano esenti da diritti di confine.
È opportuno esaminare congiuntamente le due censure, data la loro stretta connessione.
Il ricorso è infondato. È opportuno, a tal fine, innanzitutto riportare - nei limiti delle parti che interessano la questione in esame - il testo della norma sanzionatoria applicata dall’Amministrazione doganale. L’art. 303 T.U.L.D. (il cui contenuto normativo è preceduto dalla rubrica Differenza rispetto alla dichiarazione di merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra dogana), al primo comma punisce con una sanzione pecuniaria di non elevato importo, il dichiarante le cui <dichiarazioni relative alla qualità...delle merci destinate alla importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra dogana con bolletta di cauzione, non corrispondano all’accertamento>.
Dopo un secondo comma che esclude l’applicazione di questo precetto in ipotesi particolari, un terzo comma prevede, tra l’altro, un consistente aumento della sanzione nel caso che <i diritti di confine complessivamente dovuti secondo l’accertamento sono maggiori di quelli calcolati in base alla dichiarazione e la differenza supera il cinque per cento>.
Secondo l’Amministrazione ricorrente, sussisterebbe uno stretto collegamento tra il primo ed il terzo comma del suddetto art. 303, con la conseguenza che il disposto del terzo comma si riferirebbe a tutte e tre le ipotesi di inesatta dichiarazione previste dal primo comma, nel senso che esso sarebbe applicabile tutte le volte in cui l’inesatta dichiarazione relativa alla qualità delle merci incida sull’importo dei diritti di confine dovuti, e pertanto non solo se le merci siano state destinate all’importazione definitiva, ma anche ed in particolare se siano state destinate al deposito doganale.
L’interpretazione della norma sostenuta dall’Amministrazione delle finanze non è corretta.
Bisogna partire, per evitare interpretazioni settoriali che non tengano conto dell’intero sistema costruito dal legislatore sui rapporti tra dichiarazione doganale ed accertamento tributario, dall’esame di una serie di norme che precedono quella sanzionatoria di cui all’art. 303.
Ebbene, dal Titolo II della legge (Rapporto doganale) e dal Capo I (L’obbligazione tributaria doganale), si desume che la legge (art. 34:Diritti doganali e diritti di confine) distingue nettamente tra diritti doganali in genere (definiti come tutti quei diritti che, in forza di una legge, la dogana è tenuta a riscuotere in relazione alle operazioni doganali eseguite: art. 34 c. 1) e diritti di confine, ossia quei particolari - e numerosi - diritti doganali che concernono solo le operazioni di importazione e di esportazione delle merci (art. 34 c. 2). Il successivo art. 36 (la cui rubrica è <Presupposto dell’obbligazione tributaria>) si riferisce espressamente alle merci soggette a diritti di confine, ossia, come già rilevato, a merci da importare o da esportare, e, per quanto riguarda quelle provenienti dall’estero, pone come presupposto dell’obbligazione, oltre a tale loro provenienza, che le merci stesse siano destinate al consumo entro il territorio doganale, intendendo per tali quelle dichiarate per l’importazione definitiva.
Una prima osservazione appare, quindi, necessaria; ossia che non tutte le operazioni doganali richiedono il pagamento dei diritti di confine. Questi sono dovuti solo in presenza di specifiche e tassative ipotesi, fuori delle quali è prescritto il pagamento soltanto degli altri diritti doganali, quali (solo ad esempio, giacché il loro numero è elevato) alcune delle c.d. tasse marittime, l’imposta di bollo, i diritti per visita sanitaria, le tasse sulle concessioni amministrative, l’IVA all’importazione (v. art. 70 d.P.R. 633/1972), ecc..
L’esame di queste regole sul rapporto doganale in genere e sui presupposti per il pagamento dei diritti di confine, rende necessaria un’ulteriore indagine, ossia quella di stabilire i rapporti tra la dichiarazione e l’accertamento.
A tal riguardo, va allora rilevato che, in base alle successive norme della legge doganale (delle quali si evidenzieranno gli elementi necessari per la decisione), le destinazioni doganali (art. 55) per le merci provenienti dall’estero (la destinazione, in forza dell’art. 57, deve essere precisata in occasione della dichiarazione doganale prescritta dall’art. 56) sono cinque: a) l’importazione definitiva; b) quella temporanea e la successiva riesportazione; c) la spedizione da una dogana all’altra; d) il transito; e) il deposito.
L’art. 57, poi, nello specificare le indicazioni necessarie da inserire nella dichiarazione doganale, vi ricomprende la destinazione della merce e la loro qualità.
Atteso che il pagamento dei diritti di confine, ai sensi dell’art. 36, è dovuto solo quando si tratti di importazione definitiva di merci straniere destinate al consumo nel territorio doganale, il collegamento tra questa norma e l’art. 55 porta alla logica conclusione che i diritti suddetti non siano dovuti quando la destinazione doganale della merce sia diversa da quella indicata alla lett. a) dell’art. 55 (ossia l’importazione definitiva). Il che, ovviamente, non significa che per le altre destinazioni non sia dovuto il pagamento di alcun diritto, ma solo che sono dovuti unicamente i diritti doganali diversi da quelli di confine enunciati dal I co. dell’art. 34.
Appare chiaro, allora, che la distinzione tra diritti doganali in genere e diritti di confine viene in rilievo in particolare nell’ambito delle norme sanzionatorie, sotto il duplice profilo che il legislatore ha previsto una pena diversa quando l’operatore doganale violi le disposizioni sui diritti di confine e che solo in tal caso ha preso tali diritti a base della determinazione della sanzione.
Ritornando, dunque, al punto di partenza di questa indagine, ossia all’interpretazione dell’art. 303 del d.p.r. n. 43 del 1973, questa Corte ritiene che il primo ed il terzo comma di tale norma sono solo parzialmente collegati. Infatti, nel primo comma essa punisce ogni ipotesi di falsa dichiarazione relativa alla qualità delle merci, siano queste destinate all ’importazione definitiva, al deposito o alla spedizione ad altra dogana; qualunque sia il diritto dovuto per l’operazione (diritto di confine o altro diritto doganale), fuori da ogni riferimento all’importo del diritto stesso.
Qualora, poi, per l’operazione doganale sia prescritto il pagamento dei diritti di confine (merci destinate all’importazione definitiva ed al consumo entro il territorio doganale) e dall’accertamento risulti che i diritti dovuti erano superiori di un quinto rispetto a quelli calcolati in base alla falsa dichiarazione, il terzo comma prevede una distinta sanzione pecuniaria, la cui commisurazione è collegata espressamente all’importo dei diritti evasi. In questo secondo caso, allora, il fatto accessorio rispetta alla fattispecie base della falsa dichiarazione (ossia che i diritti evasi superino il 5% di quelli calcolati sulla base della dichiarazione stessa) si configura come una circostanza aggravante dell’illecito amministrativo; una circostanza che aggrava, però, la sola ipotesi d’illecito, già prevista dal c. 1, in cui per l’esecuzione dell’operazione doganale sia dovuto il pagamento di diritti di confine (si tratti, cioè, di merci destinate all’importazione definitiva). Se, infatti, l’operazione doganale non prevede il pagamento di diritti di confine, neppure può ipotizzarsi, secondo logica, la comminatoria di una sanzione che venga collegata all’importo di tali diritti, che, per definizione, non sono dovuti.
Nè appare giuridicamente accettabile la tesi che, in caso di falsa dichiarazione circa la qualità della merce, la legge, benché la relativa operazione doganale non richieda il pagamento di diritti di confine, trasformi essa stessa fittiziamente la destinazione doganale della merce (da deposito a importazione definitiva), tal che questa destinazione venga qualificata automaticamente come importazione definitiva e la falsa dichiarazione sia assoggettata, quindi, alla sanzione pecuniaria che tale ipotesi presuppone.
E neppure, infine, può condividersi la tesi, pur prospettata dall’Amministrazione delle finanze e da tempo ripudiata dalla dottrina e dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’importazione definitiva (e quindi la destinazione al consumo nel territorio doganale) si sarebbe realizzata per il solo fatto che la merce aveva attraversato la linea doganale. Invero, anche indipendentemente dall’evidente distinzione che la vigente legge doganale opera tra le due fattispecie dell’importazione definitiva e del deposito doganale, questa Corte ha chiarito che la destinazione a deposito doganale individua una condizione giuridica delle merci antitetica rispetto a quella dell’importazione, pur potendo preludere ad essa. Il deposito doganale, infatti, presuppone proprio l’assenza di un’attuale destinazione della merce e risponde alla finalità di agevolare le operazioni internazionali, consentendo il mantenimento dell’originaria nazionalità della merce, ancorché abbiano oltrepassato la linea doganale fino a quando ad essa non venga data una destinazione definitiva. Quindi, prima di questa scelta, le merci non possono ritenersi importate, costituendo l’importazione definitiva solo una delle possibili destinazioni della merce, la quale si realizza soltanto allorquando verranno poste in essere le relative prescritte operazioni (cfr. Cass. 4 aprile 1980 n. 2223.).
In conclusione, pertanto, poiché, nella specie, la differenza rispetto alla dichiarazione effettuata dall’operatore doganale circa la qualità della merce importata - rilevata in sede di accertamento - riguardava certamente merci destinate al deposito e non all’importazione definitiva e per la cui destinazione, quindi, non era previsto il pagamento di diritti di confine, la sanzione comminata dal c. 3 dell’art. 303 T.U.L.D. non era applicabile.
Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato. Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione” (Corte Cass., Sezione I, 11 luglio 1995, n. 7563, Ministero delle Finanze c. SNAMC, in Giur. Civ. Mass. 1995, 1352).