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Djoko al massacro

Ammazzare il serbo e vivere felici
Novak DJOKOVIC
Novak DJOKOVIC

Ma cosa ci è successo, a tutti quanti? Sono anni che ci lamentiamo di uno sport spersonalizzante non più in grado di offrire storie, epica e pathos. Di improvviso ecco che ci si presenta il più grande intrigo politico-sportivo degli ultimi anni e noi cosa facciamo? Reagiamo da piccoli moralisti social, giustizialisti meschini e invidiosi che rispolverano la retorica dell’uno vale uno e invocato boicottaggi, damnatio memoriae e pene esemplari. Sui social si scatena una bufera imbarazzante e negli stessi salotti benpensanti in cui si definivano “feroci e disumane” le politiche sull’immigrazione australiane, prontamente prese a modello dai sovranisti di casa nostra, si loda invece il pugno di ferro adottato nei confronti dei no vax.

Sedicenti democratici e presunti garantisti si compiacciono alteri del trattamento da bandito – o come scrive qualcuno “da terrorista” – riservato al numero uno del mondo. Godono nel saperlo senza telefono, trattenuto in un hotel per migranti con cibo avariato, scarafaggi in camera e un esercito di reietti su cui solo Novak Djokovic poteva accendere i riflettori. E godono ancora di più nel vederlo in aeroporto, a testa bassa, ufficialmente espulso dall’Australia. Ah, giustizia è fatta! Ora sì che l’ordine (della legge ma soprattutto delle cose) è ristabilito; adesso possiamo dormire tranquilli, e placare le nostre instancabili coscienze.

Una vittoria anche per questo giornalismo sempre così impegnato, costretto a sedersi dalla parte della ragione prima che qualcuno gli tolga la sedia da sotto al culo.

E pensare che una volta, quando i giornalisti erano informatori e non invece formatori (di coscienze e di retorica), una storia del genere sarebbe stata un dono dal cielo: il miglior tennista al mondo, irriducibile no-vax, seguace della medicina alternativa e della teoria della memoria dell’acqua, (mezzo) respinto da uno Stato sovrano e sbattuto in una struttura di accoglienza assieme a centinaia di disperati guineani; il tutto mentre il suo clan slavo lo paragonava a Gesù, a Spartaco, invocava l’intervento della regina Elisabetta e ne identificava il destino con le sorti stesse della Serbia.

Un intrigo politico ed internazionale, sportivo ed elettorale con il volto bifronte dell’ordine e del caos: l’austerità della legge da un lato, la mistica delle piazze serbe e della galassia no-vax dall’altro, radunate sotto l’effige di Djokovic come fosse un martire. Martire per la libertà. Una storia incredibile a cui noi abbiamo saputo rispondere solo con la richiesta all’Australia di cacciarlo e agli altri partecipanti di “scioperare” (le battaglie, quelle nobili). Dice bene allora Giuliano Ferrara quando scrive sul Foglio che «uno non vale uno, specie se si tratta di Novak Djokovic» e denuncia «l’orribile spettacolo da cultura ex galeotta» offerto dagli australiani, «gli stessi iper salviniani che volevano tirare siluri contro le barche dei migranti».

Questa vicenda d’altronde ha fatto gettare la maschera a molti, a partire dai neomachiavellici concentrati esclusivamente sul fine e disposti a chiudere un occhio sui mezzi. Mezzi collaudati, ad esempio, nel caso Voracova, tennista ceca ammessa in Australia con esenzione (per aver avuto il covid a dicembre) e poi respinta: quest’ultima era rimasta addirittura per otto giorni sul territorio nazionale, disputando anche un match ufficiale. Una volta esploso il caso Djokovic, è stata fermata e condotta nella stessa struttura di accoglienza del serbo: interrogata, costretta a spogliarsi e ovviamente privata del visto, a differenza di Novak ha deciso di tornare in patria e ora di fare causa alla Federtennis australiana – che, proprio come successo per il serbo, aveva accettato la sua richiesta di ingresso.

«Mi sentivo una criminale, non c’era motivo per cui dovessi sentirmi così. Ho inviato tutti i documenti, sono stati approvati. Se avessi saputo che c’era anche solo l’1% di possibilità che qualcosa non andava bene, non sarei partita (…) Ero preoccupata. Non mi sono sentita al sicuro finché non sono tornata a casa, niente era sicuro. Era come se stessi guardando un film, un lungo interrogatorio con istruzioni come ‘spogliati, vestiti‘. Che schifo, non voglio nemmeno pensarci, figuriamoci viverlo di nuovo (…)

Ora non penso al tennis, sono ancora sotto shock, non ho ancora digerito il tutto. Sono esausta».

Renata Voracova

Tutto normale giusto? L’importante era espellere il marchese del grillo Djokovic, e per farlo si poteva anche passare sopra a qualche diritto umano e costituzionale. Così si è arrivati al paradosso per cui migliaia di anime belle e coscienze sveglie (una volta accolto il ricorso di Nole da parte del giudice Kelly) richiedevano che il potere esecutivo esautorasse quello giudiziario e invocavano, senza curarsi della sua fattibilità giuridica, un precedente che imboccasse il senso unico e il vicolo cieco di uno stato dai meccanismi autoritari – sarà che in tempi di emergenza è tornata di moda la figura del “dictator” degli antichi romani, un magistrato speciale che poteva sospendere l’esercizio costituzionale per un periodo di tempo limitato.

Ma tutto questo va bene, rientra nel novero degli effetti collaterali: l’Australia che accoglie e poi respinge, il governo populista, il primo ministro che giustifica l’espulsione del serbo con “motivi di salute e buon ordine”; la sospensione di diritti (sportivi innanzitutto), l’oblio dei rudimenti della logica e, per i giornalisti, della deontologia professionale. Una vicenda «orwelliana che lascia aperte molte domande scomode, e dice molto sulla bruttezza di questo caso in cui così tanti si siano dilettati nello spettacolo della deportazione pubblica di un uomo», per citare l’editoriale di Oliver Brown sul Telegraph, una delle poche voci autorevolmente critiche fin dalle prime battute. Altrove però, sulla stragrande maggioranza di media e giornali, si consumava l’ennesima Stalingrado del cosiddetto “opinionismo”.

Qui da noi eravamo arrivati al punto per cui i più rappresentativi (si fa per dire) giornalisti e politici nazionali neanche si domandavano come avesse fatto Novak ad ottenere l’esenzione medica, concessa da due equipe di medici indipendenti nominati dallo stato del Victoria e da Tennis Australia – e non dal suo “mediconzo serbo”; meglio ipotizzare invece un’opera di corruzione per assecondare gli umori social, basandosi unicamente su un post Instagram e su un protocollo che neppure conoscevano (credevano infatti, inizialmente, che l’infezione nei sei mesi precedenti bastasse per entrare). In questo contesto nebuloso Djokovic è stato condannato non solo moralmente ma anche “giuridicamente”:

senza processo e senza appello, come voleva fare un governo australiano con la coda di paglia e la testa già alla campagna elettorale.

A maggior ragione in tempo di elezioni (fissate per maggio 2022 in Australia), il problema non è stato solo normativo: non può esserlo quando esplode un vero e proprio caso internazionale – ben più dirompente di quanto si aspettassero lo stato di Victoria, l’Australia tutta e lo stesso Nole –, quando i manifestanti assaltano più o meno virtualmente i palazzi di giustizia, quando l’opinione pubblica (almeno il 51% secondo i sondaggi) preme per un determinato verdetto. Quando giornali, televisioni, giornalisti, politici e con essi l’eruzione magmatico-virtuale dei social network formano un coro pressoché unanime#Djokovicout.

Con una pressione insostenibile, nell’occhio del ciclone mediatico planetario e in una (pre)campagna elettorale in cui il caso Nole ha rappresentato il tema all’ordine del giorno, più della sicurezza, del lavoro o dell’economia, ne è seguita una corsa al consenso e alla dichiarazione più risoluta possibile. La questione è diventata politica, e in Australia nessuno poteva permettersi di cedere. Se poi ci aggiungiamo il contesto pandemico e la delicata questione dei no-vax, ecco che salta il banco. Djokovic infatti qui commette il peccato originale, “sfata” il tabù dei tabù e assume la posizione che oggi nessuno dovrebbe assumere: quella del no al vaccino.

Si trasforma in megafono e simbolo di una minoranza che non dovrebbe avere riferimenti a cui aggrapparsi, questa la versione di governi e media, e invece può contare sull’arroganza e la visibilità del miglior tennista al mondo.

È chiaro che in simili contesti si inneschi una spirale di irrazionalità emotiva difficilmente controllabile (a maggior ragione in Australia, il Paese occidentale più severo nel contrasto alla pandemia). Se qui in Italia giornalisti navigati hanno definito i no vax terroristi, virologi affermati li hanno chiamati sorci, amministratori pubblici hanno proposto di marchiare le loro case, politici hanno scomodato Bava Beccaris e la soluzione “spara sulla folla” e il presidente del consiglio li ha posti “fuori dalla comunità”, pensiamo al clima in una Nazione che si appresta a recarsi alle urne e che per mesi ha perseguito la strategia zero-Covid, andando anche incontro a gravi e strutturali danni economici. È comprensibile, e fisiologico, che gli animi siano surriscaldati ed esacerbati.

Djokovic da parte sua non ha certo aiutato. Tutt’altro.

Al di là delle ipotesi rilanciate dalla Germania (da verificare) sull’eventuale tampone falso, secondo la versione ufficiale – e per sua stessa ammissione – il serbo ha rilasciato un’intervista a l’Equipe da positivo e prima di isolarsi: un comportamento irresponsabile, per usare un eufemismo, e che lascia inevitabilmente aperte valutazioni etiche e morali. Eppure si tratta di un fatto, pur nella sua estrema gravità, ininfluente per il verdetto: una questione che riguarda il codice penale serbo, non la partecipazione agli AO. Chi si appiglia a questo per giustificare l’espulsione di Djokovic, di nuovo, confonde i piani (etico e giuridico) e dimentica quel piccolo dettaglio della separazione dei ruoli e delle competenze, fondamento delle società democratiche occidentali fin dai tempi di Montesquieu.

Così, mentre da Parigi rimbalzano le dichiarazioni del ministro dello sport Maracineanu, per cui i non vaccinati non potranno partecipare neanche al Roland Garros, Djokovic esce da tutta questa vicenda con le ossa rotte (o “con 50 proiettili in petto”, per usare la macabra formula di papà Srdjan): con un danno di immagine incalcolabile, anzi calcolato in 50 milioni di mancate sponsorizzazioni, e con una carriera potenzialmente rovinata, soprattutto se Nole dovesse continuare ad alimentare la “resistenza” no vax.

Ma alla fine della fiera, cosa rimane? Un corpo a terra, quello di Djokovic, e una giustizia esercitata ed ostentata in maniera sgradevolmente dispotica. Un senso di amarezza persistente se non proprio di squallore. Rabbia e violenza verbale che vanno ben oltre le ragioni “sanitarie”, in un accanimento che che si è mascherato da bene comune e ha tirato fuori, ancora una volta, il peggio di noi: neanche più la banalità del male bensì la superficialità della cattiveria. Ma era veramente necessario tutto ciò? Sono soddisfatti, adesso, quelli che pretendevano “giustizia”? Ora che il tennista numero uno al mondo è in ginocchio, nella polvere, e la sua carriera a rischio demolizione.

Proprio sull’Equipe, il giornale che più di tutti avrebbe ragioni per condannare il solo Djokovic, Romain Lefebvre nei giorni scorsi ha tirato un po’ le fila di tutta questa assurda telenovela, così emblematica dello “stato del mondo nel 2022”: «Un mondo pazzo, spostato dalla pandemia nell’irrazionale da quasi due anni. A Melbourne, la città più confinata del pianeta, con 262 giorni di rigorosa quarantena, si è tenuta una serie di colpi di scena di incredibile sproporzione.

Follia, di questo si tratta, quando misuriamo l’entità del terremoto scatenato da uno sportivo venuto a giocare un torneo di tennis.

Quella di un primo ministro populista, criticato pochi mesi prima delle elezioni legislative, le cui parole hanno messo sotto pressione la polizia di frontiera nello stato del Victoria. Quella dei funzionari che hanno cancellato il visto di Djokovic dopo sette ore di interrogatorio a suo carico. Quella di una nazione capace di tenere in carcere, nell’albergo dove è stato rinchiuso il serbo, 36 profughi e migranti in condizioni sordide e disumane per anni. Follia, è anche quella del primo interessato, Novak Djokovic». 

Una follia ignorata da tanti, troppo impegnati nella pubblica gogna a Nole. In questo contesto a tinte fosche, qualche barlume di buon senso è stato acceso da dichiarazioni isolate: da Patrick Mouratoglu e Alexander Zverev, passando per il suo arcinemico e critico severo (anche sulla pandemia) Nick Kyrgios, imbarazzato dalla gestione australiana della vicenda: «Hawke dice che Djokovic è una minaccia per i nostri confini. Lo stiamo trattando come un’arma di distruzione di massa. Ma non lo è. È qui per giocare a tennis, non sta facendo del male a nessuno». Per il resto una figura desolante e grottesca di tutti gli attori: protagonisti, co-protagonisti e semplici comparse. Di un governo costretto a intervenire e per motivi “di salute, sicurezza e ordine pubblico”, volendo citare il premier Morrison.

«Il ministro ha ritenuto che la presenza di Djokovic in Australia spingerebbe persone ad imitare la sua apparente mancanza di rispetto nei confronti delle misure di sicurezza. La gente fa riferimento ad atleti di alto livello per promuovere idee e cause. Non dico che Djokovic stia sostenendo una causa. Ma il suo legame con tale causa, voluto o no, è ancora evidente. E si è ritenuto che la sua presenza in Australia possa costituire un rischio».

Stephen Lloyd, legale del governo australiano

Una spiegazione inquietante, un assurdo giuridico indimostrato e indimostrabile. Tribunali ostaggi di politici ostaggi di elezioni. Djokovic untore, come se i non vaccinati fossero delle bombe virali (anche chiusi nelle bolle); Djokovic sobillatore, come se la sua presenza (e non la sua espulsione) potesse rinfocolare il movimento no vax; Djokovic cattivo maestro, dall’alto del suo ruolo di responsabilità, come se ciò avesse un nesso con la revoca del visto. È questo però il tasto su cui battono oggi opinione pubblica e media, perseverando in una confusione di sfere ormai patologica: uno sportivo di tale livello deve essere d’esempio, tuonano giornalisti trasformati in giudici, preti ed influencer. Cosa significhi essere d’esempio, ovviamente, lo decidono loro; anzi, lo hanno già deciso.

D’esempio è lo sportivo impegnato per l’inclusione e l’ambiente, per i diritti civili e le vaccinazioni. Basta leggere il copione sottoscritto da tutte le grandi multinazionali, ormai esperte di come funziona il mercato dell’opinione e abituate a tingersi di arcobaleno o di green. Quelle contro cui si batte Nole!, sentenziano i suoi fan con fare paranoico, come a voler motivare l’espulsione con un complotto plutocratico ai suoi danni. A noi onestamente non ce ne può fregare di meno, di questo e dello stato vaccinale di Djokovic.

Non siamo di quelli che pretendono da lui che ritratti coram populo le sue posizioni, che si penta davanti al mondo e faccia pubblica professione di fede, anzi di Scienza. Non ne abbiamo la voglia e soprattutto il diritto. Benché meno siamo tra quelli che lanciano boicottaggi agli sponsor del tennista fino a quando non lo avranno scaricato. Pensiamo a Gianluca Carofiglio, scrittore di successo (misteriosamente) ed ex magistrato e politico, che ha scritto:

«Per quanto mi riguarda, in ogni caso, mi accingo ad annotare i nomi degli sponsor del suddetto tennista per evitare (fino a quando lui sarà testimonial) di acquistare i loro prodotti. Magari non serve a nulla. Magari invece sì».

Ecco il volto tollerante dei progressisti, il potere dei più buoni, la protervia di chi sa di essere maggioranza (almeno mediatica) e ne approfitta. Da qui pressione inesausta che quelli come Carofiglio esercitano, in ogni forma, per bruciare la terra intorno a chi vogliono distruggere. Perché gente del genere mira a distruggere Djokovic, ad abbatterlo come si farebbe con una statua sgradita, a cancellarlo dalla storia del mondo. Per questo, laddove gli altri posti sono tutti occupati, ci sediamo volentieri dalla parte del torto: accanto a Nole che senza dubbio ha sbagliato, ma che non merita una caccia all’uomo tanto spietata; nessuno la merita.

Nel nostro piccolo, lo avremmo apprezzato di più se fosse rimasto a casa a continuare la sua battaglia, più o meno condivisibile, senza provare a forzare leggi e protocolli. Avrebbe dato al mondo una lezione di coerenza, seppure non si sarebbe risparmiato attacchi scomposti, verdetti di colpevolezza e ridicolizzazioni diffuse – com’era quella frase di Voltaire che vi piace tanto?. Ma almeno, da tutta questa storia, abbiamo capito tante cose e visto tanti volti. In molti hanno calato la maschera, la stessa che Nick Kyrgios giura di avere di Novak Djokovic e con cui avrebbe voluto festeggiare il trionfo australiano del suo (ex) nemico. Sarà per la prossima volta, se una prossima volta ci sarà. Intanto, perlomeno, si è saldato il fronte delle pecore nere, Novak e Nick: lontani dal gregge, sempre e comunque.