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Federer, semplicemente, è stato il tennis

Abbiamo visto Roger Feder
Roger Federer sui campi di Sua Maestà (foto: V. A. Amendolara)
Roger Federer sui campi di Sua Maestà (foto: V. A. Amendolara)

Articolo pubblicato sulla rivista “Contrasti” il 16 settembre 2022.

 

In fin dei conti lo sapevamo tutti, ma rifiutavamo categoricamente di accettarlo. Il ritiro di Roger Federer non è stato un fulmine a ciel sereno, piuttosto un tuono nella tempesta. Eppure, ha lasciato tutti senza parole, alcuni di noi persino senza fiato e con gli occhi lucidi. Probabilmente perché l’essere umano non è progettato per lasciar andare ciò che ama, sicuramente perché ci nutrivamo ancora di illusioni. Quelle remote di un’ennesima rinascita, di un’ultima grande apparizione, di un altro titolo prestigioso. Quelle più umili di un addio ancora da venire, per godere di un talento talmente puro e abissale da sperare, sotto sotto, che non avesse una data di scadenza. Quello più intimo infine di vederlo, o rivederlo, una volta ancora, una sola, attingendo a pieni occhi a una mistica e ad un’estetica impareggiabili nel mondo del tennis.   

Le illusioni in qualche modo spingono oltre il confine della maturità, ci riconciliano con il nostro spirito più ingenuo, persino con l’irrazionale. Ecco perché oggi ci sentiamo un po’ più grandi, ma un po’ più vuoti. Abbiamo fatto i conti con la realtà, infranto l’utopia per la quale Roger avrebbe potuto giocare davvero per sempre, o almeno per un ultimo grande torneo: l’addio migliore per la migliore delle storie. Invece siamo costretti a riavvolgere il nastro e, seguendo la scia di sassolini lasciati sul cammino, ci rendiamo conto che l’ultima partita professionistica di Federer termina con un beffardo 6-0 incassato sul centrale di Wimbledon. Destino ingrato per chi ha scandito la storia del torneo più importante al mondo, ma segnale inequivocabile del fatto che il tempo, nello sport, non risparmia nemmeno i più grandi. Probabilmente il più grande, che è cosa diversa dall’essere il più forte, comunque la si pensi. 

La fine di un’era” si legge in queste ore sulle testate di mezzo mondo. Eppure, persino un’era sarebbe insufficiente per raccontare Roger Federer. 

Non è la dimensione temporale a poter incasellare l’unicità che Roger è stato per il tennis, senza dubbio irripetibile. Ha contribuito alla diffusione planetaria di questo sport come nessuno prima di lui. La sua immagine è diventata icona inscindibile dalla racchetta, ambasciatore solare con cui l’ATP ha schiuso le porte agli angoli più ricchi del mondo, accumulando visibilità e contratti che hanno proiettato il tennis in un’altra dimensione. Le sue sfide con Nadal e Djokovic hanno stravolto i canoni mediatici di questo sport, piegando i palinsesti alle esigenze del gioco, superando persino le tradizionali avversioni televisive, mutuando il tennis in un prodotto di massa.

Il suo talento è stato stimolo per i suoi avversari e ispirazione per le nuove generazioni. La sua grandezza si potrebbe valutare nel numero di titoli vinti, nei record infranti, ma sarebbe uno squallido approccio statistico, matematico. e racconterebbero solo una parte di ciò che è stato Roger Federer. Certo i trionfi creano ed alimentano l’epica di Roger Federer ma non tutto è misurabile, tanto meno concetti puramente arbitrari quali stile, eleganza, classe – arbitrari poi fino a un certo punto, altrimenti la Gioconda varrebbe un comune ritratto, la Pietà di Michelangelo una normale scultura, e non si darebbe arte. Attributi di cui Roger Federer è stato senza dubbio il più grande esponente nella storia dello sport: il suo modo di giocare sembra soddisfare la definizione di design, bellezza applicata alla tecnica. Ecco perché i suoi gesti sono diventati magnetici per gli spettatori. Essenzialità e purezza stilistica abbinata all’efficacia tennistica. Federer sembrava nato per giocare a tennis, ed esserne il suo profeta.

“Mi ero sbagliato. Nel non considerare Roger Federer il più forte di tutti i tempi. Oggi mi sono al fine reso conto che Federer è il più forte tennista mai nato. Di Tilden ha sicuramente l’immaginazione creativa, l’eleganza di ampi, fulminei gesti rotondi. Di Cochet il senso dell’anticipo, l’abbreviazione addirittura ironica di fraseggi per altri laboriosi” Gianni Clerici

Ho avuto il privilegio di partecipare a quella che il genio tormentato di David Foster Wallace chiamava «una fottuta esperienza religiosa»: vedere Federer a Wimbledon. Ho assistito alla sua funzione sul Centre Court, ma soprattutto l’ho potuto ammirare a pochi metri da me sul campo 7 dei Championships. Ricordo con chiarezza i rumori di quelle sessioni. Anzi, più corretto sarebbe chiamarli suoni: evocazioni uditive che raccontano alla perfezione l’essenza di Roger. Il modo di muoversi dello svizzero sul campo è privo dei fronzoli scomposti fatti di scivolate, allungamenti, correzioni. Il suo “gioco di piedi” è riconosciuto come il migliore di sempre, la capacità di utilizzarli in modo perfetto non richiede mai revisioni. Così, sul campo Federer si muove con un passo felpato appena udibile, quello di un cervo nella foresta, deciso, ma discreto.

Quando arriva la torsione della parte alta del tronco, stabile e possente, il braccio fende l’aria con un sibilo. Un movimento appena udibile prima dello schiocco. Il rilascio della pallina dal suo budello naturale intrecciato alle fibre sintetiche ha un tono riconoscibile. Sembra il tocco unico di Mark Knopfler sulla chitarra elettrica, un suono simile a tutti gli altri eppure diverso, unico. La nota che esce dalla sua Wilson Pro Staff è secca, profonda, non si prolunga più del dovuto, in una parola sembra perfetta. Parla poco l’elvetico, dalla sua bocca non escono imprecazioni, mugugni, urla sguaiate. La sinfonia che produce è solo ed esclusivamente la colonna sonora del tennis.

“Federer è stato un sogno, cioè la possibilità di vedere realizzata la perfetta fusione tra il tennis dei gesti bianchi e la forza della modernità, senza snaturare una classe che non conosceva confini.” Paolo Bertolucci

L’esperienza sensoriale più immediata è però la vista. I movimenti dell’elvetico sembrano quasi studiati, pare davvero che la sua sia una recita con sé stesso. Talmente pulito, essenziale e composto che non dà la sensazione di poter essere uno sportivo professionista. Poi invece la magia prende vita, e si coglie in un istante che è semplicemente diverso da tutti gli altri. Quando entra sul campo Centrale e saluta il pubblico torna in mente l’affresco dell’autore di Infinite Jest:

“Nel completo tutto bianco che Wimbledon ancora si diverte impunemente a imporre, sembra essere quello che (secondo me) potrebbe benissimo essere: una creatura con il corpo fatto sia di carne sia, in un certo senso, di luce.”

Poco conta se sono suggestioni: in quello stadio, che Giorgio Bassani definì “Il Vaticano del tennis”, ci si può permettere anche di vedere camminare figure affini al divino senza peccare di blasfemia. 

Roger Federer ha provato a combattere contro il tempo. Si è operato tre volte a un ginocchio che continuava a chiedere pietà, con l’ostinazione di un vincente in una battaglia senza scampo. Ci sembra vederlo ammettere l’inevitabile con la stessa mimica che aveva in campo, quando nei momenti di tensione si passava il polsino avvolto intorno al braccio destro sul volto accigliato, intento a progettare il colpo successivo. Si ritira proprio mentre Nadal e Djokovic si prendono a pugni per contendersi lo scettro di tennisti più vincenti di sempre. Si defila quasi con noncuranza, lasciando intendere la volgarità della corsa all’oro, lui che l’oro ce l’ha posato in testa, a forma di corona.

Non serve primeggiare nei titoli per essere il più grande, perché nessuno come lui ha saputo essere tennis, nei modi in cui il Maggiore Wingfield l’aveva ideato nel 1873: élite, stile, classe ed eleganza.

E come un Re, Roger ha lasciato. Con una lettera firmata di suo pugno, scritta su una carta intestata recante il monogramma della sua casata: RF. La Laver Cup, che lui stesso ha contribuito a fondare e far crescere, sarà il suo ultimo evento, una cosa a metà tra un’esibizione e una rimpatriata. L’atto conclusivo sarà il mitico doppio Fedal, e lì forse gli occhi lucidi si trasformeranno in lacrime. To the game of tennis: I love you and I will never leave you, ha scritto lo svizzero come commiato al suo sport. È troppo elegante Roger per dire la verità, cioè che è l’esatto opposto: il tennis lo ama, e non lo lascerà andare mai via. Perché come ricorda in queste ore Adriano Panatta: Oggi non si è ritirato Roger Federer. Si è ritirato il tennis.