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Rafael Nadal: l'immortale

Nadal
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L’esploratore spagnolo Juan Ponce de León tra il 1513 e il 1521 attraversò per due volte l’Atlantico con destinazione Caraibi. Le sue spedizioni erano volte alla ricerca della leggendaria Fonte dell’Eterna Giovinezza. Secondo il mito chiunque si fosse abbeverato dalle sue acque avrebbe avuto in cambio rinnovato vigore in grado persino di curare malattie e acciacchi. Come molte delle spedizioni utopistiche del Cinquecento, il viaggio contribuì a individuare sulla mappa una penisola particolarmente rigogliosa, ribattezzata per questo La Florida, e poi trovare, inevitabilmente, la morte.

Della Fonte dell’Eterna Giovinezza nessuna traccia, così almeno riportano le fonti. Perché il dubbio che quel magico elisir sia approdato a Manacor, nella zona orientale di Maiorca, è più che fondato. Diversamente sarebbe difficile spiegare quello a cui abbiamo assistito ieri, poco più di 500 anni dopo, quando a Melbourne Park era da poco passata l’una di notte. Più precisamente quando, dopo oltre cinque ore totalmente folli di battaglia, l’ultima volée di rovescio di Rafael Nadal ha incoronato lo spagnolo campione degli Australian Open.

Comprendiamo che chi non segue il tennis con assidua dedizione troverà i termini un po’ smisurati. In fondo, si potrebbe dire, prima di ieri era già successo altre venti volte. A scorrere l’albo d’oro dei tornei del Grande Slam poi, la ricorrente presenza dei soliti tre nomi negli ultimi vent’anni è quasi stucchevole. Allora perché tanto clamore per una vittoria? Permetteteci di riavvolgere il nastro.

Lo scorso 20 agosto Rafael Nadal, attraverso un breve messaggio su Instagram, annunciava il ritiro dalla stagione sportiva 2021. La sindrome cronica-degenerativa di Müller-Weiss, diagnosticata al maiorchino nel 2005, ha presentato il conto con il passare delle stagioni, facendogli accumulare più di tre anni (complessivi) di inattività. Il plantare aggressivo che devia il fulcro degli appoggi del piede di Rafa ha alterato il funzionamento delle sue articolazioni, mettendo a dura prova l’integrità dei tendini rotulei del tennista di Manacor. Una terapia conservativa che anni di scatti feroci, cambi di direzione repentini e partite estenuanti, hanno infine reso insufficiente.

Il dolore derivante dalla frattura allo scafoide tarsale, rosicchiato nel tempo dalla malattia, poteva essere mitigato solo mediante un’operazione chirurgica delicata. Quando l’undici settembre, giorno di dolore e rinascita, Rafa posava in foto munito di stampelle e decorato di gesso, nessuno si sarebbe potuto aspettare l’ennesimo ritorno. Intorno alla sua carriera aleggiava lo spettro di un ritiro, triste quanto inevitabile dopo una vita spesa a servizio della racchetta.

«Un mese e mezzo fa non sapevo neanche se fossi potuto tornare a giocare. Quindi non importa nient’altro, scendo in campo e do il mio meglio sempre, provandomi a divertire»

Rafael Nadal, al termine della semifinale contro Matteo Berrettini.

Sono seguiti mesi di lavoro e sudore, dedizione e sacrifici, concetti con i quali l’uomo Rafa non si potrà mai disgiungere dal tennista Nadal. Ecco allora gli allenamenti, l’esibizione ad Abu Dhabi, con tanto di infezione da Covid-19. L’arrivo in Australia, la vittoriosa partecipazione al torneo di preparazione Summer Set, e poi l’ottimo avvio a Melbourne con un unico obiettivo: andare il più avanti possibile. E mentre i turni scorrevano e la consapevolezza aumentava, cresceva anche la voglia di arrivare davvero fino in fondo, fino a stringere quella coppa alzata nel 2009 e poi sfuggita altre quattro volte.

Nell’ultimo atto del torneo, dall’altra parte della rete lo aspettava l’avversario più accreditato: Daniil Medvedev. E qui quella che poteva essere una favola è diventata leggenda. Il russo, con i meritati favori del pronostico, nei primi due set ha demolito un Nadal abulico. Lo spagnolo orfano del suo dritto micidiale, attivo solo a intermittenza, ha sofferto le accelerazioni repentine di Medvedev, i piedi infuocati sempre pronti a spostare i suoi due metri in giro per il campo a una velocità siderale. Spesso inavvicinabile nei propri turni di servizio, sempre penetrante in quelli traballanti dello spagnolo.

Ma al di là di ogni analisi tattica nella terza partita, sul 3 a 2 e tre palle break per il russo, sembrava evidente a tutti che l’unico avversario contro il quale nemmeno Nadal avrebbe potuto più nulla era il tempo. Troppi quei dieci anni di differenza che ormai stavano lasciando il loro segno impietoso sul cemento di Melbourne. Eppure sullo 0-40, tra i palleggi e i riti ossessivi prima di servire, si stava costruendo il manifesto definitivo di Rafael Nadal.

Volvér è un verbo caro agli iberici, e racconta molto di questa finale. Il rientro dall’infortunio, ma anche il rientro in un match che sembrava perduto. Ma soprattutto il ritorno, se mai l’avesse abbandonato, di quello spirito indomito che rendono Rafael Nadal un essere umano ontologicamente differente. Se n’erano dimenticati tutti nell’arena, molti davanti alla televisione, probabilmente se n’era dimenticato anche Daniil Medvedev. Risulta difficile spiegare cosa sia successo nelle seguenti tre ore di partita.

Alla fine di un secondo set condotto fino all’ultimo punto e poi sfumato al tie-break, con tanto di set point fallito in modo piuttosto banale, Nadal si è avviato verso gli spogliatoi. In quei momenti di sacra solitudine, il maiorchino ha scavato in fondo a se stesso per recuperare lucidità, trovare risposte anche in un momento talmente confuso in cui sarebbe stato difficile anche solo formulare delle domande.

«Dopo i due set era quasi impossibile, ma non mi sarei mai perdonato se non ci avessi provato. Quando mi ha breakkato sul 5-4 ho pensato: cazzo! Ci risiamo, come nel 2012 e nel 2017. Ma dovevo lottare: lui poteva sì battermi, ma io non potevo arrendermi».

Rafael Nadal, ai microfoni di Eurosport.

Tornato in campo Nadal, ha iniziato ad attingere a un bagaglio di esperienza e determinazione sconfinato. Ha scalato un baratro a mani nude, senza alzare in modo clamoroso il proprio livello di gioco, e francamente senza nemmeno sfruttare un calo vistoso da parte del russo. Certo, con il passare dei minuti i colpi dello spagnolo sono diventati più efficaci, gli errori di Medvedev più frequenti. Ma è stata la stabilità mentale, la battaglia di nervi, che ha ribaltato il match.

È come se avesse davvero rallentato i battiti. Il suo sguardo è cambiato, da quello frastornato dei primi due set e mezzo si è tramutato in quello imperturbabile che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi venti anni di tennis. Persino il suo fisico ha reagito agli impulsi della mente. L’incomprensibile sudorazione zampillante sin dai primi game di gioco si è assestata rapidamente su standard normali. I muscoli si sono distesi e le gambe hanno iniziato a rispondere reattivi a ogni sollecitazione. Tutto in Rafael Nadal sembrava tornato al posto giusto, nel momento di massima difficoltà. Quando tutti mollano, Nadal risorge.

All’improvviso sono saltati gli schemi, il servizio non è stato più un fattore per nessuno, si è scesi nel ring per lottare su ogni singolo 15. Gli scambi sono diventati infuocati, le energie spese hanno iniziato a chiamare vendetta. E quando tutti pensavano che allungare la partita avrebbe minato il fisico ancora impreparato di Nadal, è stato invece il russo a cedere. Mentre Nadal scattava dalla panca a ogni time del giudice di sedia, Medvedev si appigliava ai massaggi dei fisioterapisti per rinvigorire un corpo sempre più esausto.

Nadal ha orientato l’andamento dei set quasi per forza di volontà più che qualità del proprio tennis: nella quinta frazione ha fatto gara di testa, andando a servire per il match sul 5-4. Ha subito un contro-break, dopo un vantaggio 30-0, che avrebbe ucciso anche i tori applicati ovunque sul merchandising dello spagnolo. Un flashback lungo dieci anni esatti, quando al quinto set perse contro Đjokovic la finale più lunga della storia dell’Happy Slam, proprio dopo aver mancato la chance di chiudere il match.

Non si è scomposto Rafa, e ancora con la forza inesauribile del suo spirito ha sorpreso nuovamente il suo avversario, chiudendo definitivamente l’incontro al servizio. Non era mai riuscito a nessuno nell’era Open l’impresa di recuperare, nel primo Slam dell’anno, uno svantaggio di due set in finale: ci è riuscito un uomo che compirà questa primavera 36 anni, e che nemmeno sapeva se avrebbe partecipato al torneo, appena un mese e mezzo fa.

Sono passati 17 anni dal primo titolo Slam di Nadal. Non ricorda più Mowgli con i suoi tratti tagliati dal vento isolano, le rughe si aprono nei sorrisi e contraggono nelle smorfie. La fascia non blocca più la chioma fluente, ma sparuti capelli che si sono arresi da molto alla legge del tempo. Le maniche sono tornate sui suoi bicipiti voluminosi e i pantaloni sopra il ginocchio come si conviene. È cambiato molto lo spagnolo in questi 17 anni, e non potrebbe essere altrimenti.

Ma è sempre rimasto Rafael Nadal.

Ora somiglia quasi a un cane rabbioso, spelacchiato, vecchio e nerboruto. Chiunque si avvicini è convinto di poterlo spazzare via con una pedata, ma lui ringhia e lotta, morde e abbaia, e anche senza la forza di un tempo togliergli l’osso diventa impresa complicatissima. Ci ha provato Medvedev, di nuovo. Già, perché se credete alle coincidenze dovete sapere che l’ultimo torneo Slam sul veloce vinto da Nadal erano stati gli U.S. Open 2019, strappato al quinto contro il russo, dopo aver battuto Berrettini in semifinale.

Non siamo pazzi, lo sappiamo benissimo. Non abbiamo ancora sfoderato il potere di quel numero sulla bocca di tutti. La verità è che questa forsennata lotta al primato negli Slam sembra essere un’attenta costruzione mediatica. Ridurre questa partita come semplice mezzo per il raggiungimento del titolo Slam numero 21 sarebbe ingiusto e riduttivo. Si incorrerebbe nell’imbarazzante scivolone commesso dalla Presidentessa di Tennis Australia, Jayne Hrdlicka, la quale nel discorso di premiazione ha dichiarato, rivolgendosi a Medvedev:

«You were clearly determined to boot history in the making for the second time in a row and that didn’t happen tonight».

Jayne Hrdlicka

Una grave mancanza di rispetto nei confronti del russo, che non ha nascosto un espressione interdetta, lasciandosi sfuggire anche un “Boring”. Perché sembra che esista solo questo record, questi tre uomini e gli altri ridotti a meri comprimari nelle dinamiche mediatiche di questo sport. Dopo oltre cinque ore di match epico e leale, testimoniato dai sorrisi e gli scambi di battute dei due finalisti al termine dell’incontro, manifesto di sportività, essere etichettato semplicemente come «quello che voleva fermare la storia per la seconda volta di fila e non ci è riuscito» deve essere svilente.

Un volano, questa narrazione epica, che detona sganciando totalmente il pubblico dal senso di realtà. Come negli Stati Uniti, ora anche in Australia, terra dalla secolare e radicata cultura tennistica, è stato spiacevole assistere ad atteggiamenti poco rispettosi di un’etichetta sacra nei templi della racchetta. Esultanze sui – rari per fortuna – doppi falli del russo, urla tra le due palle di servizio, inciviltà diffusa sugli spalti che ha costretto il giudice di sedia John Blom a richiamare la Rod Laver Arena vestendo i panni di uno speaker più che di un arbitro.

Ecco perché comprendiamo la provocazione di Medvedev, che nei suoi ringraziamenti ha voluto consapevolmente omettere il pubblico, rinnovando piuttosto i complimenti al suo team, in una ridondanza che ha evidentemente sottolineato la mancanza. Ma è stato persino più esplicito in sala stampa: «D’ora in poi giocherò per me stesso, per la mia famiglia, per provvedere alla mia famiglia, per le persone che si fidano di me e ovviamente per tutti i russi, perché sento sempre il loro sostegno. Se ci sarà un torneo sul cemento a Mosca, prima del Roland Garros o di Wimbledon, ci andrò anche se dovessi rinunciare a Wimbledon, al Roland Garros o ad altro. Il bambino ha smesso di sognareIl bambino giocherà per se stesso. Questo è tutto. Questa è la mia storia. Grazie per l’ascolto, ragazzi».

Un grido non disperato, ma consapevole. Un’analisi lucida e onesta su quello che questa caccia al record ha generato nel pubblico, accecato oggi, come ieri a New York, dall’esigenza di essere protagonista della storia nel suo svolgimento. Impegnato in una lenta, sgradevole e inesorabile deriva ultras che non è mai appartenuta allo spirito di questo gioco. I tifosi di Nadal contro quelli di Federer contro quelli di Djokovic, ma quelli del tennis dove sono finiti?

«Quando affrontavo le prime volte i Big 3, Roger, Rafa e Novak, sembrava che tutti non vedessero l’ora che qualcuno potesse arrivare a batterli. Oggi mi pare che nessuno voglia più vederli perdere. Non è una cosa solo di questo momento, è una sensazione che viene da lontano».

Daniil Medvedev, conferenza stampa post-partita.

Poi, onestamente, sarebbe stato più bello vedere infrangere questo traguardo potendosi sfidare tutti e tre i grandi signori del tennis. Una competizione che affonda le radici nella stima e nel rispetto che una volta ancora non sono mancati. Federer ha incoronato il grande rivale e amico dedicandogli parole dolcissime:

«Your incredible work ethic, dedication and fighting spirit are an inspiration to me and countless others around the world».

Roger Federer, Instagram.

Anche Nole ha infranto il suo silenzio dopo la turbolenta vicenda delle ultime settimane per complimentarsi con il maiorchino: «Amazing achievement. Always impressive fighting spirit that prevailed another time. Enhorabuena».

Così non è stato purtroppo, ma come ha scritto Juan Gutierréz su As «mettere un asterisco sull’albo d’oro di questa edizione per l’assenza di Đjokovic, sarebbe ingiusto». Forse. Quello che ci rimane è invece la più chiara testimonianza di uno degli sportivi più grandi di tutti i tempi, forse il più grande in quella sua unica capacità di trovare energie e soluzioni ovunque siano nascosti dentro di sé e trasformarle in vittorie. Di Rafael Nadal non sarà rilevante ricordarsi i titoli e i record che continuerà ad aggiornare fino alla fine della sua carriera. Sarà impossibile dimenticarsi del suo spirito e dell’insegnamento costante che trasmette in campo. Per il tennis, e per la vita.