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Bruciamo le autobiografie sportive

Autobiografie sportive
Autobiografie sportive

L’Epifania tutte le feste porta via, recita un antico adagio popolare. Accantoniamo le lucine di Natale, riponiamo nelle scatole gli alberi in PVC e ci guardiamo disorientati cercando di capire cosa fare invece degli abeti naturali, acquistati per Natale e ora alla disperata ricerca di una sede accettabile. Facciamo la conta dei doni, quelli orripilanti, talmente brutti da non essere nemmeno riciclabili, e quelli che invece un pizzico di calore ce lo trasmettono. Sono la testimonianza fisica, molto commerciale, senza dubbio materiale, di un tempo di riposo e svago.

Tra questi i più gettonati e, almeno per noi, maggiormente apprezzati sono i libri. Consentiteci un appello allora: regalate libri, non regalate autobiografie. E se proprio vi affascinano le storie strampalate di personaggi celebri, abbiate la carità di evitare quelle a tema sportivo. Il best-seller istantaneo dell’ultima star con gli scarpini, la racchetta, la bicicletta o lo sport che immaginate (possiamo predire a breve l’atletica con Jacobs e Tamberi) è un grande classico degli scaffali invernali.

L’ultimo in ordine di tempo è “Adrenalina. My untold stories”, autore quel mattacchione mitomane di Zlatan Ibrahimovic. Autore… beh insomma, firma della copertina e voce narrante che racconta storie sparse a un giornalista consenziente. Sia chiaro, non avendolo letto – Dio ce ne scampi – non potremmo a ragion di logica nemmeno criticarlo, così per coerenza deontologica demoliamo direttamente tutta la categoria.

Innanzitutto, non è proprio chiaro perché gli sportivi dovrebbero scrivere le loro memorie, testimonianze di vite certamente non comuni, ma decisamente simili le une alle altre. Esistenze scandite da stagioni, titoli, ritiri e allenamenti, ripetizioni infinite di anni uguali e gesti affini. Ma ammesso che a qualcuno interessino, e le vendite lo testimoniano, verrebbe da implorarli almeno di raccoglierle al termine della loro carriera. Una barriera che una volta era pacificamente accettata, ma ormai è stata definitivamente abbattuta.

Così l’ultimo titolo scritto insieme a Luigi Garlando impreziosisce la produzione artistica dello svedese, che aveva già dato alle stampe nel 2013 “Io, Zlatan” e nel 2018 l’umilissimo titolo “Io sono il calcio”. Evidentemente con l’avanzamento delle carriere, i dati devono essere aggiornati, gli episodi rivisitati e i poveri lettori confusi in tre edizioni della stessa storia. Ma almeno di Zlatan si può ammettere una discreta rilevanza nella sua generazione calcistica.

Risulta più difficile giustificare il memoriale di Leonardo Spinazzola, edito a settembre con la collaborazione di Alessandro Alciato. Per carità storia sfortunata la sua avventura europea, ma appena un centinaio di presenze in Serie A e qualche apparizione in Azzurro possono davvero giustificare un’autobiografia? E che dire poi dei precoci, coloro i quali si permettono di raccontare storie che devono ancora iniziare.

Il Re della terra rossa, Rafa Nadal, pubblicò la sua autobiografia ad appena 25 anni, sufficienti per raccontare una buona parte di carriera pur essendo appena a metà della sua collezione Slam. Peccato iberico, se è vero che Fernando Torres alla stessa età ha pubblicato “El Niño: my story”. Una storia fantastica, visto che copre la parte migliore della carriera di Torres, edito nel 2011 quando El Niño con i capelli lunghi ossigenati faceva impazzire i difensori della Premier ad Anfield, ma ben prima della sua parentesi anonima in maglia Blues e il lungo decadimento in giro per l’Europa.

Eppure, al di là delle tempistiche, sono i temi a risultare stucchevoli. Una lunga serie di curiosità aneddotiche, albero della cuccagna per gli onanisti dello scoop. Anticipazioni che spopolano sulle pagine web più autorevoli e forniscono il trampolino perfetto per la vendita del libro, macchiati però da una terribile verità: quei siparietti risulteranno gli unici spunti interessanti di tutto il libro. Ecco allora infrangersi in queste righe anche il sacro vincolo dello spogliatoio. Quella parete ideale già minata dalle indiscrete telecamere, intente a curiosare prima del match, che è stata picconata proprio dalla carta rilegata, a testimoniare che davvero la penna ferisce più della spada.

Così ecco smascherati i dialoghi più intimi degli spogliatoi, i segreti custoditi nei riti prepartita dei giocatori. Il taciturno Andrea Pirlo si è riscoperto decisamente chiacchierone in Times New Roman e ha accusato il compagno di mille battaglie e molte vittorie, Pippo Inzaghi, di essere la talpa della stampa al Mondiale 2006, o svelato le sue maleodoranti abitudini prima di allacciare gli scarpini.

Storie di merda, nel vero senso della parola, la stessa che imparano a gettare addosso agli avversari tra le pagine bianche e i caratteri neri. Sfide e rese dei conti tristemente consumate sulla tastiera, quasi da livorosi adolescenti appassionati di social. Anche i più duri sono scaduti nella sterile accusa verbale, persino un guerriero come Chiellini si è lasciato sfuggire:

«Balotelli è una persona negativa, senza rispetto per il gruppo. In Confederations Cup, nel 2013, non ci diede una mano in niente, roba da prenderlo a schiaffi. Uno anche peggio era Felipe Melo: il peggio del peggio. Con lui si rischiava sempre la rissa. Lo dissi anche ai dirigenti: è una mela marcia». Giorgio Chiellini, “Io, Giorgio”.

Dal calcio al basket, dall’Italia al mondo, con il secondo violino più forte della storia, al secolo Scottie Pippen, tuonare in “Unguarded” contro Air Mike, apostrofato come “infame” in una serie infinita di accuse:

«Michael si sbagliava: non ha vinto sei titoli perché ci dava contro in allenamento. Li abbiamo vinti nonostante ci desse contro. Li abbiamo vinti perché abbiamo giocato a basket, come non succedeva nelle prime due stagioni, quando Doug Collins era il nostro coach» Scottie Pippen, “Unguarded”.

Sarà che noi siamo un po’ all’antica, dilettanti di periferia, abituati a insultarci e consumare vendette nel nostro adorato rettangolo di terra. Però ci piacerebbe vedere anche i professionisti uscire dal campo con una caviglia tumefatta, la maglia strappata, a volte, malauguratamente, con un occhio nero. Ma esaurire il livore in quelle domeniche da uomini. Non differire giudizio e biasimo alla carta stampata, senza contraddittorio né possibilità di replica, se non quella sterile affidata ai social.

Un atteggiamento codardo che aggiunge all’inedia di contenuti anche un vago malumore nel lettore. Generalizzare è ovviamente sempre una pratica malsana e le eccezioni, splendide conferme della regola, non mancano. Il peccato originale è ascrivibile ad Andre Agassi che con la sua stupefacente autobiografia “Open”, campione di incassi, ha fatto inopinatamente credere che chiunque potesse raggiungere tali vette letterarie.

Il problema è che, oltre a una vicenda umana meritevole di un racconto, non tutti possono vantare l’apporto di un premio Pulitzer come John Joseph “J.R.” Moehringer, ghost writer del libro e specialista nel settore (sua anche l’autobiografia del Signore dello Swoosh Phil Knight con “Shoedog”). Grazie all’intervento di Moehringer “Open” si muove a ritmo di un romanzo, vivace e coinvolgente, ed è la ragione per cui ci sentiremmo di consigliarlo a tutti, appassionati di tennis o meno.

Per la quasi restante totalità vi invitiamo invece a preferire altre letture. Se poi la vostra sete di sport necessita proprio di un approfondimento, virate piuttosto sulle biografie. Qui in un mare più vasto di spazzatura almeno alcune ricostruzioni interessanti, impreziosite dalle chiavi di lettura originali di giornalisti competenti, ci sono, ma stavolta il rompicapo della scoperta lo lasciamo a voi.

Noi speriamo solo che l’Epifania, oltre a portarsi via le feste, chieda una cortesia alla Signora Befana; che la convinca, con un colpo di scopa, a spazzare dagli scaffali delle librerie questi concentrati di ego, narcisismo e ipocrisia. Con l’augurio di un anno sereno, senza più autobiografie sportive.