I beni culturali in mano privata tra teoria e prassi. Profili giuridici
Per il nostro ordinamento tutte le cose che possono formare oggetto di diritti sono definite “beni”.
Tra essi, una categoria del tutto sui generis è rappresentata dai cd. “beni culturali”, che, in via di prima approssimazione, sono riconducibili a ciò che è una testimonianza materiale avente valore di civiltà.
Il bene culturale, quindi, è quella “memoria del passato” che è capace di eternare valori di rilievo culturale: sottende un giudizio di valore di tipo storico [1] più che estetico che, lontano dai riferimenti alle Antichità e Belle Arti ai quali si ispirava la legislazione del 1939, costituisce il nuovo metro di riconoscimento della categoria.
Ferma la differente disciplina giuridica dei beni che appartengono allo Stato e agli enti pubblici, da una parte, e di quelli che sono in mano privata, dall’altra [2], i beni culturali si distinguono dagli altri beni in quanto sottoposti ad un regime speciale (delineato essenzialmente dal D.Lgs. 42/2004, il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, di seguito “il Codice”), che incide sia sull’utilizzabilità sia sulla commerciabilità dei predetti.
Contrariamente ad altre leggi che comportano limitazioni alla proprietà, il Codice non identifica direttamente i singoli beni culturali, ma si limita a stabilire le caratteristiche che questi devono avere per essere tali, demandando, quindi, ad un provvedimento amministrativo l’assoggettamento al vincolo dei beni che appartengono a soggetti privati.
Stando così le cose, lo stabilire se una data opera sia, o meno, “bene culturale” (giudizio che tanto interessa sia ai mercanti d’arte sia ai collezionisti) non è sempre agevole [3].
Né, a tal proposito, soccorre il concetto di testimonianza avente valore di civiltà cui si è fatto cenno in precedenza, in quanto il predetto altro non è se non una clausola definitoria di carattere generale dai confini incerti, come tale non adatta a orientare l’interprete.
Quale criterio di individuazione del bene culturale non è d’ausilio nemmeno il ricercare improbabili comuni denominatori tra le tipologie di beni che in astratto possono ricevere tutela culturale, atteso che la categoria del “bene culturale” ricomprende cose del tutto eterogenee.
Per chiarire una tematica tanto complessa, procediamo, quindi, con ordine, partendo dal dato normativo.
L’art. 2, comma 2, del Codice definisce beni culturali “le cose mobili e immobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
Nel richiamare gli articoli 10 e 11 del Codice, la norma stabilisce un principio fondamentale, cardine dell’intera materia: possono essere beni culturali soltanto beni oggettivamente riconducibili alle tipologie a tal fine individuate dal legislatore (negli articoli 10 e 11, appunto).
Si ricordi, peraltro, che un oggetto appartenente al privato può conseguire lo status di bene culturale solo in forza di un provvedimento amministrativo che accerti, in capo al predetto, la sussistenza del cd. interesse storico-artistico, che deve essere particolarmente importante (o addirittura eccezionale se relativo a raccolte librarie).
Da un punto di vista pratico, è da dire che per l’assoggettamento di un bene al patrimonio culturale non rileva l’“italianità” dell’esemplare sottoposto a giudizio (e ciò in quanto il nostro Paese deve favorire anche la conoscenza di altre culture) né la mera presenza dell’opera nel territorio nazionale; conta, e solamente, la capacità del bene di essere testimonianza di civiltà e strumento per la formazione e la crescita culturale della comunità.
Giova precisare che, nell’assoggettare una determinata opera al vincolo culturale, l’Amministrazione è tenuta al rispetto di precisi “canoni tecnici”, affermati dalla giurisprudenza.
In un giudizio avente ad oggetto una Commode realizzata nel 1744 per Luigi XV da Antoine Robert Gaudreaus è stato chiarito che “le regole che l’Amministrazione deve seguire per determinare l’importanza e la sussistenza del bene culturale sono quelle stabilite dalla circolare ministeriale 13 maggio 1975 n.2718 (cd. Circolare Argan). Esse sono la “rarità”, la “rappresentatività” e la “significatività” dell’opera per la storia dell’arte (cfr. TAR Lazio 22 marzo 2011 n.2540).
Considerazioni non dissimili sono fatte proprie dal TAR Lazio, Sez. II quater 1 marzo 2011 n.1901, il quale, nel decidere una fattispecie relativa al Van Wittel (o Vanvitelli che dir si voglia), aggiunge che le regole di rarità, rappresentatività e significatività dell’opera sono applicabili ad esemplari il cui valore estetico sia relativo e opinabile, e quindi bisognoso di accertamento e di profonda motivazione, mentre davanti ad un capolavoro il giudizio può fondarsi sul fatto notorio e la relativa motivazione attenuarsi.
Non ci sentiamo di condividere questo assunto, dato che la correttezza del giudizio valutativo sull’importanza storico-artistica di un’opera d’arte risiede soprattutto nell’obbligo di motivazione; dovere cui la PA riteniamo sia sempre tenuta, atteso che diversamente si finirebbe per assicurare all’Amministrazione un’inammissibile “immunità” nell’ambito di un’attività per sua natura già altamente discrezionale, che, peraltro, incide pesantemente sulle situazioni giuridiche dei privati, anche sul piano pratico ed economico.
Come noto, infatti, il vincolo culturale affievolisce non poco i diritti che normalmente spettano al proprietario del bene, che, ove oggetto di tutela, per esempio non sarà più esportabile in via definitiva o non potrà essere alienato se non previa offerta allo Stato, cui spetta il diritto di prelazione.
Essenziale, quindi, è il rigoroso rispetto delle regole “di condotta” di cui si è detto, le quali, invece, non di rado vengono disattese ad opera di una prassi applicativa volta “a vincolare tutto per non presidiare alcunché”.
[1] Indiretta conferma si ha dal fatto che, per espressa disposizione di legge, non sono soggette al vincolo le opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni.
[2] Diversi sono sia le modalità di assoggettamento dei beni al regime di tutela sia il livello di interesse che viene richiesto per l’acquisizione dello status di bene culturale.
[3] Si noti, peraltro, che non vi è affatto corrispondenza univoca tra valore commerciale e pregio culturale del bene; anzi.
Per il nostro ordinamento tutte le cose che possono formare oggetto di diritti sono definite “beni”.
Tra essi, una categoria del tutto sui generis è rappresentata dai cd. “beni culturali”, che, in via di prima approssimazione, sono riconducibili a ciò che è una testimonianza materiale avente valore di civiltà.
Il bene culturale, quindi, è quella “memoria del passato” che è capace di eternare valori di rilievo culturale: sottende un giudizio di valore di tipo storico [1] più che estetico che, lontano dai riferimenti alle Antichità e Belle Arti ai quali si ispirava la legislazione del 1939, costituisce il nuovo metro di riconoscimento della categoria.
Ferma la differente disciplina giuridica dei beni che appartengono allo Stato e agli enti pubblici, da una parte, e di quelli che sono in mano privata, dall’altra [2], i beni culturali si distinguono dagli altri beni in quanto sottoposti ad un regime speciale (delineato essenzialmente dal D.Lgs. 42/2004, il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, di seguito “il Codice”), che incide sia sull’utilizzabilità sia sulla commerciabilità dei predetti.
Contrariamente ad altre leggi che comportano limitazioni alla proprietà, il Codice non identifica direttamente i singoli beni culturali, ma si limita a stabilire le caratteristiche che questi devono avere per essere tali, demandando, quindi, ad un provvedimento amministrativo l’assoggettamento al vincolo dei beni che appartengono a soggetti privati.
Stando così le cose, lo stabilire se una data opera sia, o meno, “bene culturale” (giudizio che tanto interessa sia ai mercanti d’arte sia ai collezionisti) non è sempre agevole [3].
Né, a tal proposito, soccorre il concetto di testimonianza avente valore di civiltà cui si è fatto cenno in precedenza, in quanto il predetto altro non è se non una clausola definitoria di carattere generale dai confini incerti, come tale non adatta a orientare l’interprete.
Quale criterio di individuazione del bene culturale non è d’ausilio nemmeno il ricercare improbabili comuni denominatori tra le tipologie di beni che in astratto possono ricevere tutela culturale, atteso che la categoria del “bene culturale” ricomprende cose del tutto eterogenee.
Per chiarire una tematica tanto complessa, procediamo, quindi, con ordine, partendo dal dato normativo.
L’art. 2, comma 2, del Codice definisce beni culturali “le cose mobili e immobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”.
Nel richiamare gli articoli 10 e 11 del Codice, la norma stabilisce un principio fondamentale, cardine dell’intera materia: possono essere beni culturali soltanto beni oggettivamente riconducibili alle tipologie a tal fine individuate dal legislatore (negli articoli 10 e 11, appunto).
Si ricordi, peraltro, che un oggetto appartenente al privato può conseguire lo status di bene culturale solo in forza di un provvedimento amministrativo che accerti, in capo al predetto, la sussistenza del cd. interesse storico-artistico, che deve essere particolarmente importante (o addirittura eccezionale se relativo a raccolte librarie).
Da un punto di vista pratico, è da dire che per l’assoggettamento di un bene al patrimonio culturale non rileva l’“italianità” dell’esemplare sottoposto a giudizio (e ciò in quanto il nostro Paese deve favorire anche la conoscenza di altre culture) né la mera presenza dell’opera nel territorio nazionale; conta, e solamente, la capacità del bene di essere testimonianza di civiltà e strumento per la formazione e la crescita culturale della comunità.
Giova precisare che, nell’assoggettare una determinata opera al vincolo culturale, l’Amministrazione è tenuta al rispetto di precisi “canoni tecnici”, affermati dalla giurisprudenza.
In un giudizio avente ad oggetto una Commode realizzata nel 1744 per Luigi XV da Antoine Robert Gaudreaus è stato chiarito che “le regole che l’Amministrazione deve seguire per determinare l’importanza e la sussistenza del bene culturale sono quelle stabilite dalla circolare ministeriale 13 maggio 1975 n.2718 (cd. Circolare Argan). Esse sono la “rarità”, la “rappresentatività” e la “significatività” dell’opera per la storia dell’arte (cfr. TAR Lazio 22 marzo 2011 n.2540).
Considerazioni non dissimili sono fatte proprie dal TAR Lazio, Sez. II quater 1 marzo 2011 n.1901, il quale, nel decidere una fattispecie relativa al Van Wittel (o Vanvitelli che dir si voglia), aggiunge che le regole di rarità, rappresentatività e significatività dell’opera sono applicabili ad esemplari il cui valore estetico sia relativo e opinabile, e quindi bisognoso di accertamento e di profonda motivazione, mentre davanti ad un capolavoro il giudizio può fondarsi sul fatto notorio e la relativa motivazione attenuarsi.
Non ci sentiamo di condividere questo assunto, dato che la correttezza del giudizio valutativo sull’importanza storico-artistica di un’opera d’arte risiede soprattutto nell’obbligo di motivazione; dovere cui la PA riteniamo sia sempre tenuta, atteso che diversamente si finirebbe per assicurare all’Amministrazione un’inammissibile “immunità” nell’ambito di un’attività per sua natura già altamente discrezionale, che, peraltro, incide pesantemente sulle situazioni giuridiche dei privati, anche sul piano pratico ed economico.
Come noto, infatti, il vincolo culturale affievolisce non poco i diritti che normalmente spettano al proprietario del bene, che, ove oggetto di tutela, per esempio non sarà più esportabile in via definitiva o non potrà essere alienato se non previa offerta allo Stato, cui spetta il diritto di prelazione.
Essenziale, quindi, è il rigoroso rispetto delle regole “di condotta” di cui si è detto, le quali, invece, non di rado vengono disattese ad opera di una prassi applicativa volta “a vincolare tutto per non presidiare alcunché”.
[1] Indiretta conferma si ha dal fatto che, per espressa disposizione di legge, non sono soggette al vincolo le opere di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni.
[2] Diversi sono sia le modalità di assoggettamento dei beni al regime di tutela sia il livello di interesse che viene richiesto per l’acquisizione dello status di bene culturale.
[3] Si noti, peraltro, che non vi è affatto corrispondenza univoca tra valore commerciale e pregio culturale del bene; anzi.