Il fondamento della responsabilità civile del datore di lavoro per mobbing
Qualora il comportamento vessatorio e/o discriminatorio (non mi dilungo sull’elencazione, non tassativa, di comportamenti riconducibili al mobbing, per cui la letteratura è sterminata) è riconducibile direttamente al datore di lavoro, questi risponde innanzitutto a titolo di responsabilità extracontrattuale per aver tenuto una condotta in violazione del divieto del neminem ledere. Maggiori precisazioni invece richiede la questione se il datore di lavoro è responsabile anche contrattualmente, e se, e a quale titolo, è responsabile per i comportamenti di mobbing dei lavoratori alle sue dipendenze..
Andiamo con ordine.
La giurisprudenza ha individuato il fondamento della responsabilità del datore di lavoro per mobbing nell’art.2087 c.c., e ha quindi affermato la responsabilità contrattuale del datore di lavoro per lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
Tale assunto è stato confermato da una recente sentenza della Suprema Corte (Cassazione Civile 25 maggio 2006, n. 12445; in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774). In tale pronuncia la Suprema Corte sancisce expressis verbis che non possono esservi dubbi sulla natura contrattuale di tale responsabilità e spiega che “il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato - per legge (ai sensi dell’articolo 1374 c.c.) - dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza (articolo 2087 c.c., cit., appunto) e, dall’altro, che la responsabilità contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato”.
Il Supremo Collegio si riferisce in modo trasparente alla teorizzazione degli “obblighi di protezione”, di cui quello di sicurezza costituisce espressione. In altri termini, l’obbligo di sicurezza è ipotesi esemplificativa del più generale dovere di protezione che grava sul datore di lavoro nei confronti della persona del lavoratore. La dottrina ormai da tempo (ex plurimis Rodotà, “le fonti di integrazione del contratto”, Milano, 1964; Carusi, voce “Correttezza” in Enc.dir. Milano, 1962; Visintini, “Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1996”) ha riconosciuto la base normativa degli obblighi di protezione nella clausola della correttezza e buona fede prevista dagli artt.1175 e 1375. Si tratta di obblighi, a volte previsti in modo specifico dalla legge o dal contratto, a volte individuati sulla base della clausola generale della buona fede – alias- correttezza- che comportano un ampliamento della responsabilità del debitore.
Gli obblighi in questione, quindi, costituiscono una “serie aperta” nel senso che il giudice una volta individuata una relazione tra le parti, tale da fare scorgere un’esigenza di protezione della persona (o del patrimonio) di uno dei contraenti, utilizza lo strumento dell’art.1175 (e dell’art.1375), anche quando non soccorrono una norma specifica, il contratto, un uso, come fonti di obblighi di correttezza. Anche la giurisprudenza si è ormai assestata sulla posizione secondo la quale il contenuto del regolamento contrattuale viene ad essere ampliato da obblighi di protezione, per cui un comportamento della parte contrario a simili doveri viene ad integrare un’ipotesi di inadempimento ex art.1218 c.c (ex plurimis Cass.civ. 20/111990, n.11206; Cass.civ. 22/01/1991,n. 543).
Nell’ambito del rapporto di lavoro, l’art.2087 non solo costituisce applicazione della clausola di buona fede di cui agli artt. 1175 e l’art.1375 c.c., ma, al pari di quest’ultima, ne assume lo stesso connotato di clausola generale, per la sua formulazione quale norma in bianco, suscettibile di assumere valenza deontologica in base alle circostanze concrete. Autrice autorevole riconosce che la “disposizione dell’art.2087 svolge una funzione integrativa, tipica della clausola generale di buona fede, nel senso di completare il regolamento contrattuale con obblighi che hanno come contrapposto il potere di esigere quel determinato comportamento oggetto dell’obbligo e fondare la pretesa risarcitoria in caso di inadempimento”, evidenziando quindi la valenza di norma di “chiusura” dell’art.2087 c.c., applicabile anche in assenza di specifiche previsioni di obbligo (G.Visintini, op.cit.).
In tal senso va letta la giurisprudenza che ritiene che la norma di cui all’art.2087 pone delle precise prescrizioni in materia di sicurezza a carico dell’imprenditore, sancendo espressamente l’obbligo del datore di garantire il rispetto della personalità morale del prestatore sul luogo di lavoro, a prescindere anche dal verificarsi di un concreto danno alla salute, e la cui applicazione non richiede, nella specie, che sia indicata la violazione di specifiche norme antinfortunistiche o di specifici obblighi legali di protezione, essendo sufficiente la violazione del generale dovere di salvaguardia che incombe al datore di lavoro a titolo contrattuale in virtù dei principi di correttezza e buona fede (Cass n.5491/00 e Tribunale di Forlì 15 marzo 2001).
In un’ottica di protezione della sfera giuridica della persona del lavoratore e di applicazione estesa della regola delle correttezza, i giudici tendono ad ampliare la portata dell’obbligo di sicurezza ex art 2087, comprendendovi anche l’attuazione di tutti gli strumenti di protezione e di cautela che, se pure non previsti specificatamente in alcuna fonte legale o contrattuale, si rivelano realmente necessari a proteggere i lavoratori dai rischi insiti nell’ambiente di lavoro. Emblematica in tal senso una pronuncia secondo la quale dall’art.2087 è posto a carico del datore di lavoro non solo un divieto il divieto di compiere qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente, ma anche il dovere di prevenire e scoraggiare simili condotte nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa. L’inadempimento di tale obbligo genera la responsabilità contrattuale del datore di lavoro (Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307).
La giurisprudenza quindi si mostra particolarmente attenta a valorizzare la portata della disposizione dell’art.2087, collocandola proprio nel solco della buona fede in senso oggettivo, e fondando su di essa obblighi di comportamento (e conseguenti ipotesi di responsabilità per inadempimento), a prescindere da quelli previsti dalle leggi speciali antiinfortunistiche o da precise clausole contrattuali. Tale opzione interpretativa che generalizza la portata precettiva dell’art.2087 ha consentito ad esempio alla Suprema Corte, in tema di mobbing c.d. orizzontale, di accogliere la domanda di risarcimento danni di una lavoratrice, a fronte della mancata adozione da parte dell’ente datoriale degli obblighi di protezione ex art. 2087 c.c.., pur essendo l’evento dannoso riconducibile ad altro dipendente dell’azienda, non gerarchicamente sovraordinato (Cass. Sez. Lav., 25.05.2006, n. 12445). Risulta pertanto che il datore di lavoro (fatta salva, ai fini della declaratoria di responsabilità, la necessità di reiterazione di comportamenti vessatori qualificabili come mobbing) risponde ex contractu in termini che prescindono dall’accertamento in concreto della colpa del datore di lavoro, quale requisito psicologico effettivo, per sostanziarsi in giudizio di responsabilità oggettiva, fondato sulla sussistenza di una situazione pregiudizievole sul luogo di lavoro nei confronti del lavoratore, e dall’oggettiva inerzia del datore di lavoro nel rimuoverla. In ultima analisi l’art.2087, letto in combinato disposto degli artt.1175 e 1375 cc, non solo è applicabile in assenza di specifici obblighi comportamentali, sanciti da norme di legge, usi o clausole contrattuali, ma fonda esso stesso a carico del datore di lavoro un obbligo generale di salvaguardia comprendente tutte le misure idonee ad evitare il verificarsi del danno nei confronti della persona del lavoratore.
Sul piano probatorio la riconduzione della responsabilità per mobbing al paradigma della responsabilità contrattuale comporta conseguenze piuttosto favorevoli per il ricorrente mobbizzato. Questi potrà limitarsi ad allegare ex art. i fatti costitutivi dell’inadempimento contrattuale (le condotte vessatorie subite nell’ambiente di lavoro e la lesione dell’integrità psicofisica e la libertà morale). Spetta invece al datore di lavoro provare di aver posto in essere tutti gli espedienti tesi a prevenire e/o evitare situazioni pregiudizievoli della salute psicofisica del lavoratore. L’alleggerimento dell’onere probatorio in capo al lavoratore e l’adesione alla tesi oggettiva della responsabilità contrattuale sono state da ultimo ribadite da una pronuncia del Tar Lazio, nella quale si osserva, che l’intento persecutorio della condotta datoriale dedotta in giudizio non va configurato in termini soggettivistici, risultando, per converso, sufficiente attenersi ad un generale canone oggettivo da ricondursi all’alveo degli obblighi di protezione sanciti dall’art. 2087 (Tar del Lazio, III sez. bis, 12-01/05.04.2004).
Il quadro appena delineato risulterebbe lacunoso in assenza di opportune e ulteriori considerazioni alla luce del dettato costituzionale e dell’elaborazione concettuale della categoria dell’abuso del diritto. Tale categoria viene evocata, allorchè una parte contrattuale. pur non travalicando i confini formali esterni del diritto potestativo, tuttavia esercita il diritto stesso in modo non conforme al rispetto del canone di buona fede e correttezza, arrecando pregiudizio alla sfera giuridica altrui.
Ricostruita in tali termini, la categoria appare utilmente richiamata in tema di mobbing. Viene in considerazione ad esempio, il caso della sottoposizione a continue visite fiscali della dipendente da parte del datore di lavoro, nonostante uno stato di malattia acclarato. Non v’è dubbio che il datore di lavoro esercita, in questo caso, un suo diritto, ma per finalità che esulano completamente dalla ratio sottesa al diritto stesso, risolvendosi in un disegno vessatorio e comunque contrario alla regola di correttezza e buona fede nel contratto.
Da un punto di vista costituzionale, la Carta prescrive dei limiti all’iniziativa economica privata, non potendo la stessa “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, per cui grava sul datore di lavoro l’obbligo di tutelare la persona rispetto a situazioni che hanno il loro sorgere e sviluppo nell’ambiente di lavoro. Infatti , "i valori espressi dall’art. 41 della Costituzione giustificano una valutazione negativa, da parte del legislatore, dei comportamenti dell’imprenditore che, per imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l’esposizione al rischio dei propri dipendenti " (Corte Costituzionale, 18 luglio 1996 n. 312). Un ultimo punto merita di essere ricordato.
La sussistenza di una responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro non preclude la possibilità che il datore di lavoro venga chiamato a rispondere ex art.2043 per una condotta a lui direttamente imputabile e in contrasto con il principio del neminem ledere. Significativa al riguardo una pronuncia delle Sezioni Unite in cui si precisa che, al fine di tale accertamento dell’azione proposta dal ricorrente, si deve ritenere proposta la azione ex art. 2043 c.c. tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell’azione contrattuale, e quindi tutte le volte che il danneggiato invochi la responsabilità aquiliana, ovvero chieda genericamente il risarcimento dei danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale.
Tralasciando di soffermarci sulle conseguenze in tema di riparto di giurisdizione (giudice del lavoro in caso di azione contrattuale; giudice ordinario in caso di azione ex art.2043), preme osservare che l’onere di allegazione in sede di responsabilità extracontrattuale è più gravoso, dovendo il ricorrente non solo provare il nesso di causalità tra il comportamento del datore di lavoro e i danni lamentati, ma anche che tale comportamento è sorretto in termini psicologici dal requisito del dolo e/o della colpa.
In conclusione, per completezza espositiva, occorre chiedersi se il datore di lavoro può rispondere a titolo di responsabilità extracontrattuale, anche ai sensi dell’art.2049 c.c. che asserisce la responsabilità dei “padroni e committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi, nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. A tal riguardo, rinviando a ben più ampie trattazioni, la disamina approfondita dell’argomento, nella disposizione dell’art.2049 non v’è traccia della possibilità dei padroni e committenti di scagionarsi, con la prova di non aver potuto impedire il fatto e quindi la norma si colloca nello schema della responsabilità oggettiva e rispecchia il modello teorico secondo il quale l’impresa che cagiona danni con una certa regolarità, deve accollarsi il rischio relativo e tradurlo in un costo (c.d. rischio d’impresa, per cui si veda tra tutti, Trimarchi, “Rischio e responsabilità oggettiva”, Milano, 1961).
L’applicabilità dell’art.2049 c.c. alle ipotesi di mobbing non può essere facilmente discussa, atteso che non si richiede un nesso causale particolarmente stringente tra l’esercizio delle mansioni, a cui sono addetti i preposti, e il fatto illecito. Infatti la norma esige che il fatto illecito avvenga “nell’esercizio delle mansioni” e non a “causa” delle mansioni, mentre appare persino superfluo aggiungere che per fatto illecito dei preposti si intende ogni fatto doloso o colposo idoneo a ledere l’integrità psicofisica e la libertà morale del lavoratore (Cass. 4 marzo 2005 n. 4742).
Qualora il comportamento vessatorio e/o discriminatorio (non mi dilungo sull’elencazione, non tassativa, di comportamenti riconducibili al mobbing, per cui la letteratura è sterminata) è riconducibile direttamente al datore di lavoro, questi risponde innanzitutto a titolo di responsabilità extracontrattuale per aver tenuto una condotta in violazione del divieto del neminem ledere. Maggiori precisazioni invece richiede la questione se il datore di lavoro è responsabile anche contrattualmente, e se, e a quale titolo, è responsabile per i comportamenti di mobbing dei lavoratori alle sue dipendenze..
Andiamo con ordine.
La giurisprudenza ha individuato il fondamento della responsabilità del datore di lavoro per mobbing nell’art.2087 c.c., e ha quindi affermato la responsabilità contrattuale del datore di lavoro per lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
Tale assunto è stato confermato da una recente sentenza della Suprema Corte (Cassazione Civile 25 maggio 2006, n. 12445; in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774). In tale pronuncia la Suprema Corte sancisce expressis verbis che non possono esservi dubbi sulla natura contrattuale di tale responsabilità e spiega che “il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato - per legge (ai sensi dell’articolo 1374 c.c.) - dalla disposizione che impone l’obbligo di sicurezza (articolo 2087 c.c., cit., appunto) e, dall’altro, che la responsabilità contrattuale é configurabile tutte le volte che risulti fondata sull’inadempimento di un’obbligazione giuridica preesistente, comunque assunta dal danneggiante nei confronti del danneggiato”.
Il Supremo Collegio si riferisce in modo trasparente alla teorizzazione degli “obblighi di protezione”, di cui quello di sicurezza costituisce espressione. In altri termini, l’obbligo di sicurezza è ipotesi esemplificativa del più generale dovere di protezione che grava sul datore di lavoro nei confronti della persona del lavoratore. La dottrina ormai da tempo (ex plurimis Rodotà, “le fonti di integrazione del contratto”, Milano, 1964; Carusi, voce “Correttezza” in Enc.dir. Milano, 1962; Visintini, “Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1996”) ha riconosciuto la base normativa degli obblighi di protezione nella clausola della correttezza e buona fede prevista dagli artt.1175 e 1375. Si tratta di obblighi, a volte previsti in modo specifico dalla legge o dal contratto, a volte individuati sulla base della clausola generale della buona fede – alias- correttezza- che comportano un ampliamento della responsabilità del debitore.
Gli obblighi in questione, quindi, costituiscono una “serie aperta” nel senso che il giudice una volta individuata una relazione tra le parti, tale da fare scorgere un’esigenza di protezione della persona (o del patrimonio) di uno dei contraenti, utilizza lo strumento dell’art.1175 (e dell’art.1375), anche quando non soccorrono una norma specifica, il contratto, un uso, come fonti di obblighi di correttezza. Anche la giurisprudenza si è ormai assestata sulla posizione secondo la quale il contenuto del regolamento contrattuale viene ad essere ampliato da obblighi di protezione, per cui un comportamento della parte contrario a simili doveri viene ad integrare un’ipotesi di inadempimento ex art.1218 c.c (ex plurimis Cass.civ. 20/111990, n.11206; Cass.civ. 22/01/1991,n. 543).
Nell’ambito del rapporto di lavoro, l’art.2087 non solo costituisce applicazione della clausola di buona fede di cui agli artt. 1175 e l’art.1375 c.c., ma, al pari di quest’ultima, ne assume lo stesso connotato di clausola generale, per la sua formulazione quale norma in bianco, suscettibile di assumere valenza deontologica in base alle circostanze concrete. Autrice autorevole riconosce che la “disposizione dell’art.2087 svolge una funzione integrativa, tipica della clausola generale di buona fede, nel senso di completare il regolamento contrattuale con obblighi che hanno come contrapposto il potere di esigere quel determinato comportamento oggetto dell’obbligo e fondare la pretesa risarcitoria in caso di inadempimento”, evidenziando quindi la valenza di norma di “chiusura” dell’art.2087 c.c., applicabile anche in assenza di specifiche previsioni di obbligo (G.Visintini, op.cit.).
In tal senso va letta la giurisprudenza che ritiene che la norma di cui all’art.2087 pone delle precise prescrizioni in materia di sicurezza a carico dell’imprenditore, sancendo espressamente l’obbligo del datore di garantire il rispetto della personalità morale del prestatore sul luogo di lavoro, a prescindere anche dal verificarsi di un concreto danno alla salute, e la cui applicazione non richiede, nella specie, che sia indicata la violazione di specifiche norme antinfortunistiche o di specifici obblighi legali di protezione, essendo sufficiente la violazione del generale dovere di salvaguardia che incombe al datore di lavoro a titolo contrattuale in virtù dei principi di correttezza e buona fede (Cass n.5491/00 e Tribunale di Forlì 15 marzo 2001).
In un’ottica di protezione della sfera giuridica della persona del lavoratore e di applicazione estesa della regola delle correttezza, i giudici tendono ad ampliare la portata dell’obbligo di sicurezza ex art 2087, comprendendovi anche l’attuazione di tutti gli strumenti di protezione e di cautela che, se pure non previsti specificatamente in alcuna fonte legale o contrattuale, si rivelano realmente necessari a proteggere i lavoratori dai rischi insiti nell’ambiente di lavoro. Emblematica in tal senso una pronuncia secondo la quale dall’art.2087 è posto a carico del datore di lavoro non solo un divieto il divieto di compiere qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità fisica e della personalità morale del dipendente, ma anche il dovere di prevenire e scoraggiare simili condotte nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa. L’inadempimento di tale obbligo genera la responsabilità contrattuale del datore di lavoro (Cass. 5 febbraio 2000, n. 1307).
La giurisprudenza quindi si mostra particolarmente attenta a valorizzare la portata della disposizione dell’art.2087, collocandola proprio nel solco della buona fede in senso oggettivo, e fondando su di essa obblighi di comportamento (e conseguenti ipotesi di responsabilità per inadempimento), a prescindere da quelli previsti dalle leggi speciali antiinfortunistiche o da precise clausole contrattuali. Tale opzione interpretativa che generalizza la portata precettiva dell’art.2087 ha consentito ad esempio alla Suprema Corte, in tema di mobbing c.d. orizzontale, di accogliere la domanda di risarcimento danni di una lavoratrice, a fronte della mancata adozione da parte dell’ente datoriale degli obblighi di protezione ex art. 2087 c.c.., pur essendo l’evento dannoso riconducibile ad altro dipendente dell’azienda, non gerarchicamente sovraordinato (Cass. Sez. Lav., 25.05.2006, n. 12445). Risulta pertanto che il datore di lavoro (fatta salva, ai fini della declaratoria di responsabilità, la necessità di reiterazione di comportamenti vessatori qualificabili come mobbing) risponde ex contractu in termini che prescindono dall’accertamento in concreto della colpa del datore di lavoro, quale requisito psicologico effettivo, per sostanziarsi in giudizio di responsabilità oggettiva, fondato sulla sussistenza di una situazione pregiudizievole sul luogo di lavoro nei confronti del lavoratore, e dall’oggettiva inerzia del datore di lavoro nel rimuoverla. In ultima analisi l’art.2087, letto in combinato disposto degli artt.1175 e 1375 cc, non solo è applicabile in assenza di specifici obblighi comportamentali, sanciti da norme di legge, usi o clausole contrattuali, ma fonda esso stesso a carico del datore di lavoro un obbligo generale di salvaguardia comprendente tutte le misure idonee ad evitare il verificarsi del danno nei confronti della persona del lavoratore.
Sul piano probatorio la riconduzione della responsabilità per mobbing al paradigma della responsabilità contrattuale comporta conseguenze piuttosto favorevoli per il ricorrente mobbizzato. Questi potrà limitarsi ad allegare ex art. i fatti costitutivi dell’inadempimento contrattuale (le condotte vessatorie subite nell’ambiente di lavoro e la lesione dell’integrità psicofisica e la libertà morale). Spetta invece al datore di lavoro provare di aver posto in essere tutti gli espedienti tesi a prevenire e/o evitare situazioni pregiudizievoli della salute psicofisica del lavoratore. L’alleggerimento dell’onere probatorio in capo al lavoratore e l’adesione alla tesi oggettiva della responsabilità contrattuale sono state da ultimo ribadite da una pronuncia del Tar Lazio, nella quale si osserva, che l’intento persecutorio della condotta datoriale dedotta in giudizio non va configurato in termini soggettivistici, risultando, per converso, sufficiente attenersi ad un generale canone oggettivo da ricondursi all’alveo degli obblighi di protezione sanciti dall’art. 2087 (Tar del Lazio, III sez. bis, 12-01/05.04.2004).
Il quadro appena delineato risulterebbe lacunoso in assenza di opportune e ulteriori considerazioni alla luce del dettato costituzionale e dell’elaborazione concettuale della categoria dell’abuso del diritto. Tale categoria viene evocata, allorchè una parte contrattuale. pur non travalicando i confini formali esterni del diritto potestativo, tuttavia esercita il diritto stesso in modo non conforme al rispetto del canone di buona fede e correttezza, arrecando pregiudizio alla sfera giuridica altrui.
Ricostruita in tali termini, la categoria appare utilmente richiamata in tema di mobbing. Viene in considerazione ad esempio, il caso della sottoposizione a continue visite fiscali della dipendente da parte del datore di lavoro, nonostante uno stato di malattia acclarato. Non v’è dubbio che il datore di lavoro esercita, in questo caso, un suo diritto, ma per finalità che esulano completamente dalla ratio sottesa al diritto stesso, risolvendosi in un disegno vessatorio e comunque contrario alla regola di correttezza e buona fede nel contratto.
Da un punto di vista costituzionale, la Carta prescrive dei limiti all’iniziativa economica privata, non potendo la stessa “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, per cui grava sul datore di lavoro l’obbligo di tutelare la persona rispetto a situazioni che hanno il loro sorgere e sviluppo nell’ambiente di lavoro. Infatti , "i valori espressi dall’art. 41 della Costituzione giustificano una valutazione negativa, da parte del legislatore, dei comportamenti dell’imprenditore che, per imprudenza, negligenza o imperizia, non si adoperi, anche al di là degli obblighi specificamente sanzionati, per ridurre l’esposizione al rischio dei propri dipendenti " (Corte Costituzionale, 18 luglio 1996 n. 312). Un ultimo punto merita di essere ricordato.
La sussistenza di una responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro non preclude la possibilità che il datore di lavoro venga chiamato a rispondere ex art.2043 per una condotta a lui direttamente imputabile e in contrasto con il principio del neminem ledere. Significativa al riguardo una pronuncia delle Sezioni Unite in cui si precisa che, al fine di tale accertamento dell’azione proposta dal ricorrente, si deve ritenere proposta la azione ex art. 2043 c.c. tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato in favore dell’azione contrattuale, e quindi tutte le volte che il danneggiato invochi la responsabilità aquiliana, ovvero chieda genericamente il risarcimento dei danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale.
Tralasciando di soffermarci sulle conseguenze in tema di riparto di giurisdizione (giudice del lavoro in caso di azione contrattuale; giudice ordinario in caso di azione ex art.2043), preme osservare che l’onere di allegazione in sede di responsabilità extracontrattuale è più gravoso, dovendo il ricorrente non solo provare il nesso di causalità tra il comportamento del datore di lavoro e i danni lamentati, ma anche che tale comportamento è sorretto in termini psicologici dal requisito del dolo e/o della colpa.
In conclusione, per completezza espositiva, occorre chiedersi se il datore di lavoro può rispondere a titolo di responsabilità extracontrattuale, anche ai sensi dell’art.2049 c.c. che asserisce la responsabilità dei “padroni e committenti per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi, nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”. A tal riguardo, rinviando a ben più ampie trattazioni, la disamina approfondita dell’argomento, nella disposizione dell’art.2049 non v’è traccia della possibilità dei padroni e committenti di scagionarsi, con la prova di non aver potuto impedire il fatto e quindi la norma si colloca nello schema della responsabilità oggettiva e rispecchia il modello teorico secondo il quale l’impresa che cagiona danni con una certa regolarità, deve accollarsi il rischio relativo e tradurlo in un costo (c.d. rischio d’impresa, per cui si veda tra tutti, Trimarchi, “Rischio e responsabilità oggettiva”, Milano, 1961).
L’applicabilità dell’art.2049 c.c. alle ipotesi di mobbing non può essere facilmente discussa, atteso che non si richiede un nesso causale particolarmente stringente tra l’esercizio delle mansioni, a cui sono addetti i preposti, e il fatto illecito. Infatti la norma esige che il fatto illecito avvenga “nell’esercizio delle mansioni” e non a “causa” delle mansioni, mentre appare persino superfluo aggiungere che per fatto illecito dei preposti si intende ogni fatto doloso o colposo idoneo a ledere l’integrità psicofisica e la libertà morale del lavoratore (Cass. 4 marzo 2005 n. 4742).