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Il reato di estorsione nel rapporto di lavoro

La lotta al lavoro sommerso, i vari tentativi più o meno efficaci al suo contrasto, la sospensione dell’attività imprenditoriale etc, non hanno, ad oggi, guarito o risollevato l’economia del paese.

Allo stesso modo il fiume di norme che regolano la materia del lavoro, non ha fatto chiarezza e restano tuttora aperte questioni importanti che interessano tutti i soggetti attori del mondo del lavoro, senza distinzione alcuna.

Sopra ogni cosa, il ricorso ad un eccessivo sistema sanzionatorio, in parte caratterizzato da illeciti di natura amministrativa, di fatto, non garantisce soluzioni capaci di debellare o prevenire quelle forme sottili di illegalità diffusa che vanno ad incidere in modo assolutamente occulto sulla capacità di autodeterminazione del lavoratore.

Tale soggetto, in diverse occasioni, è costretto, per poter lavorare, a tollerare condotte abusive e/o omettere l’esercizio di un proprio diritto innanzi a interessi spregiudicati di un qualche datore di lavoro, inosservante delle leggi e assolutamente indifferente, ad esempio, a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Siffatte condotte, non del tutto evidenti e raramente trattate rilevano delle defaillance nella funzione quale quella ispettiva in materia di lavoro, riconfinata, ad avviso dello scrivente, senza tema di smentita, ad una prevalente e mera attività burocratica, tendente all’applicazione della disciplina del lavoro e della legislazione sociale e di conseguenza delle sanzioni in uno spazio circoscritto al formale.

In effetti, il concetto di ispezione, inteso nella sua ontologica definizione di osservazione attenta, oculata, introspettiva ha assunto, in questo periodo, un ruolo assai diverso e non del tutto efficace.

Colpa del mare “magnum” di leggi, leggine e circolari; queste ultime foriere di generare una confusione nel tentativo spesso infelice di interpretare l’interpretato? Forse.

Il continuo e ripetuto ricorso all’interpretazione amministrativa delle Leggi, rischia, in concreto che questi strumenti operativi quali quello sopra citato della sospensione dell’attività imprenditoriale, siano solo un mezzo per appuntare e in seguito colpire attività d’impresa piccole, spesso incapaci di potersi difendere doviziosamente, qualora la Pubblica Amministrazione va addirittura a rasentare l’eccesso di potere.

In tema, mi corre l’obbligo di riportare l’attenzione sulla sentenza nr. 310 del 2 novembre 2010 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14 comma 1 del Decreto Legislativo nr.81 del 9 aprile 2008 contenente norme in materia di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro,nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si applicano le disposizioni contenute nelle norme in tema di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti che, esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’articolo 3 comma 1 della Legge 7 agosto 1990 n. 241.

In particolare, nella summenzionata sentenza, la Consulta sottolinea la necessità da parte dell’organo o ufficio procedente di “indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

Orbene quanto sopra fa trapelare che, il concetto di tutela va scemando in fumose applicazioni, talvolta sintomatiche di eccessi di potere e violazioni di legge che, in termini oggettivi non si curano di quelle situazioni, da tempo esistenti, di condotte in contesti di attività lavorativa diversi, i quali sono degni di nota soprattutto sotto il profilo della tutela penale.

Abbiamo avuto modo di leggere su FILODIRITTO (Articolo del 20 dicembre 2010 - La tutela penale in materia di Mobbing - Dott.ssa Licia Gulotta) che alcune fattispecie in materia di lavoro sono prive di tutela.

In vero, la responsabilità anche penale del datore di lavoro è prevista solo da alcune norme di riferimento, quali ad esempio il Decreto Legislativo 81/2008, la somministrazione di manodopera oppure le norme che regolano l’avviamento al lavoro di cittadini extracomunitari o piuttosto minori e altre fattispecie da definirsi appendicolari rispetto a quelle tipiche e rinvenibili nel contratto di lavoro.

Quindi occorre, di fronte a fattispecie diverse, fare riferimento a quei reati che chiunque può commettere, quali l’ingiuria, la diffamazione, maltrattamenti, violenza privata, nonché il reato di estorsione ex articolo 629 del codice penale.

Questo testualmente recita: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.

La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”.

Per meglio illustrare in maniera tangibile quest’ultima fattispecie, ritengo opportuno fissare l’attenzione partendo da alcuni principi della nostra Costituzione, quali l’articolo 1; l’articolo 35 sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; l’articolo 36 sul diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro; l’articolo 37 sulla parità tra uomo e donna nell’ambito lavorativo, nonché il riconoscimento ai minori di norme speciali che ne garantiscono la parità di lavoro.

Questo breve, pur tuttavia necessario, percorso nella Carta Costituzionale, trova poi la sua definizione nelle disposizioni contenute nell’articolo 2087 del Codice Cvile e nello statuto dei Lavoratori, laddove vengono fissati, con maggiore chiarezza, i principi sopra menzionati.

L’importanza di un posto di lavoro è essenziale affinché un individuo possa trovare sostegno e considerazione in un ambito sociale, oggi diverso e diversificato rispetto al passato.

Nonostante tutto, allorché la necessità di un lavoro diventa frutto di speculazioni della parte contraente forte del rapporto (datore di lavoro) e le stesse vanno a incidere sulla sfera personale e morale del lavoratore, tali da condizionarne la volontà, siamo ragionevolmente innanzi ad evidenti abusi perseguibili e/o da perseguire con ogni strumento giuridico a disposizione.

In effetti, questi eccessi, in prime cure silenti, si sviluppano a partire da lievi forme di sopraffazione ad esempio con richieste inique o piuttosto imposizioni di orari di lavoro estremi, in condizioni di lavoro, di igiene e sicurezza impossibili, tali che il lavoratore deve subire la volontà del datore di lavoro per evitare il concretizzarsi di un male ingiusto o un faticoso pregiudizio personale e sociale.

Innanzi a tali circostanze, la parte contraente debole del rapporto vive un’esistenza sul posto di lavoro di assoluta coercizione, con la probabilità di restare senza lavoro, di non essere assunto regolarmente, di non ricevere una giusta retribuzione e i contributi previdenziali versati.

Comportamenti di prevaricazione a danno del lavoratore (di contro all’ingiusto vantaggio economico del datore di lavoro), forme di larvate minacce condizionano di fatto l’agire del prestatore d’opera e l’ambiente di lavoro non sempre vengono esaminati con la dovuta attenzione.

Siffatte azioni all’interno di un luogo di lavoro alimentano forme di omertà, ritenute necessarie per difendersi da comportamenti illeciti conferenti sotto il profilo penale e nella fattispecie ascrivibili anche al reato di estorsione.

Occorre subito ricordare, come da giurisprudenza ormai consolidata, che tutte le volte che quegli atteggiamenti sono considerati idonei a incidere sulla capacità di autodeterminazione del soggetto che le riceve, diventa assolutamente irrilevante, sotto il profilo dell’esimente, la circostanza più volte sottoposta all’attenzione del giudice adito, in ordine all’accordo lavorativo tra il datore di lavoro e il prestatore, che, per evitare la perdita del posto di lavoro, accetta condizioni di assoluta illegalità.

Effettivamente, anche “lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà. In tal caso l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente diventa ingiusto per il fine cui è diretto" [(Cassazione Penale Sezione 2 , n. 877 del 1973)]

Anche “la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia” [(Cassazione Penale Sezione 2 n. 1071 del 1992; Cassazione Penale Sezione 2 Sentenza n. 36642 del 2007].

Parimenti, l’approfittarsi di situazioni di mercato favorevoli al datore di lavoro per una prevalenza dell’offerta sulla domanda, e che costringa di fatto all’accettazione da parte dei dipendenti di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, assume rilievo sotto il profilo della violazione di cui all’articolo 629 del codice penale [(Cassazione Penale Sezione 2 n. 16656 del 2010)].

Per concludere questa breve panoramica sul reato di estorsione nel rapporto di lavoro è evidente che anche l’assenza dell’elemento materiale della minaccia o piuttosto lo stato di soggezione dei lavoratori non esclude la configurabilità dell’illecito penale in esame.

Di recente, nella sentenza del 19 gennaio 2011, la Cassazione Penale Sezione 2 nr. 3933/10 Registro generale nr. 25185/2010- Udienza pubblica del 14 dicembre 2010 ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro che aveva condannato per il delitto di estorsione il legale rappresentante di una ditta che “mediante minaccia di licenziamento, aveva costretto le lavoratrici a sottoscrivere la busta paga relativa ai salari mensili, agli straordinari, alla 13^ e 14^ mensilità per importi che venivano corrisposti per un orario di lavoro inferiore a quello effettivamente prestato, procurandosi, così, un ingiusto profitto con correlativo danno per le suddette lavoratrici”.

E’ augurabile che in futuro sia riposto un maggiore impegno alla identificazione di condotte quali quelle esaminate che, ad oggi, restano solo in parte accertate e sanzionate opportunamente, rispetto al reale quadro globale.

La lotta al lavoro sommerso, i vari tentativi più o meno efficaci al suo contrasto, la sospensione dell’attività imprenditoriale etc, non hanno, ad oggi, guarito o risollevato l’economia del paese.

Allo stesso modo il fiume di norme che regolano la materia del lavoro, non ha fatto chiarezza e restano tuttora aperte questioni importanti che interessano tutti i soggetti attori del mondo del lavoro, senza distinzione alcuna.

Sopra ogni cosa, il ricorso ad un eccessivo sistema sanzionatorio, in parte caratterizzato da illeciti di natura amministrativa, di fatto, non garantisce soluzioni capaci di debellare o prevenire quelle forme sottili di illegalità diffusa che vanno ad incidere in modo assolutamente occulto sulla capacità di autodeterminazione del lavoratore.

Tale soggetto, in diverse occasioni, è costretto, per poter lavorare, a tollerare condotte abusive e/o omettere l’esercizio di un proprio diritto innanzi a interessi spregiudicati di un qualche datore di lavoro, inosservante delle leggi e assolutamente indifferente, ad esempio, a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Siffatte condotte, non del tutto evidenti e raramente trattate rilevano delle defaillance nella funzione quale quella ispettiva in materia di lavoro, riconfinata, ad avviso dello scrivente, senza tema di smentita, ad una prevalente e mera attività burocratica, tendente all’applicazione della disciplina del lavoro e della legislazione sociale e di conseguenza delle sanzioni in uno spazio circoscritto al formale.

In effetti, il concetto di ispezione, inteso nella sua ontologica definizione di osservazione attenta, oculata, introspettiva ha assunto, in questo periodo, un ruolo assai diverso e non del tutto efficace.

Colpa del mare “magnum” di leggi, leggine e circolari; queste ultime foriere di generare una confusione nel tentativo spesso infelice di interpretare l’interpretato? Forse.

Il continuo e ripetuto ricorso all’interpretazione amministrativa delle Leggi, rischia, in concreto che questi strumenti operativi quali quello sopra citato della sospensione dell’attività imprenditoriale, siano solo un mezzo per appuntare e in seguito colpire attività d’impresa piccole, spesso incapaci di potersi difendere doviziosamente, qualora la Pubblica Amministrazione va addirittura a rasentare l’eccesso di potere.

In tema, mi corre l’obbligo di riportare l’attenzione sulla sentenza nr. 310 del 2 novembre 2010 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14 comma 1 del Decreto Legislativo nr.81 del 9 aprile 2008 contenente norme in materia di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro,nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si applicano le disposizioni contenute nelle norme in tema di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti che, esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’articolo 3 comma 1 della Legge 7 agosto 1990 n. 241.

In particolare, nella summenzionata sentenza, la Consulta sottolinea la necessità da parte dell’organo o ufficio procedente di “indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

Orbene quanto sopra fa trapelare che, il concetto di tutela va scemando in fumose applicazioni, talvolta sintomatiche di eccessi di potere e violazioni di legge che, in termini oggettivi non si curano di quelle situazioni, da tempo esistenti, di condotte in contesti di attività lavorativa diversi, i quali sono degni di nota soprattutto sotto il profilo della tutela penale.

Abbiamo avuto modo di leggere su FILODIRITTO (Articolo del 20 dicembre 2010 - La tutela penale in materia di Mobbing - Dott.ssa Licia Gulotta) che alcune fattispecie in materia di lavoro sono prive di tutela.

In vero, la responsabilità anche penale del datore di lavoro è prevista solo da alcune norme di riferimento, quali ad esempio il Decreto Legislativo 81/2008, la somministrazione di manodopera oppure le norme che regolano l’avviamento al lavoro di cittadini extracomunitari o piuttosto minori e altre fattispecie da definirsi appendicolari rispetto a quelle tipiche e rinvenibili nel contratto di lavoro.

Quindi occorre, di fronte a fattispecie diverse, fare riferimento a quei reati che chiunque può commettere, quali l’ingiuria, la diffamazione, maltrattamenti, violenza privata, nonché il reato di estorsione ex articolo 629 del codice penale.

Questo testualmente recita: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a ero 2.065.

La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”.

Per meglio illustrare in maniera tangibile quest’ultima fattispecie, ritengo opportuno fissare l’attenzione partendo da alcuni principi della nostra Costituzione, quali l’articolo 1; l’articolo 35 sulla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; l’articolo 36 sul diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro; l’articolo 37 sulla parità tra uomo e donna nell’ambito lavorativo, nonché il riconoscimento ai minori di norme speciali che ne garantiscono la parità di lavoro.

Questo breve, pur tuttavia necessario, percorso nella Carta Costituzionale, trova poi la sua definizione nelle disposizioni contenute nell’articolo 2087 del Codice Cvile e nello statuto dei Lavoratori, laddove vengono fissati, con maggiore chiarezza, i principi sopra menzionati.

L’importanza di un posto di lavoro è essenziale affinché un individuo possa trovare sostegno e considerazione in un ambito sociale, oggi diverso e diversificato rispetto al passato.

Nonostante tutto, allorché la necessità di un lavoro diventa frutto di speculazioni della parte contraente forte del rapporto (datore di lavoro) e le stesse vanno a incidere sulla sfera personale e morale del lavoratore, tali da condizionarne la volontà, siamo ragionevolmente innanzi ad evidenti abusi perseguibili e/o da perseguire con ogni strumento giuridico a disposizione.

In effetti, questi eccessi, in prime cure silenti, si sviluppano a partire da lievi forme di sopraffazione ad esempio con richieste inique o piuttosto imposizioni di orari di lavoro estremi, in condizioni di lavoro, di igiene e sicurezza impossibili, tali che il lavoratore deve subire la volontà del datore di lavoro per evitare il concretizzarsi di un male ingiusto o un faticoso pregiudizio personale e sociale.

Innanzi a tali circostanze, la parte contraente debole del rapporto vive un’esistenza sul posto di lavoro di assoluta coercizione, con la probabilità di restare senza lavoro, di non essere assunto regolarmente, di non ricevere una giusta retribuzione e i contributi previdenziali versati.

Comportamenti di prevaricazione a danno del lavoratore (di contro all’ingiusto vantaggio economico del datore di lavoro), forme di larvate minacce condizionano di fatto l’agire del prestatore d’opera e l’ambiente di lavoro non sempre vengono esaminati con la dovuta attenzione.

Siffatte azioni all’interno di un luogo di lavoro alimentano forme di omertà, ritenute necessarie per difendersi da comportamenti illeciti conferenti sotto il profilo penale e nella fattispecie ascrivibili anche al reato di estorsione.

Occorre subito ricordare, come da giurisprudenza ormai consolidata, che tutte le volte che quegli atteggiamenti sono considerati idonei a incidere sulla capacità di autodeterminazione del soggetto che le riceve, diventa assolutamente irrilevante, sotto il profilo dell’esimente, la circostanza più volte sottoposta all’attenzione del giudice adito, in ordine all’accordo lavorativo tra il datore di lavoro e il prestatore, che, per evitare la perdita del posto di lavoro, accetta condizioni di assoluta illegalità.

Effettivamente, anche “lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà. In tal caso l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente diventa ingiusto per il fine cui è diretto" [(Cassazione Penale Sezione 2 , n. 877 del 1973)]

Anche “la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia” [(Cassazione Penale Sezione 2 n. 1071 del 1992; Cassazione Penale Sezione 2 Sentenza n. 36642 del 2007].

Parimenti, l’approfittarsi di situazioni di mercato favorevoli al datore di lavoro per una prevalenza dell’offerta sulla domanda, e che costringa di fatto all’accettazione da parte dei dipendenti di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, assume rilievo sotto il profilo della violazione di cui all’articolo 629 del codice penale [(Cassazione Penale Sezione 2 n. 16656 del 2010)].

Per concludere questa breve panoramica sul reato di estorsione nel rapporto di lavoro è evidente che anche l’assenza dell’elemento materiale della minaccia o piuttosto lo stato di soggezione dei lavoratori non esclude la configurabilità dell’illecito penale in esame.

Di recente, nella sentenza del 19 gennaio 2011, la Cassazione Penale Sezione 2 nr. 3933/10 Registro generale nr. 25185/2010- Udienza pubblica del 14 dicembre 2010 ha confermato la sentenza della Corte di Appello di Catanzaro che aveva condannato per il delitto di estorsione il legale rappresentante di una ditta che “mediante minaccia di licenziamento, aveva costretto le lavoratrici a sottoscrivere la busta paga relativa ai salari mensili, agli straordinari, alla 13^ e 14^ mensilità per importi che venivano corrisposti per un orario di lavoro inferiore a quello effettivamente prestato, procurandosi, così, un ingiusto profitto con correlativo danno per le suddette lavoratrici”.

E’ augurabile che in futuro sia riposto un maggiore impegno alla identificazione di condotte quali quelle esaminate che, ad oggi, restano solo in parte accertate e sanzionate opportunamente, rispetto al reale quadro globale.