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Il regime dei licenziamenti antecedenti all’entrata in vigore del Collegato lavoro

1. Entrata in vigore il 24 novembre 2010 la legge n. 183/2010 di approvazione del cd. Collegato lavoro - la quale ha convertito la conciliazione da obbligatoria in facoltativa ed ha introdotto termini di decadenza per la proposizione del ricorso innanzi al Giudice (entro 270 giorni e se preceduti da conciliazione non riuscita o rifiutata, entro 60 giorni dal mancato accordo o dal rifiuto) - sono immediatamente sorti dubbi in ordine all’applicabilità (o meno) dei surriferiti termini di decadenza ai licenziamenti antecedenti all’entrata in vigore del cd. Collegato lavoro.

Se si tiene conto del fatto che il legislatore che ha introdotto termini di decadenza per il deposito del ricorso giudiziale contro il licenziamento, susseguente all’impugnativa del licenziamento nei 60 giorni e all’eventuale conciliazione – termini rinvenibili nell’art. 32 della l. n. 183/2010 - si è riproposto di sollevare il datore di lavoro dall’aggravio economico discendente, in caso di dichiarata invalidità con reintegra (nel regime di stabilità reale del rapporto), dalla consistente misura dell’indennità risarcitoria (costituita dalle mensilità correnti dal licenziamento invalido alla data della reintegra), il dubbio non può ritenersi affatto peregrino.

Infatti nel pregresso regime il tempo per il deposito innanzi al Giudice di un ricorso avverso il licenziamento era correlato al termine della prescrizione quinquennale, e in tale regime tanto più tardava il lavoratore a depositare il ricorso tanto più gravosa risultava la misura dell’indennità risarcitoria, conseguente alla dichiarazione di invalidità del licenziamento con reintegra, per effetto congiunto del ritardo del prestatore e delle lungaggini della nostra giustizia.

Si è temuto che nella realizzazione dell’obbiettivo della massima riduzione dell’onere economico datoriale, il nuovo e ridotto termine di decadenza dei 270 giorni potesse essere preteso applicabile anche ai licenziamenti disposti antecedentemente, già sottoposti al tentativo di conciliazione obbligatoria.

2. Si è temuto addirittura che i 270 giorni potessero essere ridotti a 60, qualora nel precedente regime fosse già stato esperito (con mancato accordo o con rifiuto desumibile concludentemente dalla mancata comparizione dell’azienda in sede di Direzione provinciale del lavoro) atteso che il nuovo art. 32, comma 1, ha disposto che: «Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».

Dubbio insorto per effetto di un ipotetico «recupero» - ai fini e per gli effetti della nuova disciplina decadenziale del deposito del ricorso giudiziale – del tentativo di conciliazione esperito nel precedente regime di «obbligatorietà» del medesimo, attraverso un’operazione di «egualizzazione» della vecchia conciliazione alla nuova.

A questo riguardo va detto che il dubbio si rivela inconsistente, una volta riscontrato – a prescindere dall’esame di una retroattività indebita, di cui diremo successivamente – che il nuovo tentativo di conciliazione facoltativo differisce per taluni tratti tipologici (o requisiti) dalla precedente conciliazione obbligatoria.

Le diversità fra i due tentativi di conciliazione emergono dal riscontro che nell’art. 32 della l. n. 183/2010 nonché nell’art. 31 afferente alla riscrittura del tentativo (ora facoltativo) di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c., il nuovo legislatore si è premurato di inserire precisazioni differenzianti, prima inesistenti, quali:

a) l’obbligo del richiedente la conciliazione di rendere nota la richiesta a controparte del tentativo in questione mediante A.R.,

b) l’obbligo del richiedente la nuova conciliazione di precisare nella richiesta:

1) nome, cognome e residenza dell’istante e del convenuto; se l’istante o il convenuto sono una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, l’istanza deve indicare la denominazione o la ditta nonché la sede;

2) il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;

3) il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;

4) l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.

Sono innovazioni – insieme a quella dell’estensione alle Associazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale (in luogo che nazionale) nella designazione del componente in loro rappresentanza – non significative in assoluto, giacché in precedenza per prassi si rispettavano quei requisiti, ma comunque idonee a configurare in maniera innovativa il “tentativo di conciliazione” (ora facoltativo).

Inoltre il rifiuto di controparte di aderire alla richiesta di conciliazione nella nuova configurazione ora dovrà desumersi secondo i criteri afferenti alla conciliazione facoltativa, che valorizza a questi fini non tanto la sola mancata comparizione del rappresentante di controparte in DPL ma il mancato deposito entro 20 giorni in DPL della memoria difensiva dell’azienda. Infatti, secondo la nuova disciplina della “conciliazione” facoltativa, il mancato compimento da parte dell’azienda di tale atto di deposito, attualizza concludentemente il rifiuto.

E’ questo rifiuto (o il mancato accordo dopo l’espletamento del tentativo di conciliazione cui l’azienda abbia aderito), che fa sì che – nell’abito della ridisegnata conciliazione facoltativa - il lavoratore abbia solo 60 giorni per il deposito del ricorso, decorrenti dal rifiuto (individuato nel giorno successivo al 20 esimo per il deposito delle memorie difensive aziendali) ovvero dalla data di sottoscrizione del verbale di mancato accordo.

Quindi il termine breve dei 60 giorni ha come presupposto il rifiuto (o il mancato accordo) esclusivamente nell’ambito della riscritta conciliazione facoltativa, non rilevando in alcun modo il tentativo di conciliazione già esperito nella vecchia e diversa configurazione “obbligatoria”.

3. Ma ci sono ragioni più sostanziali - fondate sui principi generali di diritto e sull’interpretazione di essi quali fornite dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni unite (civili e penali) - che precludono che ai licenziamenti disposti anteriormente all’entrata in vigore del cd. Collegato lavoro (ora l. n. 183/2010) possano applicarsi i nuovi regimi di decadenza dei 270 (e 60) giorni per il deposito del ricorso innanzi al Giudice del lavoro, con la conseguenza che il regime disciplinante il ricorso giudiziale dei licenziamenti irrogati antecedentemente al 24 novembre 2010 rimane quello correlato alla decadenza prescrizionale dei 5 anni.

Infatti deve innanzitutto essere tenuto a mente il principio generale codificato nell’art. 11 delle Preleggi, afferente all’efficacia della legge nel tempo, secondo cui: «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». In questi termini il legislatore ha affermato il principio di irretroattività.

Va altresì tenuto conto dell’ insegnamento del Giudice delle leggi, esplicitati in Corte cost. n. 155/1990, secondo cui:«(…)Né può omettersi di rilevare che l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (art. 11 preleggi) e, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.), rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti ( cioè, passati, trascorsi, ndr) costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini».

A quanto sopra va aggiunto che la tematica della proposizione del ricorso (in ambito civile e penale) è stata esaminata, in termini generali, dalle due rispettive Sezioni unite della Cassazione penale e civile, quantunque per fattispecie non lavoristiche, i cui principi possono tranquillamente essere applicati alla fattispecie della proposizione e del deposito del ricorso avverso licenziamenti avvenuti sotto il regime decadenziale dei 5 anni.

Nella sentenza a sezione unite civili del 20/12/2006 n. 27172 – afferente al regime di impugnativa delle sanzioni disciplinari per i magistrati, disposti antecedentemente all’entrata in vigore di successive norme processuali modificative di tale regime – le Sezioni Unite aderiscono all’orientamento maggioritario che interpreta il brocardo “tempus regit actum” non in senso letterale (ove, dovendosi letteralmente individuare l’actus nella proposizione dell’impugnativa e del relativo deposito del ricorso avvenuto successivamente nel regime processuale innovato, ne conseguirebbe l’inapplicabilità del regime precedente) ma in senso razionale e non contraddittorio, tale da far identificare l’actus di riferimento nella sentenza, ed il tempus nella pubblicazione della stessa, con la conseguenza che il regime impugnatorio va apprezzato in relazione a tale momento, indipendentemente dalle vicende successive, costituendo tale momento l’epoca genetica del diritto di impugnativa giudiziale, a prescindere dal momento successivo, caratterizzato da diverso regime processuale, in cui il diritto di impugnativa, mediante proposizione del ricorso, viene di fatto esercitato (v., in tal senso, tra le altre, Cass. civ., n. 1348 del 1969, n. 815 del 1966, n. 1198 del 1965; Cass. pen., n. 45094 del 2003, SS.UU. pen., n. 16101 del 2002). Alla stregua di tale principio, la pronuncia afferma la competenza delle Sezioni Unite civili a conoscere del ricorso proposto avverso una sentenza della Sezione Disciplinare del CSM pubblicata anteriormente al 19 giugno 2006, data in cui hanno acquistato efficacia le disposizioni del d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, che - in attuazione della delega di cui agli artt. 1, comma 1, lettera f), e 2, commi 6 e 7, della legge 25 luglio 2005, n. 150 - ha dettato la nuova disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, disponendo, tra l’altro, all’art. 24, che il ricorso per cassazione avverso le decisioni della citata Sezione Disciplinare sia proposto nei termini e con le forme previsti dal codice di procedura penale e che la Corte di cassazione decida a sezioni unite penali, entro sei mesi dalla data di proposizione del ricorso. Le Sezioni unite nella citata sentenza afferma che la competenza delle Sezioni unite civili nella ipotesi in esame viene a radicarsi, invece, sulla base del principio sopra enunciato, nella normativa vigente all’epoca della pubblicazione della sentenza impugnata, e, in particolare, negli artt. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195 e 60 del d.p.r. 16 settembre 1958, n. 916, che prevedevano l’impugnabilità dei provvedimenti in materia disciplinare entro sessanta giorni dalla comunicazione degli stessi alle sezioni unite civili della Cassazione (e non già presso le SU penali prescritte dalla normativa processuale sopravveniente), con rinvio alle norme disciplinanti il processo civile in sede di legittimità.

Con maggiore chiarezza la successiva sentenza della Cassazione, SU penali, n. 27614 del 2007 asserisce: «E’ necessario distinguere tra varie specie di atti: quello con effetti istantanei “che si esaurisce senza residui nel suo puntuale compimento” e ha, per così dire, una funzione “autoreferenziale”; quello che, pur essendo di esecuzione istantanea, presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga ed è strettamente ancorato ad altro atto che lo legittima e che finisce con l’assumere rilievo centrale; quello che ha “carattere strumentale e preparatorio” rispetto ad una successiva attività del procedimento, con la quale va a integrarsi e completarsi in uno spazio temporale anch’esso più o meno ampio, dando luogo ad una fattispecie processuale complessa.

La regola “tempus regit actum” non può non tenere conto della variegata tipologia degli atti processuali e va modulata in relazione alla differente situazione sulla quale questi incidono e che occorre di volta in volta governare.

Certamente appartiene alla prima specie, se considerato isolatamente e nel suo aspetto formale, l’atto di impugnazione che, nell’ambito dell’iter processuale, ha una propria autonomia e una funzione autoreferenziale, che è quella di dare avvio al grado successivo di giudizio, investendo il giudice competente.

Più specificamente, il potere di appellare una sentenza (o di impugnare un provvedimento di risoluzione del rapporto, ndr) … è esercitatile nell’arco temporale compreso tra l’emanazione della decisione (o la notifica del licenziamento, ndr) e la scadenza dei termini per proporre appello (o ricorso, ndr), sicché, una volta legittimamente esercitato nel rispetto della disciplina al momento vigente, non può più parlarsi di appellabilità della sentenza, ma di pendenza del giudizio di appello, che, ormai instradato sul relativo binario, rimane insensibile a qualsiasi modifica normativa che sopravviene, la quale può trovare applicazione soltanto in relazione a sentenze pronunciate (e a provvedimenti di licenziamento disposti, ndr) dopo la sua entrata in vigore.

(…)

Altro problema (…) che la disciplina intertemporale applicabile alle impugnazioni pone e che va approfondito è l’individuazione del momento dal quale la lex superveniens governa l’impugnazione.

Quantunque sia unanime l’opinione che al principio “tempus regit actum” debba farsi ricorso per stabilire, in assenza di disposizioni transitorie, quale disciplina applicare in caso di successione di leggi in materia di impugnazione, si discute, invece, sull’individuazione dell’actus al quale fare in concreto riferimento per l’individuazione di tale disciplina.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità non è concorde, nel senso che alcune decisioni fanno coincidere tale momento con quello di presentazione dell’impugnazione (Cass. sez. IV 17/11/2004 n. 3484/2005; sez. V 12/3/2004 n. 15596; sez. IV 4/12/2003 n. 4860/2005; sez. III 13/3/2002 n. 20769; sez. III 18/12/2000 n. 8340/2001; sez. VI 3/7/2000 n. 3058; sez. VI 10/4/2000 n. 5558; sez. V 19/5/2000 n. 7329), altre con quello della pronuncia della sentenza (o irrogazione del licenziamento, ndr) (Cass. sez. V 22/9/2003 n. 45094; sez. III 28/5/2001 n. 30541; sez. V 11/1/2007 n. 11659).

La questione, solo apparentemente sembrerebbe priva di rilievo decisivo nel caso in esame considerato che tanto l’emissione della sentenza quanto la proposizione dell’impugnazione risalgono ad epoca precedente alla riforma introdotta dalla legge n. 46/’06. In realtà, se si ha riguardo, in una prospettiva di più ampio respiro, agli eventuali sviluppi futuri del regime d’impugnazione avviato nella vigenza dell’art. 577 c.p.p (nella fattispecie, ndr)., si apprezza il rilievo concreto della questione: basti pensare alla possibilità o meno di impugnare, con ricorso per cassazione, l’emananda sentenza di appello, possibilità che sarebbe consentita, se si ha riguardo alla normativa in vigore al momento genetico del diritto d’impugnare, e preclusa, se si considera il momento in cui potrà essere proposta l’ulteriore impugnazione, non più ammessa dal mutato quadro normativo.

Ritengono le Sezioni Unite di privilegiare il secondo indirizzo ermeneutico.

La formula tempus regit actum, se intesa nel suo significato letterale, riferita cioè alla legge del tempo in cui l’atto, isolatamente considerato, è compiuto (nella specie, presentazione dell’impugnazione), conduce ad esiti irragionevoli.

Si pensi al caso in cui, in pendenza del termine per impugnare e in prossimità della sua scadenza, una nuova legge abroghi il grado di appello, mantenendo il ricorso per cassazione: l’imputato (o altra parte) può venirsi a trovare in grave difficoltà nella predisposizione del mezzo di gravame appropriato, può determinarsi una dissimmetria tra le posizioni, sostanzialmente analoghe, di due imputati (o di altre parti); si immagini ancora il caso, assolutamente emblematico, di due soggetti in identica posizione processuale che maturano nella stessa data il termine, di medesima durata, per impugnare la sentenza (o proporre ricorso contro il licenziamento, ndr): l’uno deposita l’impugnazione diversi giorni prima della scadenza e nel vigore della legge che la consente, l’altro attende gli ultimi giorni per proporla ma, essendo nel frattempo intervenuta la norma che abroga tale facoltà, la relativa domanda non può sfuggire alla sanzione dell’inammissibilità. S’intuisce agevolmente che il regime di impugnabilità di una sentenza (o di un licenziamento, ndr) non può essere condizionato da elementi meramente aleatori, come quelli affidati alla tempestività o meno del deposito della stessa ovvero alla puntualità degli adempimenti di cancelleria o ancora alla iniziativa più o meno tempestiva della parte interessata; tanto si verificherebbe, ove si avesse riguardo al momento di presentazione dell’atto di impugnazione.

E’ vero che è insita nel fenomeno della successione di norme nel tempo una certa disparità di trattamento, che, però, per non essere censurabile sotto il profilo della legittimità costituzionale (cfr. C. Cost. sent. n. 381/’01), non deve essere altrimenti evitabile e/o irragionevole e non deve coinvolgere, in senso penalizzante, l’autonomia di azione e il diritto di difesa della parte processuale interessata.

Per ovviare agli inconvenienti cui innanzi si è fatto cenno, il regime delle impugnazioni va ancorato, in base alla regola intertemporale di cui all’art. 11 delle preleggi, non alla disciplina vigente al momento della loro presentazione ma a quella in essere all’atto della pronuncia della sentenza (o dell’irrogazione del licenziamento, ndr), posto che è in rapporto a quest’ultimo actus e al tempus del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e i termini per esercitarla. Non è fuori luogo fare richiamo, al riguardo, all’esigenza di tutela dell’affidamento maturato dalla parte “in relazione alla fissità del quadro normativo”. L’affidamento, come valore essenziale della giurisdizione, che va ad integrarsi con l’altro - di rango costituzionale - della “parità delle armi”, soddisfa l’esigenza di assicurare ai protagonisti del processo la certezza delle regole processuali e dei diritti eventualmente già maturati, senza il timore che tali diritti, pur non ancora esercitati, subiscano l’incidenza di mutamenti legislativi improvvisi e non sempre coerenti col sistema, che vanno a depauperare o a disarticolare posizioni processuali già acquisite. “La certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini” (C. Cost. sent. n. 155/’90).

Il potere d’impugnazione trova la sua genesi proprio nella sentenza (o nell’irrogazione del licenziamento, ndr) e non può che essere apprezzato in relazione al momento in cui questa viene pronunciata (o il licenziamento disposto, ndr), con la conseguenza che è al regime regolatore vigente in tale momento che deve farsi riferimento, regime che rimane insensibile a eventuali interventi normativi successivi, non potendo la nuova legge processuale travolgere quegli effetti dell’atto che si sono già prodotti prima dell’entrata in vigore della medesima legge, né regolare diversamente gli effetti futuri dell’atto (cfr. in senso conforme Cass. S.U. civili sent. 20/12/2006 n. 27172; S.U. penali sentenze 27/3/2002 n. 16101 e n. 16102, queste ultime in un tema non perfettamente sovrapponibile a quello in esame)».

Ne consegue che – applicando, come pacificamente si deve, al settore lavoristico i principi surriferiti ed espressi dalle Sezioni unite della Cassazione in sede civile e penale, in caso di carenza di una apposita disciplina transitoria - dovendosi riscontrare inequivocabilmente nella procedura processuale del licenziamento una fattispecie complessa a formazione progressiva (di cui sono fasi l’impugnazione stragiudiziale, il tentativo di conciliazione, la proposizione /deposito del ricorso), il momento genetico del diritto d’impugnazione del licenziamento (quale “actus” cui far riferimento per la normativa processuale temporalmente applicabile) risiede nella notifica del medesimo al lavoratore, sempreché seguito dall’impugnativa stragiudiziale nei (mantenuti) 60 giorni.

Pertanto nel caso in cui questa notifica sia avvenuta sotto il regime antecedente quello processuale di impugnativa introdotto dalla l. n. 183/2010, i termini per l’impugnativa e la proposizione dell’azione giudiziale sono quelli previgenti, in cui la decadenza per la proposizione e il deposito del ricorso innanzi al Giudice del lavoro era fissata entro l’arco temporale di decorso del termine prescrizionale dei 5 anni.

1. Entrata in vigore il 24 novembre 2010 la legge n. 183/2010 di approvazione del cd. Collegato lavoro - la quale ha convertito la conciliazione da obbligatoria in facoltativa ed ha introdotto termini di decadenza per la proposizione del ricorso innanzi al Giudice (entro 270 giorni e se preceduti da conciliazione non riuscita o rifiutata, entro 60 giorni dal mancato accordo o dal rifiuto) - sono immediatamente sorti dubbi in ordine all’applicabilità (o meno) dei surriferiti termini di decadenza ai licenziamenti antecedenti all’entrata in vigore del cd. Collegato lavoro.

Se si tiene conto del fatto che il legislatore che ha introdotto termini di decadenza per il deposito del ricorso giudiziale contro il licenziamento, susseguente all’impugnativa del licenziamento nei 60 giorni e all’eventuale conciliazione – termini rinvenibili nell’art. 32 della l. n. 183/2010 - si è riproposto di sollevare il datore di lavoro dall’aggravio economico discendente, in caso di dichiarata invalidità con reintegra (nel regime di stabilità reale del rapporto), dalla consistente misura dell’indennità risarcitoria (costituita dalle mensilità correnti dal licenziamento invalido alla data della reintegra), il dubbio non può ritenersi affatto peregrino.

Infatti nel pregresso regime il tempo per il deposito innanzi al Giudice di un ricorso avverso il licenziamento era correlato al termine della prescrizione quinquennale, e in tale regime tanto più tardava il lavoratore a depositare il ricorso tanto più gravosa risultava la misura dell’indennità risarcitoria, conseguente alla dichiarazione di invalidità del licenziamento con reintegra, per effetto congiunto del ritardo del prestatore e delle lungaggini della nostra giustizia.

Si è temuto che nella realizzazione dell’obbiettivo della massima riduzione dell’onere economico datoriale, il nuovo e ridotto termine di decadenza dei 270 giorni potesse essere preteso applicabile anche ai licenziamenti disposti antecedentemente, già sottoposti al tentativo di conciliazione obbligatoria.

2. Si è temuto addirittura che i 270 giorni potessero essere ridotti a 60, qualora nel precedente regime fosse già stato esperito (con mancato accordo o con rifiuto desumibile concludentemente dalla mancata comparizione dell’azienda in sede di Direzione provinciale del lavoro) atteso che il nuovo art. 32, comma 1, ha disposto che: «Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo».

Dubbio insorto per effetto di un ipotetico «recupero» - ai fini e per gli effetti della nuova disciplina decadenziale del deposito del ricorso giudiziale – del tentativo di conciliazione esperito nel precedente regime di «obbligatorietà» del medesimo, attraverso un’operazione di «egualizzazione» della vecchia conciliazione alla nuova.

A questo riguardo va detto che il dubbio si rivela inconsistente, una volta riscontrato – a prescindere dall’esame di una retroattività indebita, di cui diremo successivamente – che il nuovo tentativo di conciliazione facoltativo differisce per taluni tratti tipologici (o requisiti) dalla precedente conciliazione obbligatoria.

Le diversità fra i due tentativi di conciliazione emergono dal riscontro che nell’art. 32 della l. n. 183/2010 nonché nell’art. 31 afferente alla riscrittura del tentativo (ora facoltativo) di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c., il nuovo legislatore si è premurato di inserire precisazioni differenzianti, prima inesistenti, quali:

a) l’obbligo del richiedente la conciliazione di rendere nota la richiesta a controparte del tentativo in questione mediante A.R.,

b) l’obbligo del richiedente la nuova conciliazione di precisare nella richiesta:

1) nome, cognome e residenza dell’istante e del convenuto; se l’istante o il convenuto sono una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, l’istanza deve indicare la denominazione o la ditta nonché la sede;

2) il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;

3) il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;

4) l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.

Sono innovazioni – insieme a quella dell’estensione alle Associazioni datoriali e sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale (in luogo che nazionale) nella designazione del componente in loro rappresentanza – non significative in assoluto, giacché in precedenza per prassi si rispettavano quei requisiti, ma comunque idonee a configurare in maniera innovativa il “tentativo di conciliazione” (ora facoltativo).

Inoltre il rifiuto di controparte di aderire alla richiesta di conciliazione nella nuova configurazione ora dovrà desumersi secondo i criteri afferenti alla conciliazione facoltativa, che valorizza a questi fini non tanto la sola mancata comparizione del rappresentante di controparte in DPL ma il mancato deposito entro 20 giorni in DPL della memoria difensiva dell’azienda. Infatti, secondo la nuova disciplina della “conciliazione” facoltativa, il mancato compimento da parte dell’azienda di tale atto di deposito, attualizza concludentemente il rifiuto.

E’ questo rifiuto (o il mancato accordo dopo l’espletamento del tentativo di conciliazione cui l’azienda abbia aderito), che fa sì che – nell’abito della ridisegnata conciliazione facoltativa - il lavoratore abbia solo 60 giorni per il deposito del ricorso, decorrenti dal rifiuto (individuato nel giorno successivo al 20 esimo per il deposito delle memorie difensive aziendali) ovvero dalla data di sottoscrizione del verbale di mancato accordo.

Quindi il termine breve dei 60 giorni ha come presupposto il rifiuto (o il mancato accordo) esclusivamente nell’ambito della riscritta conciliazione facoltativa, non rilevando in alcun modo il tentativo di conciliazione già esperito nella vecchia e diversa configurazione “obbligatoria”.

3. Ma ci sono ragioni più sostanziali - fondate sui principi generali di diritto e sull’interpretazione di essi quali fornite dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni unite (civili e penali) - che precludono che ai licenziamenti disposti anteriormente all’entrata in vigore del cd. Collegato lavoro (ora l. n. 183/2010) possano applicarsi i nuovi regimi di decadenza dei 270 (e 60) giorni per il deposito del ricorso innanzi al Giudice del lavoro, con la conseguenza che il regime disciplinante il ricorso giudiziale dei licenziamenti irrogati antecedentemente al 24 novembre 2010 rimane quello correlato alla decadenza prescrizionale dei 5 anni.

Infatti deve innanzitutto essere tenuto a mente il principio generale codificato nell’art. 11 delle Preleggi, afferente all’efficacia della legge nel tempo, secondo cui: «La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo». In questi termini il legislatore ha affermato il principio di irretroattività.

Va altresì tenuto conto dell’ insegnamento del Giudice delle leggi, esplicitati in Corte cost. n. 155/1990, secondo cui:«(…)Né può omettersi di rilevare che l’irretroattività costituisce un principio generale del nostro ordinamento (art. 11 preleggi) e, se pur non elevato, fuori della materia penale, a dignità costituzionale (art. 25, secondo comma, Cost.), rappresenta pur sempre una regola essenziale del sistema a cui, salva un’effettiva causa giustificatrice, il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in quanto la certezza dei rapporti preteriti ( cioè, passati, trascorsi, ndr) costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini».

A quanto sopra va aggiunto che la tematica della proposizione del ricorso (in ambito civile e penale) è stata esaminata, in termini generali, dalle due rispettive Sezioni unite della Cassazione penale e civile, quantunque per fattispecie non lavoristiche, i cui principi possono tranquillamente essere applicati alla fattispecie della proposizione e del deposito del ricorso avverso licenziamenti avvenuti sotto il regime decadenziale dei 5 anni.

Nella sentenza a sezione unite civili del 20/12/2006 n. 27172 – afferente al regime di impugnativa delle sanzioni disciplinari per i magistrati, disposti antecedentemente all’entrata in vigore di successive norme processuali modificative di tale regime – le Sezioni Unite aderiscono all’orientamento maggioritario che interpreta il brocardo “tempus regit actum” non in senso letterale (ove, dovendosi letteralmente individuare l’actus nella proposizione dell’impugnativa e del relativo deposito del ricorso avvenuto successivamente nel regime processuale innovato, ne conseguirebbe l’inapplicabilità del regime precedente) ma in senso razionale e non contraddittorio, tale da far identificare l’actus di riferimento nella sentenza, ed il tempus nella pubblicazione della stessa, con la conseguenza che il regime impugnatorio va apprezzato in relazione a tale momento, indipendentemente dalle vicende successive, costituendo tale momento l’epoca genetica del diritto di impugnativa giudiziale, a prescindere dal momento successivo, caratterizzato da diverso regime processuale, in cui il diritto di impugnativa, mediante proposizione del ricorso, viene di fatto esercitato (v., in tal senso, tra le altre, Cass. civ., n. 1348 del 1969, n. 815 del 1966, n. 1198 del 1965; Cass. pen., n. 45094 del 2003, SS.UU. pen., n. 16101 del 2002). Alla stregua di tale principio, la pronuncia afferma la competenza delle Sezioni Unite civili a conoscere del ricorso proposto avverso una sentenza della Sezione Disciplinare del CSM pubblicata anteriormente al 19 giugno 2006, data in cui hanno acquistato efficacia le disposizioni del d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, che - in attuazione della delega di cui agli artt. 1, comma 1, lettera f), e 2, commi 6 e 7, della legge 25 luglio 2005, n. 150 - ha dettato la nuova disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, disponendo, tra l’altro, all’art. 24, che il ricorso per cassazione avverso le decisioni della citata Sezione Disciplinare sia proposto nei termini e con le forme previsti dal codice di procedura penale e che la Corte di cassazione decida a sezioni unite penali, entro sei mesi dalla data di proposizione del ricorso. Le Sezioni unite nella citata sentenza afferma che la competenza delle Sezioni unite civili nella ipotesi in esame viene a radicarsi, invece, sulla base del principio sopra enunciato, nella normativa vigente all’epoca della pubblicazione della sentenza impugnata, e, in particolare, negli artt. 17, secondo comma, della legge 24 marzo 1958, n. 195 e 60 del d.p.r. 16 settembre 1958, n. 916, che prevedevano l’impugnabilità dei provvedimenti in materia disciplinare entro sessanta giorni dalla comunicazione degli stessi alle sezioni unite civili della Cassazione (e non già presso le SU penali prescritte dalla normativa processuale sopravveniente), con rinvio alle norme disciplinanti il processo civile in sede di legittimità.

Con maggiore chiarezza la successiva sentenza della Cassazione, SU penali, n. 27614 del 2007 asserisce: «E’ necessario distinguere tra varie specie di atti: quello con effetti istantanei “che si esaurisce senza residui nel suo puntuale compimento” e ha, per così dire, una funzione “autoreferenziale”; quello che, pur essendo di esecuzione istantanea, presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga ed è strettamente ancorato ad altro atto che lo legittima e che finisce con l’assumere rilievo centrale; quello che ha “carattere strumentale e preparatorio” rispetto ad una successiva attività del procedimento, con la quale va a integrarsi e completarsi in uno spazio temporale anch’esso più o meno ampio, dando luogo ad una fattispecie processuale complessa.

La regola “tempus regit actum” non può non tenere conto della variegata tipologia degli atti processuali e va modulata in relazione alla differente situazione sulla quale questi incidono e che occorre di volta in volta governare.

Certamente appartiene alla prima specie, se considerato isolatamente e nel suo aspetto formale, l’atto di impugnazione che, nell’ambito dell’iter processuale, ha una propria autonomia e una funzione autoreferenziale, che è quella di dare avvio al grado successivo di giudizio, investendo il giudice competente.

Più specificamente, il potere di appellare una sentenza (o di impugnare un provvedimento di risoluzione del rapporto, ndr) … è esercitatile nell’arco temporale compreso tra l’emanazione della decisione (o la notifica del licenziamento, ndr) e la scadenza dei termini per proporre appello (o ricorso, ndr), sicché, una volta legittimamente esercitato nel rispetto della disciplina al momento vigente, non può più parlarsi di appellabilità della sentenza, ma di pendenza del giudizio di appello, che, ormai instradato sul relativo binario, rimane insensibile a qualsiasi modifica normativa che sopravviene, la quale può trovare applicazione soltanto in relazione a sentenze pronunciate (e a provvedimenti di licenziamento disposti, ndr) dopo la sua entrata in vigore.

(…)

Altro problema (…) che la disciplina intertemporale applicabile alle impugnazioni pone e che va approfondito è l’individuazione del momento dal quale la lex superveniens governa l’impugnazione.

Quantunque sia unanime l’opinione che al principio “tempus regit actum” debba farsi ricorso per stabilire, in assenza di disposizioni transitorie, quale disciplina applicare in caso di successione di leggi in materia di impugnazione, si discute, invece, sull’individuazione dell’actus al quale fare in concreto riferimento per l’individuazione di tale disciplina.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità non è concorde, nel senso che alcune decisioni fanno coincidere tale momento con quello di presentazione dell’impugnazione (Cass. sez. IV 17/11/2004 n. 3484/2005; sez. V 12/3/2004 n. 15596; sez. IV 4/12/2003 n. 4860/2005; sez. III 13/3/2002 n. 20769; sez. III 18/12/2000 n. 8340/2001; sez. VI 3/7/2000 n. 3058; sez. VI 10/4/2000 n. 5558; sez. V 19/5/2000 n. 7329), altre con quello della pronuncia della sentenza (o irrogazione del licenziamento, ndr) (Cass. sez. V 22/9/2003 n. 45094; sez. III 28/5/2001 n. 30541; sez. V 11/1/2007 n. 11659).

La questione, solo apparentemente sembrerebbe priva di rilievo decisivo nel caso in esame considerato che tanto l’emissione della sentenza quanto la proposizione dell’impugnazione risalgono ad epoca precedente alla riforma introdotta dalla legge n. 46/’06. In realtà, se si ha riguardo, in una prospettiva di più ampio respiro, agli eventuali sviluppi futuri del regime d’impugnazione avviato nella vigenza dell’art. 577 c.p.p (nella fattispecie, ndr)., si apprezza il rilievo concreto della questione: basti pensare alla possibilità o meno di impugnare, con ricorso per cassazione, l’emananda sentenza di appello, possibilità che sarebbe consentita, se si ha riguardo alla normativa in vigore al momento genetico del diritto d’impugnare, e preclusa, se si considera il momento in cui potrà essere proposta l’ulteriore impugnazione, non più ammessa dal mutato quadro normativo.

Ritengono le Sezioni Unite di privilegiare il secondo indirizzo ermeneutico.

La formula tempus regit actum, se intesa nel suo significato letterale, riferita cioè alla legge del tempo in cui l’atto, isolatamente considerato, è compiuto (nella specie, presentazione dell’impugnazione), conduce ad esiti irragionevoli.

Si pensi al caso in cui, in pendenza del termine per impugnare e in prossimità della sua scadenza, una nuova legge abroghi il grado di appello, mantenendo il ricorso per cassazione: l’imputato (o altra parte) può venirsi a trovare in grave difficoltà nella predisposizione del mezzo di gravame appropriato, può determinarsi una dissimmetria tra le posizioni, sostanzialmente analoghe, di due imputati (o di altre parti); si immagini ancora il caso, assolutamente emblematico, di due soggetti in identica posizione processuale che maturano nella stessa data il termine, di medesima durata, per impugnare la sentenza (o proporre ricorso contro il licenziamento, ndr): l’uno deposita l’impugnazione diversi giorni prima della scadenza e nel vigore della legge che la consente, l’altro attende gli ultimi giorni per proporla ma, essendo nel frattempo intervenuta la norma che abroga tale facoltà, la relativa domanda non può sfuggire alla sanzione dell’inammissibilità. S’intuisce agevolmente che il regime di impugnabilità di una sentenza (o di un licenziamento, ndr) non può essere condizionato da elementi meramente aleatori, come quelli affidati alla tempestività o meno del deposito della stessa ovvero alla puntualità degli adempimenti di cancelleria o ancora alla iniziativa più o meno tempestiva della parte interessata; tanto si verificherebbe, ove si avesse riguardo al momento di presentazione dell’atto di impugnazione.

E’ vero che è insita nel fenomeno della successione di norme nel tempo una certa disparità di trattamento, che, però, per non essere censurabile sotto il profilo della legittimità costituzionale (cfr. C. Cost. sent. n. 381/’01), non deve essere altrimenti evitabile e/o irragionevole e non deve coinvolgere, in senso penalizzante, l’autonomia di azione e il diritto di difesa della parte processuale interessata.

Per ovviare agli inconvenienti cui innanzi si è fatto cenno, il regime delle impugnazioni va ancorato, in base alla regola intertemporale di cui all’art. 11 delle preleggi, non alla disciplina vigente al momento della loro presentazione ma a quella in essere all’atto della pronuncia della sentenza (o dell’irrogazione del licenziamento, ndr), posto che è in rapporto a quest’ultimo actus e al tempus del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e i termini per esercitarla. Non è fuori luogo fare richiamo, al riguardo, all’esigenza di tutela dell’affidamento maturato dalla parte “in relazione alla fissità del quadro normativo”. L’affidamento, come valore essenziale della giurisdizione, che va ad integrarsi con l’altro - di rango costituzionale - della “parità delle armi”, soddisfa l’esigenza di assicurare ai protagonisti del processo la certezza delle regole processuali e dei diritti eventualmente già maturati, senza il timore che tali diritti, pur non ancora esercitati, subiscano l’incidenza di mutamenti legislativi improvvisi e non sempre coerenti col sistema, che vanno a depauperare o a disarticolare posizioni processuali già acquisite. “La certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini” (C. Cost. sent. n. 155/’90).

Il potere d’impugnazione trova la sua genesi proprio nella sentenza (o nell’irrogazione del licenziamento, ndr) e non può che essere apprezzato in relazione al momento in cui questa viene pronunciata (o il licenziamento disposto, ndr), con la conseguenza che è al regime regolatore vigente in tale momento che deve farsi riferimento, regime che rimane insensibile a eventuali interventi normativi successivi, non potendo la nuova legge processuale travolgere quegli effetti dell’atto che si sono già prodotti prima dell’entrata in vigore della medesima legge, né regolare diversamente gli effetti futuri dell’atto (cfr. in senso conforme Cass. S.U. civili sent. 20/12/2006 n. 27172; S.U. penali sentenze 27/3/2002 n. 16101 e n. 16102, queste ultime in un tema non perfettamente sovrapponibile a quello in esame)».

Ne consegue che – applicando, come pacificamente si deve, al settore lavoristico i principi surriferiti ed espressi dalle Sezioni unite della Cassazione in sede civile e penale, in caso di carenza di una apposita disciplina transitoria - dovendosi riscontrare inequivocabilmente nella procedura processuale del licenziamento una fattispecie complessa a formazione progressiva (di cui sono fasi l’impugnazione stragiudiziale, il tentativo di conciliazione, la proposizione /deposito del ricorso), il momento genetico del diritto d’impugnazione del licenziamento (quale “actus” cui far riferimento per la normativa processuale temporalmente applicabile) risiede nella notifica del medesimo al lavoratore, sempreché seguito dall’impugnativa stragiudiziale nei (mantenuti) 60 giorni.

Pertanto nel caso in cui questa notifica sia avvenuta sotto il regime antecedente quello processuale di impugnativa introdotto dalla l. n. 183/2010, i termini per l’impugnativa e la proposizione dell’azione giudiziale sono quelli previgenti, in cui la decadenza per la proposizione e il deposito del ricorso innanzi al Giudice del lavoro era fissata entro l’arco temporale di decorso del termine prescrizionale dei 5 anni.