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La critica giornalistica tra libertà di opinione e tutela dell’altrui reputazione

La critica giornalistica tra libertà di opinione e tutela dell’altrui reputazione
La critica giornalistica tra libertà di opinione e tutela dell’altrui reputazione

La sentenza in commento focalizza la propria attenzione sull’equa valutazione e bilanciamento della critica giornalistica nell’ambito di una delicata materia attinente al diritto dei mezzi di comunicazione.

Il caso riguarda la pubblicazione di due rispettivi articoli giornalistici, contraddistinti da una critica fattuale, i quali hanno provocato la lesione alla reputazione e all’onore del destinatario della notizia.

Nel merito il tribunale in prima istanza accoglie la domanda risarcitoria condannando in solido sia i giornalisti autori delle due rispettive pubblicazioni, sia il gruppo editoriale al riconoscimento di una cospicua somma di denaro in favore del soggetto danneggiato. Successivamente la Corte di appello riforma la decisione del giudice di prime cure riconoscendo la scriminante del giornalista evidenziando, oltretutto, come la verità nella critica giornalistica non deve essere necessariamente obiettiva ma anche putativa.    

La questione approda dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione che accoglie la domanda del ricorrente valutando alla base del diritto di critica un equo bilanciamento, ove l’opinione personale dei giornalisti non può essere espressa in merito a fatti di cui non è stata accertata la verità obiettiva e, pertanto, in tale fattispecie non può operare la scriminante del giornalista.

In via preliminare si rende necessario richiamare i principi costituzionali che dettano le linee guida da seguire in tema di diritto, informazione e comunicazione. Infatti, l’articolo 15 esamina i concetti di libertà e segretezza della corrispondenza, tra loro connessi, in quanto la libertà della comunicazione deve necessariamente accompagnarsi dalla garanzia della riservatezza, anche della fonte, qualora quest’ultima lo richieda.

Il successivo articolo 21 concerne la libertà di manifestare il proprio pensiero, quest’ultimo posto alla base del diritto all’informazione. Ciò rappresenta il fondamentale presidio alle libertà democratiche, ma non vi è dubbio che tale esercizio incorra in una serie di limiti, in quanto non deve violare il diritto di pari dignità sociale sancito dall’articolo 2 della medesima Carta Costituzionale. A tal fine si evidenzia che il pluralismo dei mezzi di comunicazione rivela un diritto costituzionalmente garantito, poiché i cittadini devono conoscere idee ed opinioni differenti e, pertanto, nell’anno 1997 l’istituzione dell’Autorità per garanzie nelle comunicazioni è risultata funzionale a preservare tale diritto, oltreché assurgere compiti di regolazione nel settore assorbendo le medesime funzioni svolte in passato dal Garante per l’editoria.

Ne consegue che, secondo tale prospettazione, l’interesse dei cittadini ad essere pienamente e correttamente informati su tutte le notizie contraddistinte dall’utilità sociale rappresenta un diritto costituzionalmente riconosciuto nel nostro ordinamento. A riguardo l’articolo 21 mira a tutelare l’informazione con lo scopo di evitare controlli di polizia sulla stessa e, pertanto, non vi è alcun consenso preventivo alla pubblicazione.

Tanto chiarito occorre evidenziare che la libertà di manifestare il proprio pensiero viene intesa anche come diritto di utilizzare ogni mezzo per informare la cittadinanza, purché la notizia riportata rispetti il famoso decalogo del giornalista. 

Negli anni ’80 del secolo scorso la giurisprudenza[1] pone determinati limiti al diritto di cronaca, al fine di evitare che l’esercizio dello stesso sfoci nella lesione dell’onore o dell’altrui reputazione. Ciò posto, le regole fissate, alle quali deve attenersi il giornalista nell’espletamento dell’attività informativa sono le seguenti: l’utilità sociale dell’informazione, verità dei fatti esposti (non possono essere date notizie da fonti ufficiali che si rivelino di natura diffamatoria) e forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione (c.d. clausola di continenza che deve sempre contraddistinguere l’obiettività della notizia).

Ne consegue che non devono sussistere difetti di chiarezza da parte del giornalista, il quale non deve mai fare ricorso a subdoli espedienti come il sottinteso sapiente (uso di espressioni tendenziose che possono essere interpretate dal lettore in maniera diversa o, addirittura, contraria al loro significato letterale), tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli, o addirittura, l’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, al fine di non ingannare il lettore a lasciarsi suggestionare dal tono con cui viene comunicata l’informazione) ed, infine, evitare insinuazioni più o meno velate.

A fondamento dei suesposti principi si è ritenuto diffamatorio l’accostamento, sia pure a scopo esemplificativo, del nome di un soggetto, coinvolto in un procedimento giudiziario, con quello di altri soggetti la cui responsabilità sia stata giudizialmente accertata, omettendo la circostanza dell’avvenuto proscioglimento del primo.

Tanto chiarito risulta possibile fare cronaca giornalistica su degli avvenimenti che riguardano un’altra persona, anche se mettono in luce la riprovevolezza della condotta, purché le informazioni siano vere e ci siano degli interessi pubblici a voler apprendere la notizia (c.d. utilità sociale).

La cronaca rappresenta, quindi, il riportare avvenimenti così come si sono verificati nella realtà, anche se quest’ultimi ledono la dignità morale di una o più persone, purché sussista la verità fattuale e l’utilità sociale, ovvero un’informazione rilevante per la vita pubblica.

Accanto a tali presupposti deve esserci il carattere della pertinenza dell’informazione, in quanto se il giornalista vuole porre l’accento su un determinato aspetto della notizia lo può fare, ma nei limiti in cui tale circostanza si rilevi pertinente con l’informazione stessa, in modo da assumere i connotati di una precisazione attinente all’interesse pubblico del fatto di cronaca descritto.

Inoltre l’ulteriore regola che il giornalista deve rispettare è rappresentata dalla continenza, ovvero il modo e il tono utilizzato nella narrazione del fatto. Tale espressione deve essere conforme ad una modalità di esposizione consona che eviti di ledere l’altrui reputazione, tranne se tale circostanza si rilevi necessaria per rappresentare al pubblico la verità della notizia.

Ne consegue che se il giornalista, nella narrazione del fatto, mette in luce l’oggettività di un reato grave lo deve fare in maniera continente e, in tale circostanza, seppur vero che viene lesa la reputazione della persona, comunque, si rileva inevitabile per portare alla conoscenza della collettività una notizia pertinente, in virtù del principio costituzionale di libertà sancito dall’articolo 21 e posto a fondamento del diritto d’informazione: verità con tutti e per tutti.

Alla base del suesposto ragionamento vi è una storica pronuncia giurisprudenziale (c.d. sentenza decalogo) ad opera della Suprema Corte di Cassazione, la numero 5259 del 18 ottobre 1984, la quale ha affrontato le problematiche relative al diritto di cronaca stabilendo il c.d. decalogo del giornalista[2], anche se proprio un decalogo non è poiché i paletti fissati dai giudici di legittimità sono soltanto tre e non dieci:

1) Verità dei fatti (oggettiva o putativa);

2) Interesse pubblico alla notizia (utilità sociale);

3) Continenza formale in un’esposizione dei fatti che si rilevi corretta e civile.

Di conseguenza la mancanza di uno dei tre suddetti requisiti enunciati fa venir meno l’esigenza informativa e il diritto di manifestazione del pensiero (ai sensi dell’articolo 21 della Costituzione) in favore della tutela della pari dignità sociale di tutti gli individui (ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione).

Ciò posto, la critica, al contrario della cronaca, rappresenta l’interpretazione dei fatti e di comportamenti che deve essere necessariamente soggettiva per sua natura, cioè corrispondente al punto di vista di chi la manifesta. A riguardo è possibile distinguere due tipologie di critica: teorica (limitata a considerazioni teoriche che prescindono dal riferimento a fatti o persone) e fattuale (legata alla cronaca, ovvero alla narrazione di fatti storicamente avvenuti).

Orbene, se la prima forma di critica (c.d. teorica) non incontra limiti di sorta, la seconda che riguarda essenzialmente il caso di specie, fondandosi su fatti storici, può ledere l’onore o la reputazione di coloro ai quali i fatti stessi si riferiscono. Al contrario di quest’ultime due tipologie, la critica politica si colloca in un terzo tassello, ove la giurisprudenza, pur prendendo atto della tendenza all’utilizzo di un linguaggio aggressivo e meno corretto di quello in uso fino a qualche ventennio addietro, esclude la legittimità di una forma di critica che trascenda in attacchi personali diretti a colpire il soggetto criticato senza alcuna finalità di interesse pubblico.

A ben guardare, le linee guida a cui il giornalista deve ispirarsi ed è obbligato ad osservare riguardano la pertinenza dei fatti narrati rispetto all’interesse pubblico della loro conoscenza: dalla verità dei fatti alla correttezza della forma espositiva.

Ad ogni buon conto la giurisprudenza ha precisato che il riportare in un giornale le dichiarazioni del soggetto intervistato (qualora esse siano di contenuto ingiurioso o diffamatorio) non integra di per sé la scriminante del diritto di cronaca. Sennonché, il giornalista che assume una posizione imparziale può essere, tuttavia, giustificato quando il contesto e la natura dell’intervista presentano profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva.

Il nostro ordinamento giuridico accoglie, in ambito penale, una concezione di antigiuridicità formale-sostanziale, qualificandola in termini di contrasto tra fatto e norma. A riguardo giova rilevare che le c.d. cause di giustificazione o scriminanti sono particolari situazioni in presenza delle quali una condotta che altrimenti costituirebbe reato diventa lecita in presenza di quanto la legge impone o consente.

L’articolo 51 del codice penale qualifica la scriminante del giornalista come l’aver agito nell’esercizio di un diritto ovvero nell’adempimento di un dovere, se riporta espressioni offensive pronunciate dall’intervistato all’indirizzo di altri.

Ad ogni buon conto persiste sempre e comunque il dovere di verificare-controllare la veridicità delle circostanze e la continenza delle espressioni riferite. Ne consegue che la predetta circostanza esimente non potrà essere riconosciuta nei confronti del giornalista che avrà riportato notizie non vere.

Una delle varie situazioni previste nell’ambito delle circostanze scriminanti che in questa fattispecie ci occupa riguarda il diritto di cronaca e critica giornalistica.

Il diritto di critica non trova allocazione nella scriminante del legittimo esercizio dell’attività giornalistica, allorquando, l’uso di espressioni ed opinioni si riversa su fatti non accertati ledendo, difatti, la reputazione e l’onore del soggetto destinatario della critica. A riguardo giova rilevare come il mancato riconoscimento della scriminante prevista all’articolo 51, qualificata come legittimo esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, non trova la sua applicazione vista la mancata connessione veritiera tra i fatti narrati e l’opinione critica mossa nei riguardi dei soggetti presumibilmente coinvolti. A ciò si aggiunga che la verità putativa non assolve in pieno la condotta posta in essere dal soggetto agente, il quale non adempie secondo diligenza professionale (ai sensi dell’articolo 1176, secondo comma, del codice civile) se non procede all’accertamento dell’informazione appresa, in quanto il giornalista è tenuto sempre e comunque a verificare fonti e notizia al fine di fornire una corretta informazione ai cittadini. Infatti la libera manifestazione del pensiero (ai sensi dell’articolo 21 della Costituzione) non è esente dai limiti imposti nel pieno rispetto dell’onore, reputazione e dignità degli individui (ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione).

A ben guardare la sussistenza della scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca impone a carico del giornalista il controllo e la verifica fattuale delle informazioni oggetto della narrativa, al fine di poter salvaguardare la verità obiettiva della notizia riportando un rapporto completo sull’accaduto. Infatti circostanze inesatte riportate negli articoli non assurgono al dovere di cronaca e ne tantomeno al diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, in quanto vengono riferiti aspetti generali e descrizione tendenziose non combacianti con i caratteri della verità obiettiva.

In tale prospettiva il fatto narrato dal giornalista è produttivo di danno, ove caso per caso occorre stabilire se la discrasia tra la verità oggettiva ed i fatti esposti nell’articolo creino reale offesa all’onore e all’altrui reputazione. A tal proposito il rapporto eziologico[3] tra causa ed evento ha visto, nel corso degli anni, l’evoluzione giurisprudenziale rivolta non più a ritenere sussistente il nesso causale sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accetti che, ipotizzandosi come avvenuta la condotta posta in essere dal giornalista sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi con elevato grado di credibilità razionale, l’evento non avrebbe avuto luogo, ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Sennonché il codice civile italiano è privo di una definizione legislativa di causalità, nonché di coordinate precise sui criteri con cui procedere all’accertamento del rapporto tra causa ed evento a seguito di pubblicazione della notizia. A tal proposito, si è prontamente considerato che se la causalità penale richiede la dimostrazione a carico dell’accusa che l’evento sia addebitabile alla condotta dell’agente secondo criteri prossimi alla certezza, in ambito civile è possibile, invece, un temperamento. Eppur vero che i casi di specie vanno, sempre e comunque, adeguati alla specificità della responsabilità civile, rispetto a quella penale, perché muta la regola probatoria. D’altronde se nel processo penale vige la regola della prova «oltre ogni ragionevole dubbio», al contrario, nel processo civile vale la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non».

Alla luce di quanto sopra emerso, tout court, la Suprema Corte di Cassazione si è dovuta pronunciare su di una fattispecie ricorrente e delicata.

Nel corso degli anni i costanti insegnamenti della giurisprudenza hanno saputo colmare un vuoto legislativo nell’ambito di una particolare tematica concernente il diritto dei mezzi di comunicazione.

Certamente la regolamentazione nell’attività giornalistica lanciata dalla famosa sentenza decalogo nell’anno 1984 ha saputo disciplinare casi complessi e numerosi.

Ne consegue che, secondo tale impostazione, non si può far a meno di considerare l’incidenza dell’obbligo di informare e, allo stesso tempo, di tutelare il diritto alla riservatezza e all’altrui reputazione. Tali elementi convivono in uno strettissimo scenario dove il concetto di verità deve essere per tutti, oltreché rappresentare l’obiettivo primario per il giornalista nell’attività professionale.

[1] Cfr. Cass. Civ., sez. I, n. 5259/1984; depositata il 18 ottobre (c.d. sentenza decalogo).

[2] S. Sica, V. Zeno-Zenchovich, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, quarta edizione, Wolters Kluwer CEDAM, Padova, 2015.

[3] Sul problema giuridico della causalità si vedano le fondamentali ricostruzioni F. Antolisei, Il rapporto di causalità nel diritto penale, Torino, 1934, rist. 1960; F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, seconda edizione, Milano, 2000; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987; G. Fiandaca, Causalità (rapporto di), voce Dig. Pen., III, 1988,  455; M. Maiwald, Causalità e diritto penale, Milano, 1999; più in generale: K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino, 1970; C. G. Hempei, Filosofia delle scienze naturali, Bologna, 1968; P. Trimarchi, Causalità e danno, Milano, 1966, 35; F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1997,  173; F. Stella, Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 767; in generale, sui rapporti tra ragionamento sul nesso di causalità e regole del giudizio, vedi G. Canzio, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. e processo, 2003, 1193.

La sentenza in commento focalizza la propria attenzione sull’equa valutazione e bilanciamento della critica giornalistica nell’ambito di una delicata materia attinente al diritto dei mezzi di comunicazione.

Il caso riguarda la pubblicazione di due rispettivi articoli giornalistici, contraddistinti da una critica fattuale, i quali hanno provocato la lesione alla reputazione e all’onore del destinatario della notizia.

Nel merito il tribunale in prima istanza accoglie la domanda risarcitoria condannando in solido sia i giornalisti autori delle due rispettive pubblicazioni, sia il gruppo editoriale al riconoscimento di una cospicua somma di denaro in favore del soggetto danneggiato. Successivamente la Corte di appello riforma la decisione del giudice di prime cure riconoscendo la scriminante del giornalista evidenziando, oltretutto, come la verità nella critica giornalistica non deve essere necessariamente obiettiva ma anche putativa.    

La questione approda dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione che accoglie la domanda del ricorrente valutando alla base del diritto di critica un equo bilanciamento, ove l’opinione personale dei giornalisti non può essere espressa in merito a fatti di cui non è stata accertata la verità obiettiva e, pertanto, in tale fattispecie non può operare la scriminante del giornalista.

In via preliminare si rende necessario richiamare i principi costituzionali che dettano le linee guida da seguire in tema di diritto, informazione e comunicazione. Infatti, l’articolo 15 esamina i concetti di libertà e segretezza della corrispondenza, tra loro connessi, in quanto la libertà della comunicazione deve necessariamente accompagnarsi dalla garanzia della riservatezza, anche della fonte, qualora quest’ultima lo richieda.

Il successivo articolo 21 concerne la libertà di manifestare il proprio pensiero, quest’ultimo posto alla base del diritto all’informazione. Ciò rappresenta il fondamentale presidio alle libertà democratiche, ma non vi è dubbio che tale esercizio incorra in una serie di limiti, in quanto non deve violare il diritto di pari dignità sociale sancito dall’articolo 2 della medesima Carta Costituzionale. A tal fine si evidenzia che il pluralismo dei mezzi di comunicazione rivela un diritto costituzionalmente garantito, poiché i cittadini devono conoscere idee ed opinioni differenti e, pertanto, nell’anno 1997 l’istituzione dell’Autorità per garanzie nelle comunicazioni è risultata funzionale a preservare tale diritto, oltreché assurgere compiti di regolazione nel settore assorbendo le medesime funzioni svolte in passato dal Garante per l’editoria.

Ne consegue che, secondo tale prospettazione, l’interesse dei cittadini ad essere pienamente e correttamente informati su tutte le notizie contraddistinte dall’utilità sociale rappresenta un diritto costituzionalmente riconosciuto nel nostro ordinamento. A riguardo l’articolo 21 mira a tutelare l’informazione con lo scopo di evitare controlli di polizia sulla stessa e, pertanto, non vi è alcun consenso preventivo alla pubblicazione.

Tanto chiarito occorre evidenziare che la libertà di manifestare il proprio pensiero viene intesa anche come diritto di utilizzare ogni mezzo per informare la cittadinanza, purché la notizia riportata rispetti il famoso decalogo del giornalista. 

Negli anni ’80 del secolo scorso la giurisprudenza[1] pone determinati limiti al diritto di cronaca, al fine di evitare che l’esercizio dello stesso sfoci nella lesione dell’onore o dell’altrui reputazione. Ciò posto, le regole fissate, alle quali deve attenersi il giornalista nell’espletamento dell’attività informativa sono le seguenti: l’utilità sociale dell’informazione, verità dei fatti esposti (non possono essere date notizie da fonti ufficiali che si rivelino di natura diffamatoria) e forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione (c.d. clausola di continenza che deve sempre contraddistinguere l’obiettività della notizia).

Ne consegue che non devono sussistere difetti di chiarezza da parte del giornalista, il quale non deve mai fare ricorso a subdoli espedienti come il sottinteso sapiente (uso di espressioni tendenziose che possono essere interpretate dal lettore in maniera diversa o, addirittura, contraria al loro significato letterale), tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli, o addirittura, l’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, al fine di non ingannare il lettore a lasciarsi suggestionare dal tono con cui viene comunicata l’informazione) ed, infine, evitare insinuazioni più o meno velate.

A fondamento dei suesposti principi si è ritenuto diffamatorio l’accostamento, sia pure a scopo esemplificativo, del nome di un soggetto, coinvolto in un procedimento giudiziario, con quello di altri soggetti la cui responsabilità sia stata giudizialmente accertata, omettendo la circostanza dell’avvenuto proscioglimento del primo.

Tanto chiarito risulta possibile fare cronaca giornalistica su degli avvenimenti che riguardano un’altra persona, anche se mettono in luce la riprovevolezza della condotta, purché le informazioni siano vere e ci siano degli interessi pubblici a voler apprendere la notizia (c.d. utilità sociale).

La cronaca rappresenta, quindi, il riportare avvenimenti così come si sono verificati nella realtà, anche se quest’ultimi ledono la dignità morale di una o più persone, purché sussista la verità fattuale e l’utilità sociale, ovvero un’informazione rilevante per la vita pubblica.

Accanto a tali presupposti deve esserci il carattere della pertinenza dell’informazione, in quanto se il giornalista vuole porre l’accento su un determinato aspetto della notizia lo può fare, ma nei limiti in cui tale circostanza si rilevi pertinente con l’informazione stessa, in modo da assumere i connotati di una precisazione attinente all’interesse pubblico del fatto di cronaca descritto.

Inoltre l’ulteriore regola che il giornalista deve rispettare è rappresentata dalla continenza, ovvero il modo e il tono utilizzato nella narrazione del fatto. Tale espressione deve essere conforme ad una modalità di esposizione consona che eviti di ledere l’altrui reputazione, tranne se tale circostanza si rilevi necessaria per rappresentare al pubblico la verità della notizia.

Ne consegue che se il giornalista, nella narrazione del fatto, mette in luce l’oggettività di un reato grave lo deve fare in maniera continente e, in tale circostanza, seppur vero che viene lesa la reputazione della persona, comunque, si rileva inevitabile per portare alla conoscenza della collettività una notizia pertinente, in virtù del principio costituzionale di libertà sancito dall’articolo 21 e posto a fondamento del diritto d’informazione: verità con tutti e per tutti.

Alla base del suesposto ragionamento vi è una storica pronuncia giurisprudenziale (c.d. sentenza decalogo) ad opera della Suprema Corte di Cassazione, la numero 5259 del 18 ottobre 1984, la quale ha affrontato le problematiche relative al diritto di cronaca stabilendo il c.d. decalogo del giornalista[2], anche se proprio un decalogo non è poiché i paletti fissati dai giudici di legittimità sono soltanto tre e non dieci:

1) Verità dei fatti (oggettiva o putativa);

2) Interesse pubblico alla notizia (utilità sociale);

3) Continenza formale in un’esposizione dei fatti che si rilevi corretta e civile.

Di conseguenza la mancanza di uno dei tre suddetti requisiti enunciati fa venir meno l’esigenza informativa e il diritto di manifestazione del pensiero (ai sensi dell’articolo 21 della Costituzione) in favore della tutela della pari dignità sociale di tutti gli individui (ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione).

Ciò posto, la critica, al contrario della cronaca, rappresenta l’interpretazione dei fatti e di comportamenti che deve essere necessariamente soggettiva per sua natura, cioè corrispondente al punto di vista di chi la manifesta. A riguardo è possibile distinguere due tipologie di critica: teorica (limitata a considerazioni teoriche che prescindono dal riferimento a fatti o persone) e fattuale (legata alla cronaca, ovvero alla narrazione di fatti storicamente avvenuti).

Orbene, se la prima forma di critica (c.d. teorica) non incontra limiti di sorta, la seconda che riguarda essenzialmente il caso di specie, fondandosi su fatti storici, può ledere l’onore o la reputazione di coloro ai quali i fatti stessi si riferiscono. Al contrario di quest’ultime due tipologie, la critica politica si colloca in un terzo tassello, ove la giurisprudenza, pur prendendo atto della tendenza all’utilizzo di un linguaggio aggressivo e meno corretto di quello in uso fino a qualche ventennio addietro, esclude la legittimità di una forma di critica che trascenda in attacchi personali diretti a colpire il soggetto criticato senza alcuna finalità di interesse pubblico.

A ben guardare, le linee guida a cui il giornalista deve ispirarsi ed è obbligato ad osservare riguardano la pertinenza dei fatti narrati rispetto all’interesse pubblico della loro conoscenza: dalla verità dei fatti alla correttezza della forma espositiva.

Ad ogni buon conto la giurisprudenza ha precisato che il riportare in un giornale le dichiarazioni del soggetto intervistato (qualora esse siano di contenuto ingiurioso o diffamatorio) non integra di per sé la scriminante del diritto di cronaca. Sennonché, il giornalista che assume una posizione imparziale può essere, tuttavia, giustificato quando il contesto e la natura dell’intervista presentano profili di interesse pubblico all’informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva.

Il nostro ordinamento giuridico accoglie, in ambito penale, una concezione di antigiuridicità formale-sostanziale, qualificandola in termini di contrasto tra fatto e norma. A riguardo giova rilevare che le c.d. cause di giustificazione o scriminanti sono particolari situazioni in presenza delle quali una condotta che altrimenti costituirebbe reato diventa lecita in presenza di quanto la legge impone o consente.

L’articolo 51 del codice penale qualifica la scriminante del giornalista come l’aver agito nell’esercizio di un diritto ovvero nell’adempimento di un dovere, se riporta espressioni offensive pronunciate dall’intervistato all’indirizzo di altri.

Ad ogni buon conto persiste sempre e comunque il dovere di verificare-controllare la veridicità delle circostanze e la continenza delle espressioni riferite. Ne consegue che la predetta circostanza esimente non potrà essere riconosciuta nei confronti del giornalista che avrà riportato notizie non vere.

Una delle varie situazioni previste nell’ambito delle circostanze scriminanti che in questa fattispecie ci occupa riguarda il diritto di cronaca e critica giornalistica.

Il diritto di critica non trova allocazione nella scriminante del legittimo esercizio dell’attività giornalistica, allorquando, l’uso di espressioni ed opinioni si riversa su fatti non accertati ledendo, difatti, la reputazione e l’onore del soggetto destinatario della critica. A riguardo giova rilevare come il mancato riconoscimento della scriminante prevista all’articolo 51, qualificata come legittimo esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, non trova la sua applicazione vista la mancata connessione veritiera tra i fatti narrati e l’opinione critica mossa nei riguardi dei soggetti presumibilmente coinvolti. A ciò si aggiunga che la verità putativa non assolve in pieno la condotta posta in essere dal soggetto agente, il quale non adempie secondo diligenza professionale (ai sensi dell’articolo 1176, secondo comma, del codice civile) se non procede all’accertamento dell’informazione appresa, in quanto il giornalista è tenuto sempre e comunque a verificare fonti e notizia al fine di fornire una corretta informazione ai cittadini. Infatti la libera manifestazione del pensiero (ai sensi dell’articolo 21 della Costituzione) non è esente dai limiti imposti nel pieno rispetto dell’onore, reputazione e dignità degli individui (ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione).

A ben guardare la sussistenza della scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca impone a carico del giornalista il controllo e la verifica fattuale delle informazioni oggetto della narrativa, al fine di poter salvaguardare la verità obiettiva della notizia riportando un rapporto completo sull’accaduto. Infatti circostanze inesatte riportate negli articoli non assurgono al dovere di cronaca e ne tantomeno al diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, in quanto vengono riferiti aspetti generali e descrizione tendenziose non combacianti con i caratteri della verità obiettiva.

In tale prospettiva il fatto narrato dal giornalista è produttivo di danno, ove caso per caso occorre stabilire se la discrasia tra la verità oggettiva ed i fatti esposti nell’articolo creino reale offesa all’onore e all’altrui reputazione. A tal proposito il rapporto eziologico[3] tra causa ed evento ha visto, nel corso degli anni, l’evoluzione giurisprudenziale rivolta non più a ritenere sussistente il nesso causale sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accetti che, ipotizzandosi come avvenuta la condotta posta in essere dal giornalista sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi con elevato grado di credibilità razionale, l’evento non avrebbe avuto luogo, ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Sennonché il codice civile italiano è privo di una definizione legislativa di causalità, nonché di coordinate precise sui criteri con cui procedere all’accertamento del rapporto tra causa ed evento a seguito di pubblicazione della notizia. A tal proposito, si è prontamente considerato che se la causalità penale richiede la dimostrazione a carico dell’accusa che l’evento sia addebitabile alla condotta dell’agente secondo criteri prossimi alla certezza, in ambito civile è possibile, invece, un temperamento. Eppur vero che i casi di specie vanno, sempre e comunque, adeguati alla specificità della responsabilità civile, rispetto a quella penale, perché muta la regola probatoria. D’altronde se nel processo penale vige la regola della prova «oltre ogni ragionevole dubbio», al contrario, nel processo civile vale la regola della preponderanza dell’evidenza o del «più probabile che non».

Alla luce di quanto sopra emerso, tout court, la Suprema Corte di Cassazione si è dovuta pronunciare su di una fattispecie ricorrente e delicata.

Nel corso degli anni i costanti insegnamenti della giurisprudenza hanno saputo colmare un vuoto legislativo nell’ambito di una particolare tematica concernente il diritto dei mezzi di comunicazione.

Certamente la regolamentazione nell’attività giornalistica lanciata dalla famosa sentenza decalogo nell’anno 1984 ha saputo disciplinare casi complessi e numerosi.

Ne consegue che, secondo tale impostazione, non si può far a meno di considerare l’incidenza dell’obbligo di informare e, allo stesso tempo, di tutelare il diritto alla riservatezza e all’altrui reputazione. Tali elementi convivono in uno strettissimo scenario dove il concetto di verità deve essere per tutti, oltreché rappresentare l’obiettivo primario per il giornalista nell’attività professionale.

[1] Cfr. Cass. Civ., sez. I, n. 5259/1984; depositata il 18 ottobre (c.d. sentenza decalogo).

[2] S. Sica, V. Zeno-Zenchovich, Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, quarta edizione, Wolters Kluwer CEDAM, Padova, 2015.

[3] Sul problema giuridico della causalità si vedano le fondamentali ricostruzioni F. Antolisei, Il rapporto di causalità nel diritto penale, Torino, 1934, rist. 1960; F. Stella, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, seconda edizione, Milano, 2000; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1987; G. Fiandaca, Causalità (rapporto di), voce Dig. Pen., III, 1988,  455; M. Maiwald, Causalità e diritto penale, Milano, 1999; più in generale: K. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino, 1970; C. G. Hempei, Filosofia delle scienze naturali, Bologna, 1968; P. Trimarchi, Causalità e danno, Milano, 1966, 35; F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, Padova, 1997,  173; F. Stella, Etica e razionalità del processo penale nella recente sentenza sulla causalità delle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 767; in generale, sui rapporti tra ragionamento sul nesso di causalità e regole del giudizio, vedi G. Canzio, Prova scientifica, ragionamento probatorio e libero convincimento del giudice nel processo penale, in Dir. pen. e processo, 2003, 1193.