Le anime buone
Ritorna il Vietnam. Anzi, propriamente sarebbe il caso di dire che viene, dal momento che i profughi, risospinti dalle risacche di tanti rifiuti, minacciano di approdare ai lidi che, da Enea in poi, si sono pericolosamente gonfiati. Proprio per questo, si dice, siamo già in sessanta milioni, chi volete che se ne accorga, se aggiungiamo cinquantamila vietnamiti? Siamo un paese ospitale, non abbiamo mai detto di no al viandante che chiedeva pane e un giaciglio, ci si stringe un poco, c’è posto per tutti. Il sociologo Alberoni intima: “Non è possibile aspettare”, e propone intanto che i giornali e la Rai raccolgano “firme e sottoscrizioni”. Infine invoca un “Comitato di mobilitazione” coi rappresentanti dei partiti, dei sindacati e “alcuni intellettuali”.
Confesso che tremo. Le raffiche dei terroristi, le bombe dei dinamitardi, non m’impauriscono quanto le anime buone, o sedicenti tali, quando decidono di mobilitarsi. Il sociologo Alberoni coltiva, all’esteriore aspetto, una testa che ricorda il ritratto che Girodet dipinse a Chateaubriand, sullo sfondo del Colosseo. Gli stessi capelli spettinati e aggettanti, come sospinti da un immaginario vento di retro. Dentro quella testa, che cosa ci sia, mi riesce più difficile a capire. Le anime buone sono insondabili, e non riposano mai. Cavalcando la parola d’ordine dell’ora, l’orrore e il genocidio, l’olocausto e la fame, sbraitano, piangono, invocano comitati di salute planetaria, col risultato oggettivo d’imbrogliare ancor più problemi angosciosi con richieste di soluzioni astrarre e impossibili, ma con l’indiscutibile risultato personale d’esser sempre sulla cresta della coscienza universale.
Ma poi, leggo gli appelli e le firme di quelli che più si agitano, e mi par che siano gli stessi che sette, otto, dieci anni fa, più rumorosamente si affiancavano ai comunisti in comitati, marce e appelli alla coscienza universale, per condannare la “guerra di aggressione americana in Vietnam”. La coscienza democratica universale delle anime buone strepitava, anche allora, che non si poteva “aspettare oltre”, ed urgeva una grande “mobilitazione popolare” con rappresentanti dei partiti, delle chiese, dei sindacati e degli intellettuali, per intimare agli americani l’immediato sgombero, affinché il martoriato paese, finalmente libero, potesse riunirsi sotto l’illuminato governo, che non sarebbe stato composto, macché, di soli comunisti; bensì di liberali, buddisti, socialisti e pacifisti, idilliaco pluralismo, immancabile sulle putrefatte rovine della corruzione di Van Thieu.
E’ curioso, come nessuno di costoro metta nella dovuta relazione di causa ed effetto la “liberazione” del maggio 1975 e l’odierno peregrinare delle torme disperate per i mari del Sud-Est asiatico: respinte coma la peste da popoli che non riescono a nutrire se stessi, e giustamente paventano l’assalto al desco domestico da parte di nuovi inquilini, che a noi fanno una doverosa pietà, ma che, nei dintorni di casa loro, sono conosciuti per il carattere orgoglioso, prepotente e tenace. Senza dire che la maggior parte di costoro non sono neppur vietnamiti, ma cinesi della minoranza addensata a Cholon, perseguitata dai nuovi padroni rossi, ferocemente razzisti come dappertutto i regimi comunisti. Nessuno riconosce che la soluzione giusta sarebbe stata la vittoria del regime libero di Saigon, quale l’intervento americano voleva assicurare, e quale fu impedita dalla mobilitazione della coscienza democratica universale, che fiaccò il morale dell’America, imponendole di accettare, a Washington, una sconfitta che non aveva mai subito sul terreno indocinese. Ecco tutto.
Nessuno dice, neppure, che trattandosi di cinesi dovrebbe prenderseli la Cina, e che, in ogni caso, l’idea di accoglierli in Europa, o in Italia, è demagogica e matta. Non soltanto per la buona ragione che un paese che non ha ancora guarito le piaghe del Belice e del Friuli, non può importarne un’altra di pari proporzioni, e già confezionata. “Palermo annega nei rifiuti”, dice un titolo, e un altro riassume la storia di sei malati di mente, “nell’allucinante ricerca di un ricovero, vagabondi con l’infermiere per tre giorni a Napoli”. È lo stesso giornale da cui il sociologo Alberoni intima di trovare ricovero a cinquantamila vietnamiti. Questo tipo di pietà non commuove, disgusta.
Senza dire che, se proprio riuscissero a farceli venire, importeremmo un seme di future guerre civili ancora inedito da noi, una questione razziale. Cinquantamila adesso, e poi, combinando il loro infernale tasso di riproduzione col segnalato declino demografico italiano, un milione di asiatici alla fine del secolo, finché tra cent’anni, i venti milioni di cinesi d’Italia reclameranno l’unione della terra che abiteranno alla madre patria asiatica. Credete che scherzi? In Inghilterra, davano dello scemo a un lord conservatore che, dopo la fine della guerra, ammoniva contro il pericolo rappresentato dall’immigrazione di “qualche migliaio” di poveri pakistani, avvertendo che rea quello il modo di tirarsi in casa una questione razziale non più giustificata neppure dal possesso di un impero, che non c’era più. Anche gli schiavi negri furono portati negli Stati Uniti a poce centinaia per volta, ed ora, dopo uno o due secoli, sono il quindici per cento della popolazione. Andate a domandare a un americano bianco provvisto di senso comune se, con tutto il rispetto per l’antirazzismo sempre sacrosanto, non tornerebbe indietro, se si potesse.
Da “Il Giornale”, 22 giugno 1979