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Migrazioni   di   massa   e   Criminologia

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Migrazioni   di   massa   e   Criminologia

La nozione di “migrazione di massa”

Sotto il profilo statistico, United Nations (2016)[1] attesta che “un numero senza precedenti di persone è attualmente in movimento attorno al mondo […]. A livello globale, una ogni 122 persone è un rifugiato, uno sfollato o un richiedente asilo. Mentre la maggior parte di queste persone resta in aree prossime alla loro madre patria, alcuni cercano sicurezza e opportunità in Paesi molto distanti”. Tendenzialmente, gli Stati occidentali mettono quasi sempre in atto politiche di respingimento nei confronti degli immigrati. P.e., nell'UE, attualmente predomina un generale sfavore nei confronti delle migrazioni di massa, soprattutto a causa dell'odierna recessione che ha colpito i Paesi comunitari. Anzi, si sono talvolta verificate vere e proprie crisi diplomatiche, come dimostrano i casi degli USA e dell'Australia, in cui, negli ultimi anni, lo straniero è percepito alla stregua di un nemico sociale.

Entro tale contesto xenofobo globale, purtroppo e di nuovo, gli Ordinamenti giuridici hanno reagito con la Giuspenalistica, come se il Diritto Penale potesse risolvere i problemi legati ai flussi migratori. A tal proposito, pertinentemente, Aliverti (2013)[2] osserva che “il Diritto Penale non è rimasto immune a questi sviluppi. Molte giurisdizioni hanno creato nuove figure di reato connesse all'immigrazione”. Similmente, Stumpf (2006)[3] ha rimarcato l'estendersi di un sempre più diffuso razzismo, in tanto in quanto “la polizia ha acquisito nuovi ruoli e responsabilità nel determinare la nazionalità di sospetti autori di reato e nell'implementare le normative sull'immigrazione dentro e oltre i confini”. In effetti, tale osservazione di Stumpf (ibidem) è conforme al vero, giacché la PG, di solito, tende a politicizzarsi nel nome di un'esasperata ed ipertrofica difesa dei confini nazionali. Anzi, sotto il profilo criminologico, lo straniero viene sovente percepito come un potenziale infrattore dell'ordine costituito, tant'è che, come afferma Campesi (2015)[4] “si sono moltiplicati i nuovi spazi detentivi all'interno dei quali i trasgressori [alle leggi sull'immigrazione] vengono posti per facilitare la loro identificazione ed espulsione”. In epoca attuale, in effetti, il migrante clandestino viene equiparato ad un criminale munito di un'elevata pericolosità anti-sociale. Ossia, in maniera pressoché automatica, lo straniero è etichettato come un deviante propenso alla delinquenza. Chi non è autoctono viene irragionevolmente considerato alla pari di un pericoloso nemico della pace collettiva.

Tale diffidenza criminologica verso lo straniero è assai diffusa nel nordamerica. P.e., Eagly (2013)[5] riferisce che “attualmente, negli USA, i procedimenti giudiziari correlati all'immigrazione superano in numero quelli per i reati federali, inclusi i processi per droga e armi; mentre l'Ufficio Immigrazione e Dogana appare oggi il più largo ramo investigativo dell'US Department of Homeland Security, l'equivalente del Ministero degli Interni”. Anche molti altri Autori notano che, negli USA ed in tutto l'Occidente industrializzato, il Diritto Penale si sta trasformando in una chiave di lettura universale, come se i luoghi di detenzione potessero risolvere il problema dei flussi migratori. Viceversa, l'abuso del campo precettivo penalistico trasforma l'Ordinamento giuridico in un Leviatano che tratta la tematica dell'immigrazione con un approccio a-tecnico e privo di qualsivoglia umanità. La Giuspenalistica non può e non deve criminalizzare lo spostamento geografico di massa di chi fugge da guerre e povertà.

La situazione non è per nulla migliore in Europa, in tanto in quanto, come notato da Mutsaers (2014)[6], “ovunque i Paesi membri hanno criminalizzato almeno un qualche aspetto dell'immigrazione, rendendo più difficile l'arrivo e la permanenza legale delle persone”. Nell'UE predomina l'impiego a-tecnico ed abnorme delle disposizioni penali in tema di immigrazione, ovverosia, come riferisce Flynn (2014)[7] “i Paesi [europei] hanno creato reti di centri per la detenzione amministrativa degli immigrati, posti all'interno del proprio territorio ed in territori off-shore, mentre hanno esteso i loro poteri di espulsione degli indesiderati”. Oltretutto, giustamente, non è mancato chi ha fatto notare la a-tipicità a-tecnica della detenzione amministrativa, la quale non reca la normale, nonché indispensabile funzione rieducativa che deve sempre accompagnare qualsivoglia forma di restrizione della libertà personale. A tal proposito, acutamente Aas & Bosworth (2013)[8] osservano che “mentre un numero sempre crescente di stranieri finisce in prigione e gli Stati perseguono con vigore nuove forme di confinamento ed espulsione, i distinti rami della pena e della sanzione amministrativa si confondono”. D'altra parte, anche nella fattispecie della Legislazione italiana, la detenzione amministrativa dello straniero non è compatibile con la suprema ratio riabilitativa ex comma 3 Art. 27 Cost. . Amaramente, in tema di giuridificazione dei flussi migratori, Hasselberg (2016)[9] dichiara che “[...] è giunto il tempo di chiedersi se i concetti, i termini ed i metodi a noi familiari continuano ad essere efficaci. Vi è, dunque, bisogno di nuovi approcci utili a comprendere queste evoluzioni ?”

 

Il ruolo dello Stato

Come asserito da Nelken (2010)[10], la Criminologia non si è mai seriamente impegnata nel fornire una definizione esaustiva del lemma “cittadinanza”. La maggior parte dei Dottrinari si è sempre limitata ad analizzare stanchevoli Statistiche in tema di flussi migratori. Fanno eccezione Bowling & Sheptycki (2012)[11], i quali hanno approfondito i legami tra Diritto Penale e diritto alla/della cittadinanza.

Agli inizi del Novecento, nella Criminologia statunitense, soltanto la Scuola di Chicago ha analizzato il difficile rapporto tra cittadini autoctoni e residenti stranieri. P.e., Shaw & McKay (1942)[12] postulavano che “i nuovi arrivati creano comunità separate dentro la città; [Alcune città] sono maggiormente esposte [per conseguenza] alla disorganizzazione sociale. Tuttavia [successivamente e spontaneamente, ndr] gli individui ed i gruppi si integrano”. Il valore positivo dell'integrazione di lungo periodo è rimarcato pure da Wirth (1928)[13], anch'egli appartenente alla Scuola di Chicago.

Per il vero, la Criminologia statunitense è stata ed è molto sensibile ai profili criminologici della cittadinanza. P.e., negli Anni Duemila, Bucerius & Tonry (2014)[14] hanno allestito uno Studio accurato sulla criminalità agita dalle minoranze etniche. Da menzionare è pure la Ricerca di Cavadino & Dignan (2005)[15], i quali hanno censito la popolazione carceraria statunitense, alla ricerca delle varie e notevoli differenze tra le diverse razze di infrattori detenuti. Non meno importanti sono le numerose Statistiche ragionate afferenti all'ambito delle prassi repressive della PG (Bowling 2010[16]; Bradford & Jauregui & Loader & Steinberg, 2016[17]). In buona sostanza, la Criminologia statunitense reca il pregio di contemplare Opere proiettate nel lungo periodo e comparanti tra di loro diversi contesti territoriali ed etnici. D'altra parte, non poteva essere diversamente in un contesto multietnico come quello statunitense. Gli USA sono il Paese dell'immigrazione per antonomasia. Anche Bosworth & Franko & Pickering (2018)[18] evidenziano la necessità di “una Criminologia della frontiera […] interdisciplinare, transnazionale, comparativa [e] attenta alle intersezioni tra giustizia penale e controllo delle migrazioni”.

L'ispanico-statunitense Sanchez (2014)[19] ricorda che la Criminologia della/sulla immigrazione non è per nulla un ambito secondario o inutile, giacché “bisogna esplorare la relazione costitutiva tra frontiere, controlli migratori e sistema penale. Bisogna concentrarsi su come e perché certe attività, come il contrabbando di esseri umani, il lavoro sessuale o la contraffazione di documenti sono stati criminalizzati. Bisogna esplorare anche le nuove forme di coercizione esercitate dallo Stato […] traendo concetti da una vasta gamma di discipline, che includono la teoria femminista, gli Studi sui rifugiati e l'immigrazione, gli Studi post-coloniali, i diritti umani, il diritto sull'immigrazione ed i rifugiati, la scienza politica e le relazioni internazionali”.

A piena ragione, Bigo (2006)[20] ha precisato che “ormai da molti anni, l'immigrazione è stata concettualizzata dalle politiche e dalle legislazioni come una potenziale minaccia ala sicurezza. Questo approccio ha finito col significare che l'asilo e le migrazioni da lavoro sono state reinterpretate come possibili vie d'accesso per terroristi stranieri, inserendole fermamente nelle discussioni e nelle politiche relative alla sicurezza nazionale”. Chi redige intende precisare che gli asserti di Bigo (ibidem) sono verificabili per l' immigrato maschio, mentre le straniere di sesso femminile, notoriamente eso-gamiche, si sottraggono più facilmente a consimili posizioni ideologiche xenofobe. Ciò, a parere di chi scrive, vale specialmente per le immigrate donne di seconda o di terza generazione. Tuttavia, a prescindere da tale dettaglio, è innegabile siffatta criminalizzazione del migrante e dell'asilante. Essa, come sostenuto da Campesi (2014)[21], discende da un impiego ipertrofico del Diritto Penale nonché da un clima di insicurezza sociale alimentato dai mass-media e figlio di un securitarismo abnorme, irrazionale e, soprattutto, politicizzato. D'altra parte, la percezione dello straniero come “nemico sociale” è presente in svariati Dottrinari. Aas (2007)[22] parla di una “mentalità governativa” che pretende un “social control” ossessivo e totalizzante. Bauman (2010)[23] parla di una “modernità” in cui l'immigrato è ridotto ad un intruso indesiderato ed indesiderabile. Pure Agamben (2003)[24] postula che il terrorismo internazionale abbia ormai recato ad uno “stato di eccezione” nel quale lo straniero costituisce inevitabilmente un pericolo per la pacifica convivenza dei consociati. Altrettanto lucidamente, Ahmed (2000)[25] spiega la xenofobia, più o meno violenta, con il fatto che “alcune persone sono considerate sacrificabili, e altre no”.

Malaugurevolmente e nonostante l' esperienza dei genocidi del Novecento, la Criminologia contemporanea prosegue nell'utilizzo del concetto populistico di “razza”. Secondo Bhui (2016)[26] le polizie di frontiera, negli Stati occidentali, recano, per la maggior parte, un approccio “razzializzante” che umilia e discrimina gli asilanti e, in genere, tutti gli stranieri emigrati in cerca di lavoro. Anche a parere di Garner (2015)[27], il tema della “razza” è fuorviante e conduce a discriminazioni irragionevoli. In effetti, Kaufman (2015)[28] giustamente ricorda ad Ordinamenti come quello francese o come quello inglese che un grande numero di migranti proviene da ex colonie il cui equilibrio macro-economico è stato alterato da decenni di prepotenze dittatoriali ed imperialistiche. Oppure ancora, Vazques (2011)[29] rimarca la pericolosità del lemma “razza”, nel senso che “[sussiste] un impatto razzialmente sproporzionato della legislazione e delle pratiche penali”. Quasi tutti i Dottrinari, soprattutto quelli di origine ispanica, invitano ad abbandonare l'orribile distinzione tra presunte “razze” umane.

Garland (1996)[30] sottolinea la non-governabilità normativa e criminologica dei flussi migratori, in tanto in quanto “[bisogna] rivisitare la relazione tra sovranità statale e giustizia penale. Non è solamente il crimine ciò che gli Stati sovrani non possono pienamente controllare, ma anche la mobilità [dei popoli]”. Anche Aas (2007) reputa inarrestabili le migrazioni, definite alla stregua di un “mezzo flessibile di allocazione” sfuggente al controllo del Diritto Penale. Anche Barker (2013)[31] parla di “questo mondo mobile globale” in cui la Giuspenalistica, comunque intesa, nulla può di fronte allo spostamento volontario di milioni di persone che cercano una vita migliore oltre i loro confini nazionali. Dunque, come si può notare, le migrazioni costituiscono un fatto storico-materiale e, soprattutto, meta-normativo. Da ciò si evince la non-onnipotenza e la non-onnipresenza del Diritto Penale, che può giuridificare ancorché non fermare i mutamenti sociali.

Pure Aliverti (2015)[32] evidenzia l inutile crudeltà ed il cinismo insiti nel trattamento giuspenalistico dell'immigrazione, ovverosia “gli stranieri non devono ricevere più il medesimo trattamento dei cittadini finiti all'interno del sistema penale. Dalle pratiche di polizia all'imprigionamento, l'enfasi sullo status di immigrato ha determinato un impatto su tutte le componenti del sistema penale. Oggi, in molti Paesi, la polizia può trattenere gli stranieri non per le eventuali attività criminali commesse, ma per le loro violazioni delle normative sull'immigrazione. Questa stessa logica spinge la polizia oltre i propri confini territoriali, verso zone poste totalmente all'esterno di essi, al fine di prevenire l'ingresso irregolare dei nati stranieri; anche di quelli che cercano di avanzare richieste di protezione umanitaria”. Pertanto, Aliverti (2015) mette in guardia dalla criminalizzazione dei “nati stranieri”, nei confronti dei quali il Diritto Penale non può avanzare alcuna pretesa. Entro un Ordinamento democratico, la sanzione penale, dunque la carcerazione, è e deve essere riservata a chi disturba la pace sociale con azioni etero-lesive. Viceversa, la ratio dei flussi migratori consta nella ricerca lecita di un lavoro e/o di una protezione internazionale umanitaria. Non ha senso, anche sotto il profilo strettamente giuridico, applicare alle migrazioni le categorie della Giuspenalistica, la quale, d'altra parte, si fonda su un principio rieducativo che nulla ha a che fare con la figura dell'immigrato o dell'asilante non etero-lesivi.

Di nuovo, dunque, si rivela la debolezza ontologico-precettiva del Diritto Penale, che non costituisce una chiave universale in grado di garantire un impeccabile “social control”. Gli strumenti rimediali penalistici presuppongono, ai fini della loro applicazione, una lesione all'ordine costituito e tale non è il caso del migrante che s'introduce nel territorio di uno Stato. Del resto, anche alla luce della ratio riabilitativa carceraria, non ha senso postulare la rieducazione dello straniero che non ha o non ha ancora commesso reati. Viceversa, sarebbe violata pure la presunzione di innocenza fino a Sentenza di condanna passata in giudicato. Soltanto un approccio a-tecnicamente populista può invocare la precettività della Giuspenalistica nei confronti del semplice immigrato che s'introduce o permane in un territorio nazionale senza delinquere. Secondo Eagly (2013), l'Inghilterra ed il Galles vivono una situazione de jure condito estremamente delicata, in tanto in quanto la Magistratura di tali Paesi strumentalizza il concetto di “nazionalità” sino a spingersi ai confini della discriminazione razziale. P.e., in Inghilterra, esistono casi di revoca della cittadinanza nei confronti di ex stranieri condannati per terrorismo internazionale. Oppure ancora, giustamente, Zedner (2010)[33] afferma con amarezza che, a causa del razzismo e dell' impiego ultra vires del Diritto Penale, “le pratiche e le nozioni di giustizia o di giusto processo, così come i vecchi principi [illuministi, ndr] sulla pena sono stati spazzati via dai discorsi sull'identità, l'identificazione e l'appartenenza”. Anche a parere di chi commenta, esistono gruppi politici che, in maniera a-tecnica, vorrebbero strumentalizzare la Procedura Penale nel nome della xenofobia e degli allarmismi sociali di origine mass-mediatica.

 

Carcere e migranti

In media, negli Stati europei, gli stranieri costituiscono il 20% di tutta la popolazione carceraria. L'incarcerazione dei non-cittadini raggiunge livelli esasperati in Svizzera (71,4%), in Lussemburgo (68,8%), a Cipro (58,9%), in Grecia (57,1%) ed in Belgio (44,2%). Notevole è pure il primato dell'Inghilterra e del Galles, che contano ben 9.400 stranieri detenuti, ovverosia l'11% del totale nazionale.

Come notato da Warr (2016)[34], il carcere è vissuto con grande dolore da parte dell'immigrato, ossia “sebbene soggetti al medesimo sistema penale della loro controparte, rappresentata da coloro in possesso della cittadinanza, i prigionieri stranieri esperiscono la detenzione in modo sempre più differente”. Più precisamente, Bhui (2007)[35] nota che “coloro che sono nati all'estero hanno spesso limitati rapporti con i membri della propria famiglia nel Paese in cui stanno scontando la pena. Ciò può influire sulla probabilità di ricevere visite o di trovare lavoro. Vi possono essere barriere legate alla lingua e altre distinzioni di natura culturale o religiosa”. Come riferisce Ugelvik (2015)[36], il Regno Unito, erroneamente, pretende di applicare con fare ossessivo la Giuspenalistica al problema dell'accoglienza, o meno, degli immigrati; per conseguenza, i penitenziari ospitano migliaia di stranieri e “a partire dal 2007, la legge inglese sulle frontiere prevede l'allontanamento per tutti gli autori di reato non appartenenti all'Area Economica Europea (EEA) che sono stati condannati a 12 mesi di pena, o le cui condanne, nell'arco dei 5 anni precedenti, ammontano a questo totale, a meno che il soggetto condannato non goda di protezione umanitaria” L'analisi di Ugelvik (ibidem) ripropone l'orrore di un Diritto Penale connotato da un campo precettivo abnormemente vasto. L'approccio criminale alle migrazioni crea solamente un trattamento penitenziario “crudele e disumano” ex Art. 3 CEDU (“nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Il carcere altro non fa se non esasperare inutilmente le sofferenze dei non-cittadini, lontani dalle famiglie e sovente condannati a pene detentive lunghe a fronte di reati bagatellari o scarsamente anti-sociali. Il trattamento penitenziario non si deve fondare su slogans provenienti da partiti politici populisti e qualunquisticamente impegnati in perenni campagne elettorali.

Sempre nel Regno Unito, la discriminazione carceraria verso i non-britannici, come riferisce Kaufman (ibidem), “[ha cambiato] l'esperienza detentiva anche per quelli che erano già reclusi. Percepiti come esposti al rischio di fuga, i rei di origine straniera incontrano adesso considerevoli barriere nell'accesso alle misure alternative. Destinati al rimpatrio, possono essere esclusi da certi programmi, dato che le limitate risorse disponibili non devono essere sprecate con coloro che non sono destinati a restare”. Anzi, come osserva Ulgevik (ibidem), in Norvegia, nel Regno Unito e negli USA, i condannati stranieri “sono concentrati in strutture riservate [a loro] dove viene offerto un regime distinto, designato a prepararli al ritorno”. Anzi, van Zyl Smit & Mulgrew (2012)[37] precisano, non senza un sottile disappunto, che “il governo britannico […] ha perseguito attivamente i trasferimenti volontari e coatti, offrendo una varietà di incentivi per l'accesso a programmi di ritorno volontario ed agli sconti di pena”.

Alla luce dell'Art. 3 CEDU in tema di divieto della tortura, è assai critico pure Kaufman (ibidem), giacché, soprattutto in Inghilterra ed in Galles, “le prigioni sono state trasformate nelle loro fondamenta [rieducative, ndr] […] La vita in prigione, per i detenuti di origine straniera, diverge da quella dei prigionieri dotati di cittadinanza e viene plasmata dall'insistenza sul rimpatrio. Per la maggior parte degli autori di reato di origine straniera, anche quelli privi di un decreto di espulsione, la vita in prigione è di gran lunga più incerta ed instabile, dato che non vi è alcuna certezza su ciò che avverrà al termine del periodo trascorso dietro le sbarre” A parere di chi redige, siffatto aumento irragionevole della sofferenza del recluso è sussumibile appieno entro il campo precettivo dell'Art. 3 CEDU. In effetti, soltanto una pena autenticamente rieducativa non è qualificabile come “inumana e degradante”. Il retribuzionismo meramente punitivo contrasta con la ratio della riabilitazione e ciò finisce per demolire trecento anni di garantismo illuminista.

 

La detenzione amministrativa dei migranti

Ancora una volta, sciaguratamente, è il regno Unito a detenere il primato europeo in fatto di migranti sottoposti a detenzione amministrativa. Nel 2015, a titolo emblematico, il sistema inglese contava 9 centri, per un totale di più di 3.000 clandestini, per lo più provenienti dalle ex colonie britanniche, oppure da Paesi colpiti da guerre civili. Gli Stati maggiormente rappresentati sono India, Pakistan, Bangladesh, Nigeria ed Albania. Esiguo è il numero degli asilanti. A seguito dell'Immigration Appeals Act del 1969, nel 1970 venne costruito, ad Harmondworth, il primo centro per la detenzione dei migranti. Tale centro, fatiscente e inadeguato, venne presentato, dal Governo dell'epoca, come una grande innovazione a beneficio del Commonwealth, ma la realtà risulta assai più prosaica. Bosworth (2014)[38] riferisce, sotto il profilo storico, che “il patrimonio contemporaneo di centri per immigrati [nel Regno Unito] deve molto al nuovo millennio, a quando cioè i governi laburisti di Blair e Brown hanno emanato nuovi tasselli legislativi in materia di immigrazione e asilo, che hanno ampliato significativamente la popolazione soggetta a detenzione ed allontanamento e fatto affidamento sul settore privato per costruire ed aprire rapidamente nuovi siti detentivi. Ogni centro è gestito da una gamma di aziende private, specializzate nella custodia (al momento, G4S, Mitie, Serco e GEO) poste sotto il controllo del Ministero degli Interni e del servizio pubblico per le prigioni (HM Prison Service)”. Per inciso, si noti che anche in Australia la detenzione amministrativa dei migranti è delegata ad imprese private, mentre nell UE predomina il monopolio pubblico delle polizie di frontiera.

Dal 2001, i centri sono stati denominati “centri di espulsione degli immigrati” (IRC). Si tratta di vere e proprie carceri, con tanto di filo spinato, cani antidroga e personale prevalentemente formato nei penitenziari ordinari. In effetti, con molto realismo, Bosworth (ibidem) osserva che “le implicazioni di questo sistema sono difficili da non vedersi. Detenuti e personale avvertono spesso di essere trattenuti, oppure di lavorare dentro una prigione. Questi non sono luoghi meramente di espulsione, ma di punizione […] E' arduo vivere o lavorare in istituzioni che sembrano, e che vengono avvertite, come prigioni, per di più in assenza di regole, regolamenti e poteri e, perciò, senza la legittimità che si cela dietro una pena formalmente applicata”. Non esiste nemmeno, per tali IRC, un Tribunale di Sorveglianza, tant'è che, come afferma Bosworth (ibidem), “la legislazione amministrativa offre minore protezione e i detenuti hanno pochi modi di contrastare il trattamento loro assegnato. Molti di essi non saranno condotti in Tribunale, e non avranno alcuna opportunità di comunicare la propria versione delle vicende che li riguardano”. Ognimmodo, di solito, il 66% dei detenuti negli IRC è rimpatriato entro 28 giorni. Il restante 33% viene allontanato entro 12 mesi. Senza dubbio, gli IRC inglesi sono frutto di un Diritto Penale che pretende di essere onnicomprensivo. D'altra parte, anche sotto il profilo del Diritto Costituzionale, è illogico sottoporre un individuo ad una restrizione della libertà personale sulla base della sola cittadinanza non autoctona, e non sulla base di un delitto. Molti Giuristi britannici spingono per ricondurre il rimpatrio dei clandestini all'alveo del Diritto Amministrativo “puro”. La detenzione, se sganciata dalla ratio rieducativa, diviene una violazione dei diritti fondamentali dell'essere umano.


Note
 

[1]United Nations, URL: www.unhcr.org 2015, consultato in data 27 Dicembre 2016

[2]Aliverti, Crimes of Mobility: Criminal Law and the Regulation of Immigration, Routledge, Abingdon, 2013

[3]Stumpf, The Crimmigration Crisis: Immigrants, Crime and Sovereign Power, in american University Law Review, 56, 2, 2006

[4]Campesi, Hidering the Deportation Machine: An Etnography of Power and Resistance in Immigration Detention, in Punishment & Society, 17, 4, 2015

[5]Eagly, Criminal Justice for Non-Citizens: An analysis of variation in law enforcement, in New York University Law Review, 88, 2013

[6]Mutsaers, An Ethographic Study of the Policing of Internal Borders in the Netherlands: Synergies Between Criminology and Anthropology, in British Journal of Criminology, 54, 5, 2014

[7]Flynn, How and Why Immigration Detention Crossed the Globe, Global Detention Project Working Paper Series, Geneva: Global Detention Project, 2014

[8]Aas & Bosworth, (a cura di), The Borders of Punishment: Citizenship Crime Control, and Social Exclusion, Oxford University Press, Oxford, 2013

[9]Hasselberg, Enduring Uncertainty Deportation, Punishment and Everyday Life, Berghahn, London, 2016

[10]Nelken, Comparative Criminal Justice: Making Sense of Difference, Sage, London, 2010

[11]Bowling & Sheptycki, Global Policing, Sage, London, 2012

[12]Shaw & McKay, Juvenile Delinquency and Urban Areas: A Study of Rates of Delinquent in Relation in Differential Characteristics of Local Communities in American Cities, University of Chicago Press, Chicago, 1942

[13]Wirth, The Ghetto, University of Chicago Press, Chicago, 1928

[14]Bucerius & Tonry, The Oxford Handbook of Ethnicity, Crime and Immigration, Oxford University Press, New York, 2014

[15]Cavadino & Dignan, Penal Systems: A Comparative Approach, Sage, London, 2005

[16]Bowling, Policing the Carribean: Transnational Security Cooperation in Practice, Oxford University Press, Oxford, 2010

[17]Bradford & Jauregui & Loader & Steinberg, Handbook of Global Policing, Sage, London, 2016

[18]Bosworth & Franko & Pickering, Punishment, Globalization and Migration Control: Get them the Hell out of Here, in Punishment & Society, 20, 1, 2018

[19]Sanchez, Human Smuggling and Border Crossings, Routledge, Abingdon, 2014

[20]Bigo, Security, Exception, Ban and Surveillance, in Lyon (a cura di), Theorizing Surveillance, The Panopticon and Beyond, Routledge, Abingdon, 2006

[21]Campesi, Immigrant detention and the double logic of securitization in Italy, in Lablanca & Ceccorulli (a cura di), The EIU, Migration and the Politics of Administrative Detention, Routledge, Abingdon, 2014

[22]Aas, Analysing a world in motion: Global flows meet criminology of the other, in Theoretical  Criminology, 11, 2, 2007

[23]Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna, 2010

[24]Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino, 2003

[25]Ahmed, Strange Encourtens. Embodied Others in Post-Coloniality, Routledge, London, 2000

[26]Bhui, The place of race in understanding immigration control and the detention of foreign nationals, in Criminology and Criminal Justice, 18, 3, 2016

[27]Garner, Crimmigration, When Criminology (Nearly) Met the Sociology of Race and Ethnicity, in Sociology of Race and Ethnicity, 1, 1, 2015

[28]Kaufman, The Limits of Punishment, in Reiter & Koenig (a cura di), Exstreme Punishment, Palgrave, London, 2015

[29]Vazquez, Perpetuating the Marginalization of Latinos: A Collateral Consequence of the Incorporation of Immigration Law into the Criminal Justice System, in Howard Law Journal, 54, 3, 2011

[30]Garland, The Limits of the Sovereign State, in British Journal of Criminology, 36, 4, 1996

[31]Barker, Democracy and deportation, Why membership matters most, in Aas & Bosworth (a cura di), The Borders of Punishment. Criminal Justice, Citizenship and Social Exclusion, Oxford University Press, Oxford, 2013

[32]Aliverti, Enlisting the Public in the Policing of Immigration, in British Journal of Criminology, 55, 2, 2015

[33]Zedner, Security, the State, and the Citizen: The Changing Architecture of Crime Control, in New Criminal Law Review, 13, 2, 2010

[34]Warr, The Deprivation of Certitude, Legitimacy and Hope: Foreign National Prisoners and the Pains of Imprisonment, in Criminology and Criminal Justice, 16, 3, 2016

[35]Bhui, Alien experience: Foreign national prisoners after the deportation crisis, in Probation Journal, 54, 4, 2007

[36]Ugelvik, The Incarceration of Foreigners in European Prisons, in Pickering & Ham (a cura di), The Routledge Handbook on Crime and International Migration, Routledge, Abingdon, 2015

[37]Van Zyl Smit & Mulgrew, Handbook on the International Transfer of Sentenced Persons, United Nations, New York, 2012

[38]Bosworth, Inside Immigration Detention, Oxford University Press, Oxford, 2014