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Le misure preventive di polizia e il loro reclutamento nell’antiterrorismo

terrorismo
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Abstract

Laddove il diritto penale non riesca ad arrivare tempestivamente, ivi lo precedono e intervengono le c.d. “misure preventive di polizia”. Siffatti strumenti inibitori, invero, non devono sottostare alle rigide regole procedurali proprie del diritto penale, non richiedono eccessivi oneri probatori e, soprattutto, intervengono ante o praeter delictum, ovverosia a prescindere dalla commissione di un qualsivoglia reato.

Le misure di prevenzione più utilizzate (e anche più controverse) sono, sicuramente, le misure preventive negative personali, strumento irrinunciabile per la tutela della pubblica sicurezza e dell’ordine pubblico. Tali provvedimenti special-preventivi costituiscono un’avanguardia fondamentale per una pronta difesa dell’incolumità collettiva, mediante un dispiegamento di effetti cronologicamente anticipato rispetto ad una possibile futura attività criminosa.

Sempre più frequentemente, pertanto, questo “diritto amministrativo di polizia” è stato impiegato per stroncare, sul nascere, il possibile insorgere di manifestazioni delittuose, promananti dalla criminalità organizzata e dalle più efferate organizzazioni terroristiche.

In tal senso, si procederà ad analizzare quali potrebbero essere le misure di polizia più funzionali ad un sistema organico di antiterrorismo europeo, che sappia applicare, in modo razionale e tempestivo, siffatti strumenti special-preventivi, fondati sul delicato requisito della “pericolosità sociale” e volti ad arginare le minacce terroristiche ancor prima che possano integrare una qualsiasi fattispecie criminosa.

 

1. L’essenza delle misure preventive

Un fondamentale pilastro della politica criminale occidentale è rappresentato, indubbiamente, dalle c.d. misure di prevenzione.

Queste si distinguono, in primis, dalle “misure di sicurezza”, le quali intervengono successivamente alla perpetrazione di un reato (post delictum) e tendono a inibire la potenziale recidiva del soggetto condannato, considerato socialmente pericoloso.

Le misure preventive, inoltre, si differenziano anche rispetto alla “pena”, la quale è considerata come misura afflittiva sanzionatoria rispetto alla violazione di una norma penale; essa, invero, dispiega i propri effetti nei confronti del reo autore del reato accertato processualmente.

La prevenzione, invece, è caratterizzata, nello specifico, da un’applicazione cronologicamente anticipata rispetto alla consumazione di un qualsivoglia reato; invero, le misure preventive sono dette ante o praeter delictum.

In particolare, le misure special-preventive sono dirette ad evitare la commissione di probabili futuri reati da parte di soggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico.

Tale risulta l’essenza della funzione di “prevenzione speciale”, cioè la rimozione ovvero il contenimento delle cause che agevolino la perpetrazione di reati o, comunque, di fatti lesivi di determinati interessi/beni giuridicamente tutelati.

I provvedimenti limitativi delle facoltà personali e, in alcuni casi, della libertà personale sono applicati a soggetti che, indipendentemente dalla realizzazione di un fatto-reato, vengono ritenuti (alla luce di specifici parametri legali) socialmente pericolosi. In questo senso, alla base dell’applicazione di una misura di prevenzione vi è il requisito della “pericolosità sociale”, la quale deve appunto essere annullata ovvero inibita, a prescindere dall’effettiva consumazione di un reato o dalla sussistenza di pregresse condanne penali.

Il concetto di pericolosità sociale si fonda sulla formulazione di un giudizio prognostico che concerne la complessiva personalità del proposto e che culmina con l’affermazione della probabilità che il medesimo soggetto ponga in essere, in futuro, condotte antisociali nonché comportamenti di vita giuridicamente idonei all’applicazione di una misura preventiva; a tal proposito, sono rilevanti i precedenti e le pendenze penali o giudiziarie, nonché tutti i vari rapporti di polizia.

In relazione a tale presupposto applicativo delle misure di prevenzione (la pericolosità), si possono menzionare due pronunce della Corte di Cassazione, richiamate nella famosa sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, causa De Tommaso c. Italia, n. 43395/09.

Nella prima, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno osservato come il requisito indefettibile per l’applicazione di una misura di prevenzione sia l’accertamento dell’attualità della pericolosità di un certo soggetto, non necessariamente legato alla commissione di un reato.

L’elemento dirimente, secondo la Corte, sarebbe l’esistenza di una situazione complessa di una certa durata, la quale potrebbe suggerire che lo stile di vita di una persona si riveli, potenzialmente, problematico in termini di sicurezza pubblica. La valutazione dell’attualità del pericolo riguarderebbe, quindi, una complessiva notazione di pericolosità, espressa mediante condotte non per forza costituenti reato (Cass. Pen. SS. UU., n. 10281, 25.10.2007).

In seguito, nella sentenza n. 23641 del 2014, si è affermato come la valutazione della pericolosità ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione non si identifichi con la mera valutazione del pericolo soggettivo, ma corrisponda all’analisi dei fatti in una prospettiva storica, in quanto indicatori del fatto che l’interessato possa essere compreso in una delle categorie criminologiche definite dalla legge.

Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, la persona valutata in un procedimento per l’applicazione di una misura di prevenzione non sarebbe giudicata colpevole o non colpevole di un determinato reato, ma verrebbe definita pericolosa o non pericolosa alla luce delle sue precedenti condotte, considerate come indicatore della possibile realizzazione di un’attività suscettibile di turbare l’ordine sociale o economico; tale valutazione dovrebbe essere effettuata sulla base di precise disposizioni di legge che categorizzano le varie forme di pericolosità (Cass. Pen., sez. I, 11.02.2014).

L’insieme delle misure di prevenzione risulta sussumibile, secondo parte della dottrina, nel magistero del c.d. diritto di polizia, specificatamente denominato “diritto amministrativo di polizia”. Uno strumento, sovente, caratterizzato da restrizioni di diritti e libertà ma, al contempo, estremamente duttile e funzionale per un’efficace protezione della società e della pubblica sicurezza.

Tale particolare diritto della prevenzione si è venuto a creare a seguito del suo discostamento dal diritto penale sostanziale e si è contraddistinto, fin da subito, per la presenza di strumenti sanzionatori praeter delictum. Questi vengono solitamente applicati o proposti dall’autorità amministrativa, lasciando all’autorità giudiziaria solo la convalida oppure la decisione finale sulla proposta applicativa.

Parte della dottrina sostiene che siffatte misure, ancorché special-preventive, siano altresì “repressive” e di carattere afflittivo, tanto da arrivare a qualificarle come sine o praeter probationem delicti.

In ogni caso, la tesi dottrinale prevalente identifica le misure di prevenzione con un insieme di provvedimenti di carattere special-preventivo, applicabili a soggetti considerati, a vario titolo, socialmente pericolosi e finalizzati a controllarne la pericolosità, in modo tale da scongiurare la possibile perpetrazione di futuri reati.

 

2. Il fondamento giuridico della prevenzione nell’ordinamento italiano

Sulla questione relativa alla base legale delle misure preventive (soprattutto personali) vi è, innegabilmente, uno scontro dottrinale/giurisprudenziale.

Il casus belli è rappresentato dal fatto che gli strumenti di prevenzione sono idonei limitare e restringere (anche notevolmente) intere categorie di diritti, producendo spesso un vulnus alla libertà personale, sulla mera base della sussistenza della pericolosità sociale (concetto spesso indeterminato) e a prescindere dal previo accertamento di un reato.

Nell’ordinamento italiano, le prime importanti basi giurisprudenziali, legittimanti le misure di prevenzione, sono riconducibili alle pronunce della Corte Costituzionale n. 2 del 1956 e n. 68 del 1964. Da queste si evince come il fondamento giuridico possa essere integrato dall’art. 2 Cost., “che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, i quali devono sempre essere tutelati dallo Stato, anche attraverso restrizioni della libertà personale, al fine di proteggere la stabilità dell’ordine sociale.

Secondo una parte della dottrina, le misure di prevenzione dovrebbero sottostare al medesimo regime giuridico delle misure di sicurezza, con l’espressa copertura di riserva di legge/riserva di giurisdizione di cui agli artt. 13 e 25 Cost.; per altra dottrina, invece, essendo tali strumenti privi del carattere afflittivo (tipico di pena e misure di sicurezza), questi non produrrebbero quella peculiare degradazione giuridica dell’individuo che necessiterebbe, altrimenti, della legittimazione ex art. 13 Cost.

Taluno ha cercato di suffragare, proprio, la base costituzionale dell’art. 13 Cost., unitamente all’art. 16 Cost., considerando le misure preventive quali limitazioni della libertà personale consentite per finalità generali ovvero per motivi di particolare pericolosità della persona.

Pertanto, a supporto delle classiche misure repressive di carattere afflittivo, è necessario un parallelo sistema di strumenti preventivi contro il concreto pericolo di futuri fatti illeciti; invero, si sostiene che “prevenire il reato sia compito imprescindibile dello Stato, che si pone come un prius rispetto alla potestà punitiva” (Nuvolone).

La stessa Corte Costituzionale, in numerose pronunce, ha più volte sostenuto come “il principio di prevenzione e di sicurezza sociale affianchi la repressione in ogni ordinamento”, legittimando quindi le restrizioni della libertà che non siano espressamente escluse ovvero costituzionalmente illegittime.

Ne derivano, pertanto, un’astratta doverosità e legittimità Costituzionale delle misure di prevenzione, le quali vengono corroborate de facto dalle suindicate disposizioni normative della nostra Costituzione.

Nell’ordinamento italiano, inoltre, il principale testo legislativo di riferimento è rappresentato dal “Codice antimafia e delle misure di prevenzione” (introdotto con il d.lgs. 159/2011), a cui si aggiungono le numerose importanti influenze derivanti dalle fonti normative europee e dagli orientamenti giurisprudenziali della Corte EDU.

Non v’è dubbio alcuno che le misure preventive siano strumenti irrinunciabili e indispensabili quale forma di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, i quali sono protetti sia dal diritto penale sostanziale sia, suppletivamente, da questo insieme eterogeneo di provvedimenti pro-attivi del Diritto amministrativo di Polizia; tutto ciò, proprio al fine di inibire soprattutto le più gravi manifestazioni delittuose derivanti dalla criminalità organizzata, dagli indiziati di mafia e, altresì, dalle organizzazioni terroristiche.

 

3. Quale modello di prevenzione per l’antiterrorismo?

Orbene, procediamo ora ad analizzare quale modello di prevenzione e quali misure preventive potrebbero risultare, nel concreto, più confacenti ad un sistema amministrativo di polizia Europeo finalizzato ad inibire la potenziale concretizzazione di minacce terroristiche.

Preliminarmente, è d’uopo distinguere tra le due macro-categorie in cui è suddivisa la prevenzione in generale: prevenzione positiva e prevenzione negativa.

La prima è contraddistinta da misure di carattere non coercitivo, caratterizzandosi solitamente in “un incremento della sfera giuridica personale e in interventi di promozione di un maggior benessere individuale e sociale”, particolarmente indicate per fenomeni di microcriminalità o criminalità urbana; nella seconda, invece, vi risiedono tutte quelle misure volte a privare o restringere le libertà personali o altri diritti della persona, con l’intento finale di evitare la futura consumazione di possibili reati.

Ora, pur riconoscendo l’importanza della prevenzione positiva, specialmente in campo educativo e sociale, sarebbe difficilmente immaginabile un suo efficace utilizzo nel contrasto di gravi manifestazioni criminali, terrorismo in primis; questo infatti, come suggerisce giustamente il Prof. Pasculli, è “contrassegnato da uno spiccato carattere ideologico e da un’irrazionalità, o da una razionalità alternativa a quella delle società occidentali, radicata in fideismi, che vanificano, già in astratto, la percorribilità di qualsiasi programma educativo”.

Dobbiamo così escludere, almeno in ambito terroristico, l’impiego di misure preventive positive, concentrandoci, quindi, sull’analisi di quegli strumenti di natura più prossima a quella della pena: le misure preventive negative.

All’interno della prevenzione negativa, troviamo le misure preventive personali e le misure preventive patrimoniali: le prime dispiegano i loro effetti direttamente sulla persona, in virtù di delicati e stringenti standard indiziari; quelle patrimoniali, invece, incidono specificatamente sul patrimonio della persona e, pertanto, solo indirettamente su di essa.

Tali misure possono essere raggruppate in due differenti modelli: il modello ordinario, in cui vi sono delle misure negative special-preventive, disposte dall’ordinamento nazionale, come integrazione accessoria delle classiche sanzioni penali post delictum (pena e misure di sicurezza); il modello straordinario, che prevede alcune misure negative special-preventive, spesso derogatorie di principi e garanzie costituzionali e processuali (vd. la maggior parte delle normative antiterrorismo messe in campo tanto dagli Stati Uniti quanto da alcuni Paesi europei, come Francia e Regno Unito), da applicarsi eccezionalmente in situazioni di gravi situazioni di emergenza per la pubblica sicurezza dello Stato, soprattutto in caso di attacchi terroristici e conflitti armati.

Nel caso di specie, la nostra analisi proseguirà tra quelle misure che, più di tutte, sono state implementate e reiterate, nel corso degli ultimi decenni, dalla maggior parte degli ordinamenti giuridici occidentali, ovverosia le misure di prevenzione negative personali.

 

4. Misure preventive personali

Tra le misure personali, possiamo individuare le misure privative e restrittive della libertà personale. Le prime si traducono nella “compressione totale della libertà materiale dell’individuo”, le seconde consistono in provvedimenti volti a limitare, ma senza sopprimere, suddetta libertà.

A tal proposito, si badi bene, il criterio su cui basare tale differenziazione “riguarda il grado o l’intensità, e non il carattere o la sostanza” (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Guzzardi c. Italia, 6 novembre 1980, n. 7367/76).

È d’uopo precisare come siffatta distinzione non presenti conseguenze solo squisitamente teoriche ma assuma, invece, un’importanza concreta nella valutazione della legittimità di alcune misure negative, alla luce di principi e diritti universalmente riconosciuti.

Vi sono state, infatti, delle situazioni in cui “il cumulo di diverse misure prescrittive e interdittive veniva sfruttato, ad arte, dall’autorità per imporre al destinatario una serie di limitazioni tanto invasive e stringenti da tradursi, in definitiva, in una privazione della libertà personale non meno intensa delle detenzione”.

Proprio in merito alla legittimazione delle misure preventive negative, è assolutamente necessario richiamare l’art. 5 CEDU, argine giuridico contro l’abuso della privazione della libertà personale. In tal senso, nella causa De Tommaso c. Italia, n. 43395/09, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato che “per determinare se una persona sia stata privata della libertà ai sensi dell’articolo 5, il punto di partenza deve essere la specifica situazione del ricorrente e si deve tener conto di una serie di fattori quali il tipo, la durata, gli effetti e le modalità di attuazione della misura in questione”.

La summenzionata disposizione normativa, nello specifico, stabilisce che “nessuno può essere privato della libertà”, se non nei casi e nei modi espressamente previsti. Tra questi, vi rientra altresì la possibilità di arrestare o detenere un soggetto “per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso”.

Da un lato, quindi, si permette una privazione della libertà personale anche laddove vi sia solo un sospetto, seppur fondato, di un imminente commissione di un reato; dall’altra, però, in virtù di un’interpretazione restrittiva da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, siffatta prevenzione dev’essere strettamente indirizzata verso uno specifico e concreto reato, non essendo bastevole una generica presunzione di pericolosità sociale.

 

4.1 Misure privative della libertà

Sono da considerarsi “privative della libertà personale”, tutte quelle misure preventive atte a inibire la libertà fisica del soggetto, attraverso il suo confinamento coattivo in un luogo circoscritto.

La detenzione preventiva (preventive detention) è sicuramente la più importante, nonché più controversa, misura di privazione della libertà personale. I suoi effetti, decisamente invasivi e afflittivi, sono molto similari a quelli della pena; il requisito per il suo utilizzo, quasi sempre preater delictum e quasi esclusivamente appannaggio dell’autorità amministrativa, ruota attorno all’estrema pericolosità del soggetto destinatario della misura, il più delle volte un sospetto terrorista o un c.d. sex offender.

Per mezzo della detenzione preventiva, quindi, si concretizza una privazione temporanea della libertà individuale “di persone ritenute pericolose per la sicurezza pubblica, e in particolare di soggetti che evidenzino un rischio di commissione di reati terroristici, a prescindere dall’avvenuto accertamento di alcuno specifico fatto di reato”.

Le tre componenti fondamentali che pervadono l’essenza della detenzione preventiva sono: la “rationality of prevention”, la “technology of risk” e la “practice of security”.

L’intenzione, invero, è quella di evitare, o di ridurre al minimo, la probabilità che si realizzi un certo evento offensivo; un’anticipazione volta a impedire il rischio del verificarsi di un fatto indesiderato, una sorta di reazione all’idea che possa potenzialmente consumarsi un certo delitto. Tutto questo a garanzia del bene superiore dell’integrità dello Stato, cioè a tutela dell’elemento costitutivo che integra la sua stessa natura, ovverosia la sicurezza della collettività.

L’utilizzo della detenzione preventiva è sempre stato il fulcro di molti sistemi di antiterrorismo occidentali, soprattutto tra i Paesi di common law. Questi ordinamenti, infatti, hanno individuato nella preventive detention un validissimo strumento extra-penale, perfettamente idoneo a fronteggiare le minacce terroristiche e a detenere, quindi, i sospetti terroristi fermati dalla polizia, non di rado without charge (senza precisi capi d’accusa) e, molto spesso, a fini esclusivamente investigativi.

L’11 settembre 2001, com’è noto, ha portato ad un notevole incremento di tale misura degenerata emblematicamente nella carcerazione preventiva degli unlawful combatants (lett. “combattenti illegali”) presso la prigione di Guantanamo, con detenzioni totalmente arbitrarie e svincolate da una qualsiasi garanzia processuale.

Già precedentemente, nel Regno Unito, si era adottata la discutibile pratica dell’internamento senza processo (internment), strumento diffuso durante i troubles nordirlandesi.

Inoltre, a fianco di tali misure pesantemente afflittive, è possibile menzionare: gli interim custody orders, attraverso cui poter mantenere un determinato soggetto in uno stato di detenzione provvisoria fino a 28 giorni, con una possibile successiva emanazione di detention orders per una detenzione preventiva a tempo indeterminato; la detention without charge di sospetti terroristi, per un periodo massimo di 14 giorni; la misura ibrida statunitense della long-term custody e l’indefinite detention britannica (misura disposta in applicazione dell’art. 15 CEDU, in deroga all’art. 5 della medesima convenzione). Queste ultime due sono state predisposte, essenzialmente, quali provvedimenti in materia di immigrazione, uno degli ambiti più colpiti dalle misure preventive negative, in virtù di opinabili collegamenti tra terrorismo e astratte presunzioni di pericolosità dell’immigrato.

Parzialmente assimilabile alla detenzione preventiva, poi, risulta essere la custodia cautelare (pre-trial detention). Tuttavia, vi si possono ricomprendere solo quelle misure custodiali che, pur essendo regolate da norme processuali e benché definite “misure cautelari”, perseguano sostanzialmente delle finalità special-preventive. Tra queste, è possibile annoverare altresì le misure cautelari detentive italiane, in particolare ex art. 274 lett. c) c.p.p. ovverosia “quando per specifiche modalità e circostanze del fatto e per la personalità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato, desunta da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali, sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”.

È d’uopo ricordare, comunque, quanto sia spesso labile, soprattutto negli ordinamenti di common law, il suddetto confine tra misure cautelari e misure preventive.

Non di rado, infatti, le stesse misure negative vengono utilizzate con finalità sia di prevenzione che di investigazione (vd. lo US Material Witness Statue). Si pensi, ad esempio, alla possibilità di detenere un sospetto terrorista, verosimilmente fermato mediante uno stop and search (lett. “fermo e perquisizione”), per un certo periodo di tempo prolungato; proprio al fine di compiere delle investigazioni più accurate ovvero per sottoporre ad interrogatorio il soggetto arrestato, così da evitare possibili influenze esterne e massimizzare la qualità/quantità delle informazioni ottenibili.

In questo senso, pur essendo difficilmente compatibile con scopi special-preventivi tout court, è possibile menzionare anche la misura cautelare custodiale breve del gard à vue, di notevole rilevanza entro il sistema processual-penalistico francese.

Il gard à vue è uno strumento legale di detenzione temporanea, di sorveglianza e d’interrogatorio del soggetto sospettato, trattenuto in détention provisoire presso l’ufficio della Police nationale o della Gendarmerie.

La base legale di siffatta misura detentiva è fornita dagli artt. 62 ss. del Code de Procédure Pénale, in cui si delinea un elenco tassativo di casi che rendono legittimo un suo utilizzo:

1) consentire la realizzazione di indagini che comportino la necessaria presenza o  partecipazione della persona;

2) garantire che la persona sia presentata al pubblico ministero, in modo che il magistrato possa valutare sul prosieguo dell’indagine;

3) impedire alla persona di alterare prove fisiche o indizi;

4) impedire alla persona di esercitare pressioni su testimoni o vittime e sulle loro famiglie o sui loro cari;

5) impedire alla persona di cooperare con altre persone che possano essere co-autrici o suoi complici;

6) garantire l’attuazione di misure volte a fermare il reato ovvero i reati (Art. 62-2 Code Procédure Pènale)

per i quali, un ufficiale di polizia giudiziaria, a fini investigativi, possa sottoporre qualsiasi persona alla misura del gard à vue, laddove ci siano una o più ragioni per sospettare che egli abbia commesso, o abbia tentato di commettere, “un crime ou un délit” punito con la reclusione.

 

4.2 Misure restrittive della libertà

All’interno delle “misure negative restrittive della libertà personale” (decisamente più varie e numerose rispetto a quelle privative) è possibile ritrovare tutta una serie di restrizioni che possono presentare, a seconda della situazione e della necessità, diverse “sfumature operative”.

Da logiche di monitoraggio e sorveglianza della persona attenzionata, si passa a specifiche interdizioni e prescrizioni caratterizzate da precisi divieti, da limitazioni più o meno invasive e dall’imposizione di determinati obblighi di facere in capo al soggetto. Infine, appartengono a tale categoria, altresì, le varie misure concernenti l’ambito dell’immigrazione e lo status di rifugiato, in relazione a soggetti stranieri già regolarmente presenti sul territorio nazionale o neo-richiedenti asilo.

All’interno di questa categoria, si possono annoverare tutte quelle “misure limitative della libertà personale di soggetti individuati come pericolosi, accompagnate in genere da prescrizioni volte a consentire un penetrante controllo della polizia, talvolta anche attraverso strumenti di sorveglianza elettronica, sui loro movimenti”.

In seno al nostro ordinamento giuridico, vi sono, da un lato, misure direttamente applicabili dal questore in qualità di autorità amministrativa di pubblica sicurezza, come ad esempio l’ammonimento, il rimpatrio con foglio di via obbligatorio e il divieto di accesso a manifestazioni sportive; dall’altro, vengono contemplati provvedimenti restrittivi di appannaggio del magistrato, come la “sorveglianza speciale di pubblica sicurezza”, per cui il questore detiene solo un potere di proposta.

Quest’ultima misura (prevista dal Codice Antimafia e delle Misure di Prevenzione) può essere considerata come una sorta di semidetenzione domiciliare, a cui può essere affiancato, altresì, un “divieto/obbligo di soggiorno” per tutti i soggetti che, operanti individualmente o in gruppo, realizzino delle condotte preparatorie oggettivamente rilevanti e dirette alla consumazione di reati terroristici.

Contestualmente alla misura della sorveglianza speciale, vengono quasi sempre disposte delle prescrizioni obbligatorie, di contenuto vario e indeterminato, che possono essere decise (a seconda della situazione) dal questore ovvero dall’autorità giudiziaria, in base alle esigenze della difesa sociale. Inoltre, nelle more del procedimento applicativo, gli stessi due soggetti sopracitati hanno il potere di “disporre, in caso di necessità e urgenza, il ritiro temporaneo del passaporto, al fine di impedire in tempo l’espatrio del proposto”.

La sorveglianza speciale di p.s., pertanto, benché definita nominalmente “sorveglianza”, risulta comunque pervasa di effetti interdittivi e prescrittivi; ragion per cui, diventa difficile de facto considerarla una mera misura di monitoraggio personale.

Simili considerazioni possono riproporsi, anche, per altre due importanti misure restrittive, talvolta più invasive rispetto alla libertà personale e di contenuto maggiormente interdittivo/prescrittivo: tali misure sono i control orders (introdotti dal Prevention of Terrorism Act 2005), i quali vengono poi rimpiazzati dal TPIM notice, previsto dal Terrorism Prevention and Investigation Measures Act 2011.

I control orders (adottati prima dal Regno Unito e, poi, anche dall’Australia) erano dei provvedimenti amministrativi declinabili in potenziali restrizioni nell’utilizzo di apparecchi telefonici e di piattaforme online, nonché in forti limitazioni nella libertà di associazione e di movimento; inoltre, vi era la possibilità che venisse disposta, altresì, una misura di detenzione personale, in base alla quale mutava anche la tipologia del control order: derogatori o non-derogatori rispetto all’art. 5 CEDU.

La sua evoluzione è il TPIM notice, cioè una peculiare misura di contenuto fortemente interdittivo/prescrittivo, ma con evidenti logiche di sorveglianza personale. Questa può essere disposta dal Secretary of State (anche senza autorizzazione del tribunale, nei casi di urgenza), qualora costui “ritenga ragionevolmente che un soggetto sia stato coinvolto in attività terroristiche e ragionevolmente consideri tali misure necessarie per proteggere la collettività da minacce terroristiche”.

In tal senso, l’emanazione del TPIM notice e la conseguente sottoposizione dell’individuo a tale misura restrittiva sono condizionate dall’integrazione di cinque specifici presupposti applicativi, tassativamente previsti dal testo legislativo del TPIMA. Laddove siano soddisfatte tali condizioni, il TPIM potrà disporre tutta una serie di obblighi e divieti che si ripercuoteranno, inevitabilmente, sulla vita quotidiana del destinatario. Tali prescrizioni obbligatorie potrebbero presentare, infatti, qualsiasi tipo di contenuto, nonché diversi gradi di invasività; ad esempio, si possono menzionare: obblighi di soggiorno nel luogo di residenza; limitazioni alle attività lavorative e di studio; divieti e limitazioni di associazione e comunicazione con determinati soggetti; restrizioni sulla possibilità d’ingresso entro una certa area determinata; restrizioni sull’accesso a fondi e servizi finanziari ecc.

A fianco a tali strumenti interdittivi/prescrittivi con sfumature di sorveglianza individuale, si possono collocare, altresì, quelle misure specificatamente pensate per limitare la libertà di movimento di determinati soggetti, proprio al fine di inibire spostamenti di terroristi o gruppi terroristici (vd. i foreign terrorist fighters).

Tali sono le misure di revoca del passaporto (seizure of passports) e dei documenti di viaggio (travel documents revocations), nonché della c.d. citizenship-stripping (o revocation), ossia la revoca della cittadinanza.

In Francia, ad esempio, è stato previsto il divieto di fuoriuscita dal Paese, fino a sei mesi e con un possibile rinnovo a tempo indefinito, per tutti i soggetti che siano sospettati di voler porre in essere atti di terrorismo all’estero. Nel Regno Unito, si è disposto il sequestro temporaneo (temporary retention) dei passaporti presso le zone frontaliere di porti e aeroporti, fino ad un periodo massimo di 14 giorni (estendibile a 30 giorni), nel caso in cui si tratti di soggetti intenzionati a lasciare il Paese per scopi terroristici. Contestualmente, è stata introdotta la misura del temporary exclusion order mediante la quale sopprimere la validità dei passaporti dei cittadini britannici, inserendoli nelle no-fly lists e impedendo loro di rientrare in patria, per un tempo massimo di due anni. Laddove riuscissero, poi, ad ottenere il permesso di tornare in UK, sarebbero subito oggetto di stringenti prescrizioni obbligatorie ed, eventualmente, passibili di un TPIM order.

Sulla stessa linea si è collocata, altresì, la revoca della cittadinanza; misura di frequente utilizzo da parte degli Stati nazionali ma oggetto anche di pesantissime critiche e censure in ambito internazionale.

Nel 2015, la Repubblica Francese ha propugnato addirittura la “costituzionalizzazione della revoca della cittadinanza”, al fine di allontanare dal territorio determinati soggetti, la cui pericolosità venisse certificata da una condanna penale definitiva.

Anche il Regno Unito, dal canto suo, ha introdotto la citizenship revocation in relazione a tutti coloro che siano stati processati (o anche solo sospettati) per attività con finalità di terrorismo.

Tale misura restrittiva, decisamente invasiva, incontra inevitabilmente degli ostacoli di rango internazionale: se è vero che gli Stati nazionali siano, generalmente, liberi di regolare la disciplina sul diritto di cittadinanza; è altrettanto vero che il diritto internazionale stabilisca dei precisi limiti relativi alla tutela dei diritti umani e, pertanto, i singoli Paesi non potrebbero, arbitrariamente, deprivare gli individui della loro nazionalità.

Orbene, tanto la nazionalità quanto la libera circolazione vengono elevati a diritti fondamentali; ciò non toglie, però, che questi possano subire alcune restrizioni, in misura proporzionale e in presenza di determinate condizioni.

In tal senso, la Statelessness Convention del 1961 permette la “deprivazione della cittadinanza”, solo ed esclusivamente nel caso in cui la condotta dell’individuo diventi, seriamente, pregiudizievole per gli interessi vitali dello Stato.

Nemmeno un’eccezione è prevista, invece, dalla Convenzione Europea sulla Nazionalità del 1977, la quale proibisce categoricamente la condizione di apolidia.

Proprio quest’ultima situazione, ovverosia la totale mancanza di una qualsivoglia cittadinanza, costituisce il più grande freno all’utilizzo di siffatta misura preventiva “revocatoria”. Per tentare di eludere (parzialmente) tale ostacolo, invero, molti Paesi membri dell’UE hanno permesso la citizenship revocation laddove tale cittadinanza sia stata ottenuta attraverso una procedura di naturalizzazione. Altri Stati, invece, hanno disposto la possibile revoca della cittadinanza solamente per quei soggetti dotati di una duplice nazionalità e che abbiano subito una condanna penale per reati gravi.

Molto simile a siffatta questione, poi, è quella relativa al “diniego di asilo e dello status di rifugiato” (denial of asylum and refugee status).

Come si sosteneva nello EU Commission Working Document del 2001: “there should be no avenue for those supporting or committing terrorist acts to secure access to the territory of the [EU] Member States”.

Invero, la principale finalità di tale documento è stata proprio quella di estromettere i sospetti terroristi dall’ottenimento del diritto d’asilo, con una conseguente esclusione dalla condizione di rifugiato. Tale misura preventiva, nel concreto, si baserebbe sull’applicazione delle clausole di esclusione dal diritto di asilo, considerando soprattutto che l’onere della prova, in siffatta procedura, sarebbe decisamente inferiore rispetto a quello di un procedimento penale. Lo Stato, infatti, dovrebbe semplicemente limitarsi a provare che ci siano delle “valide ragione di credere che una persona abbia commesso un reato terroristico”.

Nello specifico, l’art. 1(F)(a) della Convenzione sul Rifugiato sancisce l’impossibilità di concedere il predetto status ad un individuo che abbia commesso un crimine di guerra, un crimine contro la pace o contro l’umanità. All’art. 1(F)(b), si ribadisce il medesimo divieto, questa volta nel caso in cui ci siano serie ragioni di ritenere che il soggetto in questione abbia compiuto un grave crimine “non politico”, al di fuori del paese di accoglienza, prima della sua ammissione come rifugiato. Infine, all’art. 1(F)(c) si afferma come non si possa garantire lo status per coloro che si siano resi responsabili di atti contrari ai principi e ai valori delle Nazioni Unite, tra cui rientrano, altresì, le “condotte di natura terroristica”.

La procedura di esclusione dalla condizione di rifugiato, inoltre, potrebbe tranquillamente essere avviata ex post, mediante una re-examination e cancellazione dello status previamente concesso. Ovviamente, l’eventuale coinvolgimento in azioni di terrorismo, se accertato, potrebbe essere prodromico di un trattamento restrittivo o privativo della libertà, culminante con un’eventuale procedura di estradizione. Inoltre, ai sensi dell’art. 32(1) della predetta Convenzione, si fornisce la possibilità, per gli Stati, di procedere all’espulsione dei rifugiati per motivi di sicurezza nazionale e di ordine pubblico.

In questo senso, risulta utile considerare una recente sentenza della Corte di Giustizia europea (Corte di Giustizia UE, H. T. v Land Baden-Württemberg, C-373/13), in tema di contrasto al terrorismo in rapporto alla protezione internazionale e alla revoca del permesso di soggiorno ad un soggetto rifugiato.

Da tale pronuncia, infatti, derivano alcuni importanti assunti: viene confermato il potere di revocare il suddetto permesso in virtù della clausola ex art. 24 della Direttiva 2004/83/CE, laddove ci siano “imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico”;

si asserisce che i motivi di esclusione o perdita dello status di rifugiato debbano essere, decisamente, più gravi rispetto a quelli previsti per la revoca del permesso di soggiorno, da cui invece non deriverebbe un’automatica perdita del suddetto status;

si afferma che l’appartenenza del rifugiato ad un’organizzazione terroristica, come anche il suo mero supporto, rappresentino un valido fondamento per una possibile revoca del permesso di soggiorno;

viene sancito de facto uno scollamento operativo tra status di rifugiato e permesso di soggiorno, in quanto la revoca di quest’ultimo non comporterebbe una conseguente esclusione del predetto status né dei connessi diritti.

Concludendo tale disamina in tema di immigrazione e di misure restrittive riferibili allo straniero, è necessario analizzare il divieto d’ingresso nel territorio nazionale e, soprattutto, lo strumento dell’espulsione di soggetti extra-europei, “utilizzato sempre più non solo quale pena accessoria conseguente a una condanna da parte dell’autorità giudiziaria, ma anche in chiave di misura amministrativa di carattere preventivo contro soggetti individuati come pericolosi dalle forze di polizia, ma ancora non sottoposti a procedimento penale per alcuna specifica ipotesi di reato”.

Riguardo alla prima restrizione, nell’ordinamento francese è espressamente prevista la possibilità di rifiutare l’ingresso (refus d'entrée), entro i confini nazionali, di qualunque straniero che rappresenti una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico; inoltre, nell’eventualità in cui egli abbia comunque già fatto ingresso nel territorio francese, è sempre possibile porre in essere un’interdiction administrative (interdiction du territoire) e disporre l’obbligo di abbandonare il Paese, oltre che il divieto di ritornarvi.

Specularmente, poi, viene disciplinato anche lo strumento dell’espulsione dello straniero (expulsion de l'étranger), laddove la sua presenza ponga in grave pericolo il bene collettivo dell’ordine pubblico. Nella medesima direzione, si inseriscono la deportation britannica nonché l’espulsione amministrativa prevista dall’ordinamento italiano (ex art. 13 D.lgs. n. 268 del 1998), la quale prevede che “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato, il Ministro dell’interno possa disporre l’espulsione dello straniero anche non residente nel territorio dello Stato, dandone preventiva notizia al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro degli affari esteri”. In altre parole, si tratta di una misura “fondata non già sull’irregolarità del soggiorno dello straniero, bensì sull’accertata pericolosità dello straniero rispetto alla sua possibile commissione di gravi reati, in particolare di natura terroristica”.

Inoltre, ai sensi dell’art. 3 co. 1, Decreto-legge n. 144 del 2005 (c.d. Decreto Pisanu), si sancisce la possibilità di procedere all’espulsione amministrativa di uno straniero, eseguita dal Ministro dell’interno o dal prefetto, anche laddove “vi siano fondati motivi di ritenere che la sua permanenza nel territorio dello Stato possa in qualsiasi modo agevolare organizzazioni o attività terroristiche, anche internazionali”.

Senza dubbio, anche l’espulsione dello straniero, in quanto misura fortemente limitativa della libertà personale e dotata di particolare invasività, presenta alcuni aspetti critici. Tra questi, possiamo sicuramente menzionare: la netta recisione di tutti i legami familiari e sociali venutisi a consolidare nel tempo; il rischio di esporre il soggetto espulso a pratiche di tortura e a trattamenti degradanti, una volta che venga consegnato al Paese di destinazione.

È innegabile come tali strumenti di natura preventiva, soprattutto quelli concernenti il diritto di immigrazione, siano stati notevolmente rafforzati nel tempo, dando così vita a misure “eliminatorie” e “neutralizzatrici”.

È altrettanto vero, poi, come sussistano diverse criticità relative sia alla (bassa) soglia indiziaria su cui basare l’applicazione delle suddette misure di prevenzione, sia alle effettive garanzie e tutele difensive, nettamente inferiori rispetto a quelle del diritto penale (tanto sostanziale quanto processuale).

 

5. Conclusioni

Ad ogni buon conto, non si possono più ignorare le nuove pericolose forme del terrorismo internazionale, il quale, in modo decisamente subdolo, trae ogni possibile beneficio dalle libertà e dalle garanzie proprie dello Stato di diritto, ritorcendole contro di esso.

In tal senso, pur censurando con forza ogni tipo di violazione della libertà e della dignità umana, vi è però da considerare come “lo Stato per la sua stessa sopravvivenza, non potrà mai suicidarsi per dimostrare di essere democratico” e, proprio per questo, è pacifico che “le istanze di prevenzione non possano non assumere rilievo centrale, anche a costo di giungere a generali restrizioni di certi diritti fondamentali”.

Ordunque, assodata la necessità (sempre più incalzante) di inibire preventivamente la consumazione di un qualsivoglia delitto terroristico, non v’è da interrogarsi sull’opportunità, o meno, dell’utilizzo del diritto amministrativo di polizia e delle sue misure preventive negative; piuttosto, rimane da chiedersi quali dei suindicati provvedimenti di pubblica sicurezza potrebbero meglio confarsi ad un sistema unico europeo di antiterrorismo, caratterizzato da uniformità e organicità, che sappia garantire tanto il rispetto dei principi giuridici fondamentali quanto l’effettiva tutela dell’incolumità dei propri consociati.

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