La spada di Damocle dei foreign fighters e lo scudo del diritto penale preventivo
Abstract
Con la consumazione dei reati terroristici a Nizza (il 29 ottobre 2020) e, pochi giorni dopo, a Vienna (il 2 novembre), si è improvvisamente riaccesa l’attenzione mediatica sulla brutale violenza del terrorismo internazionale jihadista e sulle oscure ramificazioni dello Stato Islamico, principale determinatore ovvero istigatore dei più efferati attentati degli ultimi 5 anni sul suolo europeo.
Le sue armi più subdole e letali sono rappresentate dai lone wolves (lupi solitari) nonché, soprattutto, dai c.d. foreign terrorist fighters, i combattenti stranieri addestrati militarmente negli scenari di guerra (principalmente in Siria e Iraq), ritornati poi in Occidente con il fine di sprigionare tutta la loro potenza di fuoco e tramandare la loro spietata expertise terroristica.
Il contrasto del fenomeno jihadista passa, inevitabilmente, attraverso il dispiegamento e l’implementazione del diritto penale, non solo come strumento repressivo ma, altresì, come scudo di prevenzione, teso a neutralizzare sul nascere potenziali condotte criminose particolarmente offensive. In ciò consiste la c.d. “anticipazione della soglia della punibilità penale”, con una contestuale criminalizzazione delle attività preparatorie e prodromiche del terrorismo, proprio in vista di una più incisiva prevenzione che possa, realmente, operare ex ante rispetto alla consumazione di un delitto terroristico.
Indice:
1. La minaccia Foreign Terrorist Fighters
2. Il diritto penale preventivo contro i prodromi del terrorismo
3. Conclusioni
1. La minaccia Foreign Terrorist Fighters
Il “combattente straniero” (foreign fighter), a dispetto di quanto si possa pensare, non è una figura moderna e non rappresenta certo un fenomeno inedito.
I primi foreign fighters possono essere temporalmente collocati già entro la Guerra Civile Spagnola (1936-1939), nel contesto dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979-1989) e, altresì, all’interno del conflitto bosniaco dei primi anni ’90.
Siffatti combattenti stranieri del passato non erano mossi da bramosie economiche (o quantomeno non era la loro principale motivazione), risultavano invece sospinti da una forte componente ideologica, etnica e/o religiosa. Come, infatti, durante la Guerra Civile in Spagna si è assistito al più grande flusso di western foreign fighters per ragioni socio-politiche, così, durante la Guerra afghana, vi è stata la più imponente mobilitazione di combattenti stranieri musulmani, accomunati tutti da un unico sentimento di solidarietà etnico-religiosa e da un rinvigorito ideale “pan-islamico”. Costoro, quindi, lasciavano il proprio Stato di residenza per partecipare ad ostilità presenti in altri Paesi, diversi da quello di appartenenza.
A causa, però, della crescente minaccia terroristica, della sua internazionalizzazione, dell’avvento di Al-Qaeda e dello Stato Islamico, nonché dello scoppio della Guerra in Siria (2011), i religious and idealist fighters vengono sostituiti dagli extremist fighters: i (past) foreign fighters diventano così (modern) foreign terrorist fighters.
Si comincia, dunque, a parlare di combattenti terroristi stranieri e si inizia, altresì, a ricomprendere il predetto fenomeno entro le varie legislazioni antiterrorismo, sottraendolo sempre più alle logiche del diritto internazionale umanitario, applicato negli scenari di guerra. Tale è l’esempio emblematico della contrastante sovrapposizione tra legislazione penale antiterrorismo e diritto bellico/diritto internazionale umanitario.
Il nuovo fenomeno dei foreign terrorist fighters è sicuramente caratterizzato, rispetto a quello passato, da una globalizzazione degli sforzi di reclutamento e delle abilità di raggiungere direttamente i singoli individui, da uno spasmodico utilizzo di sofisticati mezzi di propaganda terroristica nonché da un massiccio impiego dei social media e del dark web.
Spartiacque storico di tale fenomeno è la Guerra siriana del 2011 e la definizione che meglio qualifica l’essenza dei foreign terrorist fighters, includendoli ufficialmente tra le armi più pericolose del nuovo terrorismo internazionale islamico (anche detto “Nuovo Terrorismo Insurrezionale”), è quella conferita dalla Risoluzione 2178 (2014) del Consiglio di Sicurezza ONU, ovverosia: “individui che viaggiano verso uno Stato differente da quello proprio di appartenenza o residenza con l’intento di perpetrare o pianificare ovvero preparare oppure prendere parte in azioni terroristiche o nella fornitura/ricezione di un addestramento finalizzato al terrorismo, anche relativamente ad un conflitto armato militare”.
Non v’è dubbio alcuno che l’ascesa dell’ISIS sia stato il principale catalizzatore del flusso di tali combattenti terroristi stranieri, prima sedotti e poi arruolati tra le fila del “Califfato Nero”, in nome di una nuova jihad contro gli infedeli occidentali e a difesa del neonato sedicente Stato Islamico.
I numeri del fenomeno foreign terrorist fighters, ossia di coloro che hanno deciso di imbracciare le armi e partire alla volta di Siria e Iraq (e anche in Libia), sono decisamente impressionanti: dall’inizio del conflitto siriano nel 2011, sono stati stimati dai 31.000 ai 42.000 FTFs tra le fila dello Stato Islamico e degli altri gruppi jihadisti, provenienti da più di cento differenti Paesi, con un picco massimo di 2.000 aspiranti foreign terrorist fighters al mese (nel periodo 2014-2015).
All’interno di tale macro-categoria, poi, è doveroso effettuare alcune importanti distinzioni. La principale riguarda la differenziazione tra i Western (provenienti da Paesi occidentali) e non-Western (provenienti da Paesi arabi) Foreign Terrorist Fighters. La maggior parte (circa 70%) appartiene, indubbiamente, a quest’ultimo gruppo; mentre, quelli provenienti da territori occidentali, europei in primis, sono risultati ricompresi tra i 5.000 e i 7.500 soggetti.
Tra i ranghi dei Western Foreign Terrorist Fighters, mossi da differenti motivazioni, come l’empatia per la “causa siriana”, l’aderenza a una ferrea ideologia, la ricerca di avventura e il sentimento di un’alienazione socio-economica, ritroviamo altresì la sottocategoria dei combattenti convertiti e degli immigrati di seconda generazione.
Numerosi risultano gli studi volti a delineare una profile analysis di tali combattenti terroristi, proprio al fine di inquadrarne la personalità e di spiegare le oscure dinamiche integranti il relativo processo di radicalizzazione.
L’identikit ideale del moderno foreign terrorist fighter, senza alcuna pretesa definitoria, ricomprende una serie di caratteristiche ed elementi chiave così riassumibili: un ampio e diffuso processo di jihadizzazione dei c.d. youngsters (young + gangstars), ossia di tutti quei giovani, tra i 18 e i 30 anni, i quali subiscono il fascino ammaliante della propaganda jihadista e vengono, così, portati ad immergersi in una “inevitabile lotta tra il bene e il male”; un facile accesso alle nuove tecnologie, quindi ai social networks, a internet e al dark web, che diventano di fatto i più potenti mezzi di reclutamento jihadista, insieme agli “imam fai-da-te” e ai vari predicatori d’odio; una situazione familiare spesso disagiata, o comunque problematica, accompagnata da una frustrazione/alienazione di carattere economico-lavorativo; una fedina penale sovente macchiata da precedenti azioni delittuose, con una conseguente e nefasta esperienza all’interno di un carcere, ossia uno dei terreni più fertili per un adeguato processo di radicalizzazione; l’appartenenza ad una seconda generazione di immigrati musulmani, spesso emarginati dalla società occidentale, alla ricerca di una propria identità e con l’ardente desiderio di risollevare le proprie condizioni di vita, “from zero to hero”.
La quasi totale sconfitta dell’IS, sul campo di battaglia in “Syraq” (Syria + Iraq), non significa affatto una conseguente diminuzione della minaccia jihadista bensì un inevitabile violento colpo di coda di uno Stato Islamico aggredito e ferito, con l’apertura di una nuova stagione di violenza, mediante la materializzazione del tanto temuto blowback effect.
Tale è, forse, l’incubo più grande per tutti i Paesi, soprattutto quelli occidentali, poiché implica il rientro massiccio di uomini, donne e bambini-soldato (i c.d. “leoncini dell’ISIS”) nei propri Paesi d’origine, al culmine di un lungo processo di profonda radicalizzazione e di un ferreo addestramento para-militare. Costoro diventano, de facto, una sorta di “bombe intelligenti a tempo che sono parte di una rete virtuale di combattenti con una potenziale libertà d’azione tattica, dotati di una buona expertise operativa e temprati da esperienze di combattimento estreme”.
In un siffatto contesto, quindi, i foreign terrorist fighters veterani ricoprono indubbiamente un ruolo fondamentale, in primis come “modello di riferimento per i futuri aspiranti jihadisti” e come testimonianza propagandistica funzionale alla glorificazione della jihad; in secondo luogo, come catalizzatori per una più incisiva opera di radicalizzazione, di pianificazione e per la realizzazione di nuove violente conflittualità.
Questa è la minaccia concreta e attuale dei foreign terrorist fighters, specifico motivo per cui, nel 2014, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha emanato la Risoluzione 2178, con un esplicito e accorato appello, rivolto a tutti gli Stati, al fine di:
implementare fortemente i controlli alle frontiere,
regolare attentamente il rilascio dei documenti di viaggio,
contrastare e punire la contraffazione di documenti amministrativi e passaporti,
incentivare un più fluido ed efficiente scambio di informazioni,
potenziare tutte le forme di cooperazione internazionale,
prevenire i fenomeni di radicalizzazione violenta nonché
criminalizzare tutte le forme di finanziamento, supporto e reclutamento terroristico.
La Risoluzione 2178, ribadendo parzialmente quanto disposto nella precedente Risoluzione 2170 (2014), assume un tono decisamente perentorio e, in particolare nel discusso paragrafo 6, invita tutti gli Stati ad assicurare, entro le proprie legislazioni penali nazionali, un’idonea criminalizzazione di determinate condotte prodromiche del terrorismo, confluite poi anche nella famosa Direttiva (UE) 541/2017. In tal senso, ciò che più incide sulle dinamiche del diritto penale sostanziale risulta essere la qualificazione dei foreign fighters alla stregua di veri e propri terroristi (FTFs), a prescindere dall’effettiva consumazione di un delitto di stampo terroristico.
Ordunque, ai fini della sanzione penale, sarà rilevante altresì la mera intenzione di perpetrare attentati terroristici, e.g. finanziando, pianificando, preparando o fornendo supporto materiale/logistico oppure viaggiando o tentando di viaggiare con finalità terroristiche; senza la necessità dell’effettiva aderenza ad un’organizzazione terroristica ovvero della concreta realizzazione di un attentato di terrorismo.
L’“asticella della punibilità”, pertanto, viene abbassata ad uno livello antecedente rispetto a quello classico del diritto penale, il quale risponde generalmente alla logica dei principi di offensività e materialità (nulla iniuria sine actione).
Si badi bene, siffatta impostazione penal-preventiva non è assolutamente una novità di recente ideazione, corrisponde infatti ad un trend di anticipazione della soglia penale già inaugurato, in passato, da molti ordinamenti giuridici occidentali e che, ora, viene ufficialmente adottato altresì dagli organi internazionali, come modello ideale per un’effettiva tutela antiterroristica: tale dev’essere la direzione della risposta normativa e giudiziaria, mediante un’adeguata “anticipazione della tutela penale”, qualificando come reati anche i c.d. atti preparatori e, dunque, gli atti prodromici di terrorismo.
Proprio in merito a questa anticipazione della punibilità, e alle caratteristiche fondamentali del diritto penale preventivo, discuteremo nel prosieguo della trattazione, cercando di delinearne gli aspetti indubbiamente positivi e gli innegabili vantaggi nel contrasto al terrorismo ma, altresì, le diverse criticità che affliggono tale impostazione penalistica, con importanti riflessioni derivanti soprattutto da alcune pronunce giurisprudenziali.
2. Il diritto penale preventivo contro i prodromi del terrorismo
La trasformazione del diritto penale, con una sua estensione operativa verso zone storicamente “immuni da criminalizzazione”, è ormai un dato di fatto. Sia negli ordinamenti anglosassoni che in quelli continentali, risulta già consolidata la normazione di un “diritto penale della prevenzione”, con una marcata enfatizzazione della funzione preventiva dei reati.
Il paradigma punitivo di questo nuovo approccio penalistico è incentrato sulla criminalizzazione dei c.d. prophylactic offences, con la sanzione, quindi, di condotte preparatorie, neutre o, altresì, della semplice intenzione; in altre parole: un certo fatto viene qualificato come reato, con l’intento finale di ridurre al minimo la possibilità di commissione di un altro fatto criminoso.
L’evidente strappo tra il diritto penale “classico” e quello preventivo, iniziato già nei primi anni ’80, risulta indubbiamente accentuato nelle politiche criminali dell’antiterrorismo, in cui l’approccio penalistico viene incentrato sulla prevenzione e impiegato come rimedio sostanziale per la gestione del rischio.
L’obiettivo principale diventa quello di permettere alle forze di polizia di intervenire tempestivamente e fermare il presunto criminale, impedendogli quindi di realizzare i propri progetti criminosi; questo al fine di assicurare la neutralizzazione anticipata del soggetto, in quanto estremamente pericoloso e potenzialmente dannoso per l’incolumità della società.
In questo senso, il diritto penale preventivo, caposaldo dei più moderni apparati di counterterrorism, si manifesta attraverso un controllo del crimine sempre più “proattivo” e sempre meno “reattivo”. Vi è, quindi, il passaggio da una società “post-crimine” ad una “pre-crimine” e, questo, proprio in virtù dell’estrema pericolosità di alcune tipologie di reati, terrorismo in primis, verso i quali ci si deve porre inevitabilmente come “barriera di sicurezza” volta a proteggere, in via preventiva e in modo anticipatorio, gli interessi della collettività.
Orbene, la conseguenza di tale impostazione penal-preventiva risulta quella di un parziale e delicato discostamento dai principi penalistici fondamentali (sostanziali e procedurali) propri del diritto penale classico, con delle generali flessibilizzazioni procedenti lungo una linea di confine sicuramente impervia ma, pur sempre, entro una sfera di legittimità, lontana dalla spregevole pratica del c.d. “diritto penale del nemico”.
L’anticipazione della soglia della punibilità e la conseguente previsione di nuovi reati autonomi sono fondati, infatti, “su di una logica di normalità penale connessa a normali esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale”, dove il paradigma essenziale diventa, la c.d. “responsabilità penale anticipata”, per la quale può essere criminalizzato, altresì, il compimento di un semplice atto preparatorio, apparentemente neutrale ma potenzialmente prodromico di crimini atroci, come quelli terroristici.
Proprio in virtù della necessaria tutela dei beni primari (individuali e collettivi) della società, si sancisce la possibilità di un’irrinunciabile flessibilizzazione del principio di offensività, in nome di una sicurezza anticipata che sappia, quindi, tutelare adeguatamente i propri cittadini e le proprie istituzioni, sempre ovviamente nei limiti della costituzionalità e dei principi cardine di uno Stato di diritto.
Tale particolare approccio penalistico, benché criticato da gran parte della dottrina, non è assolutamente privo di una logica razionale, proprio perché: “la tutela di beni individuali o collettivi esige interventi penali preventivi, risultando di poca utilità punire il danno che si è già verificato. […] i fenomeni criminali contro beni istituzionali, qualora non bloccati sin dalla fase preparatoria o associativa, rischiano di minare le stesse istituzioni democratiche repubblicane”.
L’odierna politica criminale europea (e occidentale in generale), per contrastare il dilagare del fenomeno terroristico internazionale di matrice islamica (o Nuovo Terrorismo Insurrezionale), cerca appunto di valorizzare tecniche di tutela anticipata che consentano di intervenire in una fase precedente a quella dei delitti di attentato. Vengono infatti previste fattispecie preparatorie, prodromiche e collaterali rispetto ai delitti di terrorismo, proprio perché ben si adattano al nuovo impianto strutturale del terrorismo internazionale, estremamente fluido e puntiforme, che agisce mediante una rete intricata di numerosissime piccole cellule, scevre da qualsiasi ordine gerarchico ed emblematicamente rappresentate dai lupi solitari e dai foreign fighters.
In questo senso, siffatte norme incriminatrici progressivamente consolidatesi attraverso una c.d. “incidenza/influenza invertita”, pur presentando delle sfumature leggermente “orwelliane”, si sono rese necessarie a fronte dell’incessante proteiformità del terrorismo; evitando, altresì, che le attività dell’antiterrorismo venissero eccessivamente delegate a forze di polizia, intelligence e misure politico-amministrative, svincolate da un pregnante controllo giudiziario.
Ciò posto, è da notare come parte della dottrina critica verso questa “criminalizzazione preventiva” suggerisca, in alternativa, proprio l’utilizzo di strumenti giuridici tipici del diritto amministrativo e di quello di polizia, non considerando che solo il diritto penale sia in grado di assicurare tutta una serie di garanzie procedurali non previste, al contrario, da altri rami del diritto.
Ulteriori proposte dottrinali sono altresì fautrici, da un lato, di un nuovo corpo normativo ad hoc, e.g. con la creazione di un diritto speciale c.d. “della prevenzione” o “dell’intervento” e, dall’altro, di una valorizzazione del diritto di guerra sulla scia dell’impostazione statunitense, trattando pertanto i terroristi alla stregua di veri soldati combattenti e non, invece, come dei criminali.
Nell’ipotesi di un diritto ad hoc appositamente plasmato ex novo per i reati terroristici, slegato dalle logiche del diritto penale e, quindi, senza le relative garanzie sostanziali e procedurali, il risultato sarebbe quello di trattare il terrorista come un soggetto “altro”, creando praticamente un sistema di diritto dualistico e con il rischio di sfociare nel vituperato diritto penale “del nemico” ovvero “del diverso”.
Ancor peggio sarebbe, poi, un antiterrorismo fondato sull’impostazione propria della war on terror, mediante l’utilizzo di commissioni speciali, tribunali militari e detenzioni illegali (vd. Guantanamo), considerando de facto il terrorismo alla stregua di un successore della guerra convenzionale, con un conseguente riconoscimento dell’“onore delle armi” e del “privilegio di belligeranza”.
Assodato, quindi, che il diritto penale costituisca l’unica vera garanzia contro le possibili violazioni della rule of law, sarebbe utile considerare, piuttosto, le modalità con cui delimitare e regolamentare tale diritto penale preventivo, ovverosia come gestire efficacemente e razionalmente la criminalizzazione preventiva, fornendo degli “standard operativi comuni”, in conformità alle istanze di proporzionalità.
Proprio in questa direzione, è possibile citare la Risoluzione del 18° Congresso Internazionale di diritto penale dell’AIDP del 2009, a Istanbul, con l’elencazione di precise condizioni che renderebbero pienamente legittima la punibilità degli atti preparatori, così da scongiurare un eventuale abuso da parte del legislatore. Tali requisiti sono:
1) necessità di prevenire la commissione di un reato particolarmente grave, che causi un danno alla vita, al corpo o alla libertà degli esseri umani;
2) una precisa determinazione legislativa delle condotte preparatorie che possono essere punite, evitando il ricorso da parte del legislatore a clausole generali nonché, soprattutto, alla criminalizzazione della mera intenzione di commettere un reato;
3) le condotte punibili a titolo di atto preparatorio devono essere rigorosamente connesse alla commissione del reato principale e questa connessione deve essere obiettivamente identificabile in modo tale da costituire una concreta e imminente minaccia al bene giuridico indicato al punto 1;
4) l’autore punibile è solo quello che agisce con l’intenzione diretta (dolus directus) di commettere un concreto e specifico reato principale.
Più rilevanti, comunque, risultano essere le linee guida desumibili dalle posizioni della giurisprudenza e dalle più recenti pronunce dei vari organi giurisdizionali.
In questo senso, prima di addentrarci nei meandri degli orientamenti giurisprudenziali, possiamo intanto suddividere le suddette fattispecie criminali preparatorie in due generiche macro-categorie: quella dei delitti associativi e quella dei delitti non associati.
All’interno della prima categoria, si possono ricondurre i c.d. “reati riconducibili ad un gruppo o ad un’organizzazione terroristica”. Le maggiori criticità che insidiano tali fattispecie riguardano, sicuramente, la condotta della “partecipazione” entro un gruppo od organizzazione terroristica, con particolare riferimento alla sfumatura della “mera adesione psicologica”.
Invero, la figura del partecipe produce notevoli problematiche poiché, trattandosi precisamente di un reato a forma libera, non viene descritto in modo puntuale e tassativo; esso, pertanto, potrebbe astrattamente configurarsi attraverso molteplici condotte di partecipazione al programma criminoso, dall’agevolazione all’esecuzione materiale, finanche all’istigazione e al concorso morale.
In primo luogo, sulla base di una recente sentenza del Tribunale spagnolo dell’Audiencia Nacional, si possono preliminarmente enucleare alcune peculiarità del moderno concetto di integración, quindi “inserimento/partecipazione” in un gruppo terroristico: “questa nuova forma di inserimento (in molti casi di auto-inserimento) di una persona all’interno di un gruppo terrorista jihadista non avviene attraverso un atto formale esterno di riconoscimento reciproco e con un incontro di volontà tra le parti, ma si perfeziona invece quando gli aspiranti partecipanti, in modo libero e volontario, facciano propri l’ordine e le direttive dell’organizzazione terroristica, compiendo azioni in base alla linea desiderata”.
Siffatta innovativa descrizione riflette, pacificamente, l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, desumibile da alcune sue recenti pronunce: in una di queste (Cass. Pen. sez. V, 13 luglio 2017, n. 50189.) si riconosce che l’odierna partecipazione ad un’associazione con finalità terroristiche sia ormai contraddistinta da “modalità di adesione aperte e spontaneistiche che non implicano un’accettazione formale del negozio sociale da parte dell’apparato del sodalizio, bensì propongono l’inclusione in progress di individui o cellule che condividono l’obiettivo terroristico e la sua dimensione di matrice religiosa estremista, attraverso il richiamo e l’ispirazione a disvalori di propaganda, proclamati su scala internazionale ed attivizzati mediante diffusione di video, immagini e comunicati diretti a tale scopo, potendosi prescindere da un qualsiasi atto di investitura formale”.
Un’altra sentenza (Cass. Pen., sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 14503.), in modo non dissimile, afferma che l’attività di “partecipazione all’Isis o, comunque, ad analoghe associazioni internazionali di matrice islamica” sia caratterizzata da una “formula di adesione aperta”, al fine di favorire l’inserimento di aspiranti terroristi entro l’alveo dei moderni “nuclei terroristici strutturati a cellula o a rete, che sono in grado di operare a distanza attraverso elementari organizzazioni di uomini e mezzi […] in totale autonomia organizzativa”.
L’aspetto più rilevante di tali massime giurisprudenziali è, senza dubbio, il riconoscimento di una nuova particolare tipologia di condotta partecipativa c.d. “per adesione” aperta tra le flessibili maglie reticolari del New Insurrectional Terrorism, dominato dal “premium-brand” dello Stato Islamico, dalla sua strategia di “marketing del terrore” e, soprattutto, dalla c.d. “esternalizzazione della violenza in outsourcing”.
Tali sentenze, pur concordando sull’interpretazione estensiva della condotta partecipativa e sull’ampliamento dell’alveo applicativo, lasciano invece trasparire delle posizioni divergenti in merito alle concrete modalità di suddetta “partecipazione per adesione”.
Dalla pronuncia n. 50189/17 si evince la rilevanza penale dell’attività di proselitismo e della personale adesione psicologica nonché, di conseguenza, dell’“adesione spontanea”, con il solo requisito-limite di una “puntuale verifica dell’offensività in concreto della condotta partecipativa, ossia dell’effettiva possibilità di azione della cellula cui il singolo aderisce”.
Nella sentenza n. 14503/17, invece, si arriva a negare la rilevanza della semplice adesione psicologica in incertam personam e, contestualmente, si pretende la dimostrazione dell’inequivocabile inserimento dell’aspirante terrorista nell’organizzazione criminale, contestando, pertanto, “l’automatica estensione della prova della partecipazione di un soggetto ad una cellula locale di matrice jihadista alla dimostrazione dell’adesione dello stesso all’associazione terroristica internazionale cui il sodalizio si ispira”. In altre parole, nella pronuncia in esame, si sostiene la necessaria realizzazione di “contatti operativi biunivoci”, tra il soggetto e l’organizzazione terroristica madre (Cass. Pen., sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 40348; Cass. Pen. sez. VI, 12 giugno 2018, n. 51218), sconfessando pertanto la “transitività” della condotta partecipativa per adesione e la bastevolezza della generica “messa a disposizione”.
È quindi vero che, da una parte, vi sia un generale allargamento delle maglie del reato partecipativo per estenderne il raggio d’azione mentre, dall’altra, permangano alcune divisioni interpretative di carattere sia giurisprudenziale che dottrinale.
Anche la dottrina, invero, pur negando la sufficienza della mera adesione psicologica all’associazione scevra da qualsiasi altro requisito, si dimostra comunque divisa sull’individuazione dei precisi contorni oggettivi integranti la suddetta condotta partecipativa. Come una parte di essa, infatti, richiede un’attenta valutazione sull’effettivo, concreto e consapevole contributo dell’agente nei confronti dell’associazione; un’altra parte considera sufficiente che la mera volontà del partecipe sia semplicemente accettata dagli altri associati, con una conseguente assunzione di un generico ruolo all’interno del sodalizio criminoso.
A tal proposito, è d’uopo asserire che, per quanto sia necessario valorizzare la materialità della condotta partecipativa per evitarne un eccessivo annacquamento, sia altresì doveroso considerare la consolidata destrutturazione cellulare dei gruppi terroristici e la qualificazione europea, in termini sempre più ampi e flessibili, dei concetti di organizzazione terroristica e di partecipazione; con una conseguente inclusione di generiche condotte, quali la fornitura di informazioni, di mezzi materiali e di ausili economici (art. 4 (b), Direttiva UE 2017/541).
Per quanto riguarda, infatti, la frammentarietà dei nuovi modelli sodali è pacifico che il minimum organizzativo richiesto sia integrato, altresì, dalle “strutture cellulari proprie delle associazioni di matrice islamica, caratterizzate da estrema flessibilità interna, in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che, di volta in volta, si presentano, in condizioni di operare anche contemporaneamente in più Stati, ovvero anche in tempi diversi e con contatti fisici, telefonici o comunque a distanza tra gli adepti anche connotati da marcata sporadicità…”; di conseguenza “l’organizzazione terroristica transnazionale assume le connotazioni, più che di una struttura statica, di una "rete" in grado di mettere in relazione soggetti assimilati a un comune progetto politico-militare, che funge da catalizzatore dell’affectio societatis e costituisce lo scopo sociale e sodalizio” (Cass. Pen. sez. V, 11 giugno 2008, n. 31389).
Nella medesima direzione, già alcuni Stati membri avevano previamente iniziato ad interpretare, in modo decisamente estensivo, le varie figure degli attori terroristici: in Francia, nel 2014, è stata introdotta l’innovativa fattispecie dell’entreprise individuelle (art. 421-2-6 c.p.), la quale “sanziona, a determinate condizioni, il compimento individuale di meri atti preparatori che preconizzino un pericolo per la vita o l’integrità fisica delle persone, quali la consultazione abituale di pagine web o la detenzione di files digitali o documenti di propaganda che provochino direttamente alla commissione di atti di terrorismo o che ne facciano comunque apologia”; in Spagna, affianco alle fattispecie dell’associazione od organizzazione terroristica, è stata introdotta quella del grupo terrorista (art. 571 c.p.), “la cui struttura viene invece ricavata […] a contrario dalle caratteristiche dell’associazione od organizzazione terroristica e il cui trattamento sanzionatorio è per giunta parificato, qualora ne venga provata la finalità di terrorismo, a quello previsto per la più articolata (e dunque più grave) ipotesi di associazione/organizzazione”.
Pertanto, proprio per ricomprendere siffatti nuovi modelli organizzativi notevolmente destrutturati (costituiti da singole “cellule dormienti locali”) entro l’alveo applicativo del reato associativo, il prevalente orientamento giurisprudenziale ha convenuto sulla sufficienza di un’unica condotta di supporto alle finalità dell’organizzazione terroristica, quale il proselitismo, la diffusione di documenti di propaganda, l’assistenza agli associati, il finanziamento, la predisposizione o acquisizione di armi o documenti falsi, l’arruolamento nonché l’addestramento.
Ordunque, risulta pacificamente ammissibile la valorizzazione penale, almeno ai fini cautelari, altresì di semplici forme di supporto logistico e della mera ospitalità di comprovati appartenenti al gruppo criminale (Cass. Pen. sez. I, 09 ottobre 2018, n. 51654; Cass. Pen., sez. I, 14 dicembre 2016, n. 47038).
In questo senso, è agevolmente comprensibile la tendenza legislativa volta a qualificare l’associazione terroristica alla stregua di un “reato di pericolo presunto (o astratto)”. Inoltre, alla luce dei recenti sviluppi dottrinali, può risultare astrattamente configurabile il perseguimento penale tanto dei c.d. “scopi terroristici solamente mediati”, cioè di coloro che abbiano concesso la propria disponibilità all’unità cellulare dislocata, privi della consapevolezza del progetto criminoso complessivo, quanto del “concorso esterno” altresì in ambito terroristico.
A tal proposito, si ricordi come il dibattuto concetto di concorso esterno (in associazione di stampo mafioso) risulti integrato “nei confronti di quei soggetti che pur restando estranei alla struttura associativa apportino un concreto e consapevole contributo causalmente rilevante alla conservazione, rafforzamento e conseguimento degli scopi dell’organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali, sempre che sussista la consapevolezza della finalità perseguita dall’associazione a vantaggio della quale è prestato il contributo” (Cass. Pen., sez. I, n. 16549/2010).
Per quanto attiene, invece, ai “delitti non associati”, vi si devono ricomprendere tutte le fattispecie degli “atti preparatori connessi e collaterali ad attività terroristiche”.
Non v’è dubbio alcuno che, data la loro non sempre chiara determinazione unita ad una mancanza di tassatività e uniformità, sorgano soventi diversi problemi interpretativi.
In particolare, le fattispecie criminose che più catalizzano criticità, in virtù della loro pericolosissima rilevanza pratica nell’alveo del processo di radicalizzazione, risultano essere quelle dell’arruolamento e, soprattutto, dell’addestramento (o auto-addestramento) con finalità di terrorismo.
In tema di arruolamento, qualificato dalla Corte di Cassazione come “serio accordo tra le parti per la successiva commissione di atti di terrorismo”, possiamo sicuramente citare la sentenza n. 40699/15 (Cass. Pen., Sez. I, 9 settembre 2015, n. 40699, “Elezi”). Da essa, in particolare, si ricava il preciso significato del concetto di “serietà” dell’accordo, identificandola sia come “autorevolezza della proposta”, tale da garantire un concreto inserimento dell’aspirante terrorista entro la struttura organizzata, sia come “fermezza della volontà dell’arruolato di adesione al progetto”. L’aspetto più rilevante, però, pur rimarcando la “ovvia necessità di distinguere i caratteri del tentativo punibile rispetto alle attività di mero proselitismo o libera manifestazione del pensiero”, risulta essere la riconosciuta configurabilità del “tentativo” ex art. 56 c.p. in relazione al delitto di arruolamento; negando, sostanzialmente, l’incompatibilità strutturale tra un’interpretazione estensiva delle previsioni di cui all’art. 56 c.p. e la ormai consolidata natura di “reato di pericolo” dell’arruolamento terroristico. D’altronde, è proprio la Direttiva 541/2017 a richiedere ai singoli Stati membri il dispiegamento di “misure necessarie affinché sia punibile il tentativo” relativo ai delitti di terrorismo e alla maggior parte dei reati connessi ad attività terroristiche, tra cui anche la fattispecie del reclutamento (art. 14(3), Direttiva UE 541/2017).
Riguardo all’addestramento, invece, esso è sintomatico di un’effettiva idoneità psico-fisica a porre in essere potenziali delitti di terrorismo, rendendo concretamente abili a realizzare siffatte attività. Tale condotta si differenzia da quella dell’(auto)indottrinamento ideologico radicale, riferibile essenzialmente alla sfera interiore del futuro terrorista. In ogni caso, risulta innegabile l’intimo connubio tra le due fattispecie, fra loro sostanzialmente complementari: se, da una parte, l’indottrinamento inculca idee estremiste e stravolge le menti dei radicalizzandi; dall’altra, l’addestramento è il mezzo pratico per la concretizzazione dei propositi ideologicamente violenti.
Tale interconnessione, oltretutto, è espressamente codificata all’art. 575 del Codigo Penal spagnolo, in cui si tratta proprio di adoctrinamiento unitamente all’adiestramiento.
Inoltre, nella sentenza 1627/2018 dell’Audiencia Nacional, risulta eloquentemente descritto l’intero procedimento di “adoctrinamiento en el radicalismo yihadista” e di (auto)addestramento, rivelatisi poi prodromici dell’attentato terroristico del 17 agosto 2017 a Barcellona (Audiencia Nacional. Juzgados Centrales de Instrucción, Roj: AAN 1627/2018).
Anche la condotta di addestramento viene inserita tra le fattispecie di atti prodromici al compimento di azioni di terrorismo e la si considera come una tipica ipotesi di “reato di pericolo”. Per di più, oltre alla criminalizzazione dell’addestratore, si è prevista la punibilità sia del soggetto che riceva l’addestramento sia di colui che si auto-addestri in via autonoma.
A tal proposito, si è recentemente espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6061/16, la quale ha offerto interessanti spunti interpretativi nonché fondamentali linee guida in relazione alla predetta fattispecie ma anche, più in generale, a tutto l’insieme delle condotte collaterali ad attività terroristiche.
Nel caso particolare, si trattava di un giovane di origini marocchine, accusato di aver concluso un iter di auto-addestramento in relazione all’utilizzo di armi, esplosivi, sostanze nocive o, comunque, di tecniche strumentali alla realizzazione di attentati terroristici, ovverosia una tipica attività propriamente riferibile ad un c.d. “lupo solitario”. La Suprema Corte ha così ritenuto che il combinato disposto tra la consultazione di manuali online, contenenti istruzioni sulla realizzazione di condotte terroristiche, il contatto assiduo con ambienti dell’estremismo islamico radicale e la pianificazione di viaggi in località “sensibili”, fosse un indicatore sufficiente per la convalida della carcerazione del presunto terrorista.
In questo senso, viene confermata (altresì a livello giurisprudenziale) l’equiparabilità tra “auto” ed “etero” addestramento con finalità di terrorismo, con una conseguente rilevanza penale per entrambe le fattispecie, ritenute pertanto ipotesi di reato di pericolo.
Le fattispecie oggetto d’esame, pertanto, prevedono la punibilità di reati ostacolo, ovverosia di condotte che non sono in concreto e direttamente lesive del bene giuridico tutelato, ma costituiscono atti preparatori dell’attività terroristica vera e propria.
Precisamente, siffatte condotte sono da qualificarsi come “delitti a consumazione anticipata”. In tal caso, si tratta di consumazione anticipata in reati a dolo specifico e ciò significa che la finalità ultima del soggetto agente, non essendo necessario che si concretizzi materialmente l’oggetto del dolo specifico, possieda già una propria rilevanza autonoma; questo, però, “a patto che si traduca in un quid che mostri la propria funzione sul piano del disvalore oggettivo d’azione […] è evidente che sia proprio la connessione materiale-teleologica tra fatto e scopo a rilevare ai fini della concreta costituzione di un pericolo per il bene di riferimento, riverberandosi in senso eziologico sulla condotta, alla stregua dei giudizi di idoneità e univocità propri del modello del delitto tentato”.
In questo senso, la Cassazione ha comprensibilmente rimarcato come non sia sufficiente la mera rappresentazione mentale e astratta di una violenta idea insurrezionale, essendo infatti necessaria una specifica e inequivocabile condotta volta a realizzare oggettivamente il programma terroristico. Non possono rilevare, pertanto, le semplici attività di proselitismo e di informazione (da ritenersi in sé lecite), richiedendosi, al contrario, il compimento di vere condotte di (auto)addestramento, oggettivamente e idoneamente strumentali al programma criminoso, nonché univocamente indirizzate all’obiettivo finale (Cass. Pen., Sez. I, 6 novembre 2013, n. 4433); tutto ciò da valutarsi, caso per caso, secondo l’impostazione tipica del “pericolo concreto”.
Ciò posto, vi è ora un particolare elemento da considerare, sempre alla stregua della sopracitata evoluzione strutturale delle cellule jihadiste e, più in generale, delle più recenti manifestazioni del nuovo terrorismo internazionale. Anche il concetto di “addestramento”, invero, ha subito un profondo cambiamento e, insieme alla sua forma più tradizionale (nell’addestramento “classico” si ha un contatto diretto tra i due soggetti, addestratore e addestrato, secondo i caratteri tipici dell’attività militare o paramilitare), vanno via via consolidandosi modalità sempre più immediate e impersonali, profondamente catalizzate dall’avvento di internet e dei mezzi telematici. In questo senso, è ormai sempre più diffusa, dal lato attivo, la condotta di “fornire istruzioni ad incertam personam” mentre, dal lato passivo, quella di “acquisire autonomamente siffatte informazioni”, verosimilmente disseminate online e potenzialmente accessibili a chiunque.
Orbene, tale è l’aspetto maggiormente rilevante e proprio questa è la fattispecie più inquietante, “la cui pericolosità appare ictu oculi manifesta e che certamente giustifica una ancor più accentuata anticipazione della soglia della rilevanza penale: non foss’altro per la potenziale, enorme diffusività di quel bagaglio di conoscenze, messo a disposizione di un numero indeterminato e pressoché infinito di lupi solitari, con organizzazioni terroristiche pronte ad ascrivere a sé la riferibilità dei comportamenti violenti posti in essere da soggetti auto-informati, rispetto ai quali le organizzazioni medesime non avevano avuto alcuna occasione di contatto a dispetto della, postuma, rivendicazione”.
3. Conclusioni
Se è dunque vero che, da un lato, risulti necessario il rispetto dei principi di proporzionalità e offensività, oltre che l’attenta osservanza dei requisiti d’idoneità e di univocità delle condotte prodromiche del terrorismo; dall’altro, egualmente, è pacifico come non sia più possibile evitare il ricorso al diritto penale preventivo. Poco conta, nella sostanza, che lo si arrivi ad apostrofare come diritto penale al limite (“scelte di politica penale nelle quali principi e garanzie proprie del diritto penale subiscono flessibilizzazioni che si muovono comunque in un’area limitrofa ad un confine pericoloso, quello al di là del quale si vanificano, in nome della ragion di Stato, garanzie e diritti individuali sui quali si fonda l’ordinamento democratico”) o diritto penale dell’autore pericoloso (“viene incriminato in ipotesi chi, pur non essendo ancora terrorista, lo vuole diventare mediante atti preparatori distinti dalla mera manifestazione di volontà”), paventando un suo nefasto allontanamento dal “fatto compiuto”.
Invero, siffatta normazione incentrata sull’anticipazione della soglia penale e sulla contestuale proliferazione dei reati di pericolo (soprattutto astratto) risulta ampiamente comprensibile alla luce dell’importanza del bene giuridico tutelato e del pericolo afferente alle multiformi espressioni della nuova tipologia di terrorismo.
In tal senso, la delicata problematica relativa al possibile limite cronologico entro cui poter anticipare la soglia della punibilità può venire agevolmente superata, sempre all’interno di un quadro stabile di principi costituzionali, considerando il combinato disposto tra la potenzialità lesiva dei delitti con finalità di terrorismo e il relativo disvalore penale psico-fattuale.
Inoltre, anche il contestato difetto di materialità risulta pienamente controbilanciato dall’oggettiva valorizzazione del dolo specifico della finalità terroristica, la quale impregna di offensività l’intera condotta antigiuridica e permette di sanzionare penalmente comportamenti astrattamente leciti.
Per tutto quanto suesposto, l’invasività, la pericolosità e l’incontrollabilità delle nuove manifestazioni terroristiche, di cui sopra, richiedono necessariamente una lucida e razionale “flessione delle garanzie”; questo, proprio ai fini di una vera tutela “proattiva” e “pre-crimine”, che sappia arrivare, anticipatamente, rispetto alla consumazione di un delitto terroristico, cioè un fatto potenzialmente carico di enorme offensività.