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Le nuove cure straniere: la cittadinanza come questione cruciale

Servizio sanitario
Servizio sanitario

Ospedali italiani senza specialisti e medici senza cittadinanza: la questione dell'accesso al pubblico impiego per gli stranieri.

 

Indice

1. La crisi dei medici

2. La normativa sulla cittadinanza

 

1. La crisi dei medici

Il 52% dei medici europei che espatriano indossa il camice bianco italiano: è la percentuale più alta del vecchio continente. A seguire e ben distanziati i tedeschi col 19%[1].

Nel frattempo gli ospedali di Veneto, Molise ed Emilia Romagna, per sopperire alle drammatiche carenze di organico, richiamano medici in pensione proponendo contratti di collaborazione. In altri ospedali invece, come quello di Foggia, si guarda all’estero e al personale straniero (disponibilità sono arrivate dalla Romania)[2].

La questione riguarda in particolar modo gli specialisti: da un lato, l’assenza di fondi e i conseguenti tagli alle borse di studio per le specializzazioni hanno prodotto un sorta di “effetto imbuto”, impedendo a molti laureati in medicina di proseguire il percorso formativo (circa 3/4 mila neolaureati l’anno non accedono alle scuole di specializzazione post laurea); dall’altro, si stima che la recente introduzione della c.d. “quota 100” consentirà  nei prossimi sette anni ad oltre 52.000 specialisti, e nei prossimi tre a circa 23.000, di accedere anticipatamente al pensionamento.

Di fronte a questa situazione il Ministero della Salute si impegna ad avviare un dialogo col M.I.U.R. per rivedere le modalità di accesso ai test di Medicina ed il sistema di formazione post laurea dei medici, ragiona sull’introduzione di un contratto di formazione-lavoro per lavorare già durante il periodo universitario e si impegna a concordare con le Regioni piani di assunzione e stabilizzazione dei precari[3].

Ma nel frattempo l’emergenza rimane e i concorsi vanno deserti.

Tuttavia ci sarebbero delle risorse cui attingere per cercare di aggredire il problema in tempi brevi: in Italia 18.500 medici stranieri, non potendo partecipare ai pubblici concorsi, lavorano soprattutto in strutture private o, con contratti a chiamata o a termine, nelle strutture pubbliche[4].

 

2. La normativa sulla cittadinanza

L’ostacolo principale all’accesso al pubblico impiego per gli stranieri (medici e no) è la cittadinanza.

Lo Statuto degli impiegati civili dello Stato del 1957 individua nel possesso della cittadinanza italiana uno dei requisiti generali per accedere agli impieghi civili dello Stato (articolo 2 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3). Si tratta di un requisito che trova origine nei nazionalismi ottocenteschi e riscontro nella Carta costituzionale.

Un legame quantomeno privilegiato tra cittadino e funzione pubblica è difatti rinvenibile nella Costituzione: si pensi, ad esempio, all’articolo 51, comma 1 «Tutti i cittadini […] possono accedere agli uffici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza […]» o all’articolo 54, comma 2 «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore […]».

Tutto ciò farebbe pensare al pubblico impiego come a una sorta di “protesi della cittadinanza”. Tuttavia l’attualizzazione del dettato costituzionale e la conseguente contestualizzazione in un mutato quadro giuridico e socio-culturale, ne impongono una lettura diversa che passa per un ripensamento della tradizionale riserva degli uffici pubblici ai cittadini italiani.

Difatti, se è vero che il principio della libera circolazione dei lavoratori previsto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (articolo 45, comma 1) non si applica in materia di impieghi nella pubblica amministrazione, è anche vero che la Corte di Giustizia, sin dalla sentenza “Commissione c. Belgio” del 1980, ha perimetrato la portata di tale deroga limitandola a quel «complesso di posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio di pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato […]».

Tale limitazione è stata recepita dalla legge di riforma del pubblico impiego del 1993, la quale stabilisce che «i cittadini degli Stati membri […] possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale» (articolo 38 T.U.P.I.).

Nonostante la difficile definizione del concetto di “pubblico potere” (normalmente ricondotto a quello di potere autoritativo), il successivo decreto attuativo - d.P.C.M. del 7 febbraio 1994, n.174 – individua posti e funzioni per cui è necessaria la cittadinanza: da un lato, livelli dirigenziali e di vertice, dall’altro, determinate carriere (ad es. la magistratura) e determinate amministrazioni (ad es. Presidenza del Consiglio).

Va comunque detto che la giustizia amministrativa ha rilevato che non si può applicare la riserva di cittadinanza a tutti i livelli dirigenziali indiscriminatamente, ma è necessaria una verifica caso per caso del reale esercizio di pubblico potere che il posto comporta. Ha inoltre escluso dal requisito della cittadinanza determinati ruoli o incarichi (ad es. direttore di musei di rilevante interesse nazionale e presidente di autorità portuale)[5].

Per quanto riguarda, invece, l’accesso al lavoro pubblico degli stranieri non europei, l’Italia conserva il tradizionale atteggiamento di chiusura: fatte salve limitate eccezioni (ad es. professori universitari, lettori, consoli onorari, personale infermieristico ecc.), la cittadinanza ne costituisce il presupposto necessario.

Vale la pena ricordare che nel nostro ordinamento la modalità di acquisto principale della cittadinanza è quella “iure sanguinis”, quindi per nascita da un genitore cittadino; modalità peraltro tipica dei paesi a forte emigrazione come era l’Italia fino a tempi non troppo lontani.

Valore decisamente marginale ha invece l’acquisto della cittadinanza “iure soli”, quindi per nascita nel territorio dello Stato, utile ai soli fini di evitare casi di apolidia (impossibilità di assumere la cittadinanza dai genitori, ad es. perché ignoti o apolidi essi stessi).

Si aggiungono altre tre modalità di acquisto:

per “matrimonio”,

per “beneficio di legge” (discendenti di italiani, stranieri nati in Italia e qui legalmente residenti fino alla maggiore età) e

per “naturalizzazione”.

In quest’ultimo caso l’acquisto della cittadinanza avviene per concessione, c.d. “graziosa”, per meriti (trattasi di casi comunque eccezionali) o in altre sei ipotesi previste dall’articolo 9 della legge n. 91 del 5 febbraio 1992, cinque delle quali prevedono un periodo di residenza legale in Italia (ad es. almeno dieci anni per lo straniero).

 

Ad ogni modo, data la sua irrevocabilità, la giurisprudenza ritiene ampiamente discrezionale il provvedimento di concessione della cittadinanza. In ragione di ciò, oltre alla sussistenza delle condizioni previste dalla legge (che diventano così requisiti minimi), bisogna verificare che vi sia una piena e reale integrazione dello straniero. È bene sottolineare che uno degli indici di integrazione utili a tal fine è il possesso di redditi sufficienti al sostentamento proprio e della famiglia[6].

In questa cornice normativa la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito, ed in modo assoluto, l’inaccessibilità del lavoro pubblico per lo straniero non cittadino[7], con le sole eccezioni previste dall’articolo 38 T.U.P.I. (familiari di cittadini comunitari, lungo-soggiornanti, rifugiati, titolari di protezione internazionale). Tale esclusione non sarebbe quindi in contrasto col dettato costituzionale.

Va comunque segnalato un diverso orientamento di parte della giurisprudenza di merito secondo cui il principio di parità di trattamento e di non discriminazione (previsto dal T.U.I.), quello di pari dignità sociale (articolo 3 Cost.) e quello dell’uguaglianza nella tutela del diritto al lavoro (articolo 4 Cost.), imporrebbero invece l’accesso agli impieghi pubblici (con le eccezioni valide anche per i cittadini comunitari) a tutti gli stranieri regolari anche se non cittadini.

Dunque il tema della cittadinanza rimane cruciale e pare sempre meno procrastinabile una sua rilettura critica.

Resta infatti da chiedersi se non sia il caso di intervenire su una legge sulla cittadinanza che, nel suo impianto di base, rimane ancorata ad un’idea quantomeno primo-novecentesca di Stato e di appartenenza allo Stato.

Le modifiche apportate alla legge sulla cittadinanza del 1912 (la n. 555) prima dall’entrata in vigore della Costituzione, poi dalla riforma del diritto di famiglia e, da ultimo, dalla riforma del 1992, non sembrano infatti aver messo radicalmente in discussione l’impostazione originaria dell’istituto.

Se i tempi non sembrano essere ancora maturi per interventi di questo tipo, si spera lo siano comunque per quelli nelle sale operatorie italiane.

 

[1] Cfr. F.M., La grande fuga di medici dall’Italia: gli Emirati li tentano con mega stipendi, in “Il Messaggero”, 28.04.2019

[2] Cfr. Francesca Angeli, La soluzione contro l’esodo da quota 100. Aprire gli ospedali ai medici dall’estero, in “Il Giornale", 30/03/2019; Antonio Castro, La sanità si aggrappa ai medici in pensione, in “Libero”, 10.04.2019.

[3]  Cfr. Flavia Amabile, Costretti a richiamare i medici in pensione. Negli ultimi vent’anni la politica ha fallito, in “La Stampa”, 03.04.2019.

[4] Cfr. Francesca Angeli, La soluzione contro l’esodo da quota 100. Aprire gli ospedali ai medici dall’estero, in “Il Giornale", 30/03/2019.

[5] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 3666/17; Cons. Stato, sez. IV, n.1210/15

[6] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, n.974/11; Cons. Stato, sez. VI, n. 4862/12

[7] Cfr. Cass. sez. lavoro, n.ri 24170/06 e 18523/14